Scherzare col fuoco

di Monini Francesco

Il piromane della Casa Bianca
Donald Trump ha spinto il bottone e i droni americani – le armi anonime, silenziose e vigliacche del presente e del futuro – hanno fatto saltare in aria e ucciso il potentissimo generale iraniano Qasem Soleimani, numero due del regime di Teheran.
L’ultima follia del presidente Trump – ma le sue follie rispondono sempre a un calcolo politico-elettorale – ha rischiato di portarci a una guerra globale. Per fortuna il governo teocratico e totalitario iraniano deve oggi fare i conti con una montante protesta popolare.
Così la reazione alla provocazione Usa è stata per così dire «moderata»: qualche missile su due basi militari statunitensi e della coalizione internazionale anti-Isis in Iraq, rase al suolo, ma nessun morto o ferito. Li avevano avvertiti prima; immagino una telefonata del tipo: «Pronto, scappate tutti fuori perché fra mezz’ora vi bombardiamo».
Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da tremare.
L’Iran ha ammesso che per ha abbattuto, per errore, nelle ore successive, un aereo della Ukraine International Airlines dove sono morte tutte le 176 persone a bordo, tra passeggeri e membri dell’equipaggio.
Questa volta l’abbiamo scampata bella. Ma il presidente americano – presente e futuro, visto che a novembre verrà rieletto al cento per cento – continua a scherzare col fuoco. E a fuoco, se qualcuno non lo ferma, ci andremo tutti.

L’ombelico d’Italia
19 gennaio. Fra una settimana si vota in Emilia Romagna e saranno elezioni che varranno per l’Italia intera. Perché in questo scorcio di inizio anno l’Emilia è l’ombelico d’Italia.
Matteo Salvini l’ha capito benissimo, infatti la sta girando palmo a palmo. Viaggia col turbo per città, paesi e paesini, dieci, anche quindici comizi al giorno, e ovunque un bagno di folla. È il suo momento. Potrebbe esserlo. È il momento per dare la spallata finale. Invece ai comizi di Zingaretti e di Bonaccini (il governatore di centrosinistra, che corre per la rielezione) ci vanno in quattro gatti.
Salvini ce la potrebbe fare. E se si prende l’Emilia, si prende anche l’Italia. Di sicuro. Se cade l’ultima roccaforte rossa (rossa per modo di dire), il traballante governo giallo-rosso farà la stessa fine. Qui si combatte la battaglia decisiva. Qui, per dirla con il duce, quello di Predappio, «si vince o si muore».
Peccato sia successo qualcosa che complica non poco i piani del duce di oggi, quello della ex Lega Nord, ora Lega di tutti i fratelli d’Italia. Da due mesi sono saltate fuori queste maledette sardine. E riempiono tutte le piazze.

Bologna, 19 gennaio
Oggi con le benedette sardine ci sono anch’io.
E in questa enorme piazza mi pare di stare in altomare, raggiunto, travolto, cullato da onde di voci, canti, emozioni. Una piazza così non capita molte volte in tutta una vita. Quando? Quando finisce una guerra. Quando a San Siro cantava Bob Marley e tutto lo stadio ballava in una nuvola di fumo. Quando moriva un signore di nome Berlinguer. Quando – c’era questa usanza, ma tanto tempo fa – tutti i sindacati chiamavano tutti allo sciopero generale.
Altri tempiââ€šì… ma la piazza di oggi, così giovane e colorata, così arrabbiata e sorridente, mi sembra avere quello stesso, strano e rarissimo sapore. Come quando senti che sta succedendo davvero qualcosa di nuovo. Domani, come al solito, i commentatori si divideranno: per alcuni sarà una piazza pro, per altri una piazza contro. Interrogativo capzioso, o interessato, e comunque un po’ stupido. Perché, se sono contro il nuovo fascismo, sono per una democrazia e una politica diversa. Se sono contro i porti chiusi, sono (automaticamente) per i porti aperti, l’accoglienza, il dialogo, l’integrazione dei nuovi arrivati, i diritti per tutti, a partire da quello di cittadinanza. Mentre canto in coro Bella ciao o leggo in piazza gli articoli della Costituzione, mando un messaggio preciso a una classe politica di sinistra autoreferenziale, con pochissimo coraggio, inscatolata nei tatticismi.

I pugnali di gomma della Repubblica
Luigino ci è rimasto male. Per spiegare le sue dimissioni da capo politico ci ha messo tre quarti d’ora. Non per annunciare il suo passo indietro, quello lo conoscevamo già tutti, ma per lamentarsi, sfogarsi, lanciare velati avvertimenti ai colleghi e ai falsi amici (Dibba in testa) che gli hanno assestato una o più pugnalate alle spalle.
Prima di Luigino, Matteo Renzi è incappato nello stesso, spiacevole inconveniente. Una brutta storia, che Matteo non riesce proprio a mandar giù. Beh, è comprensibile, pugnalate e tradimenti non piacciono a nessuno. Così, da tre anni a questa parte, tutte le volte che un giornale lo intervista, o quando riesce a tornare in televisione, anche se si parla di Libia o di Alitalia o di new economy, lui la ritira fuori. Ai sicari non promette vendetta, non sta bene e non conviene, ma fa capire a tutti che si vendicherà, eccome. Un politico è un lupo per gli altri politici, la sua idea è quella lì. Uguale a quella del dimissionario Luigino.
C’è però qualcosa che non funziona nella narrazione (parola idiota, ma adesso si dice così) di Luigino e Matteo. E cioè: se uno che credevi un amico e sodale, uno del tuo campo, uno che vedi e con cui parli tutti i giorni, trama contro di te, se col favore dell’ombra sta affilando il suo pugnale, perché non te ne sei accorto? Perché non l’hai smascherato, allontanato, denunciato? Perché non l’hai fatto fuori, prima che lui facesse fuori te? E c’è un’altra cosa che proprio non quadra: se ti hanno pugnalato alle spalle, perché non sei morto?

Confronti storici
Cesare Augusto – parlo di quel generale e uomo politico dell’Ultima Repubblica – dai 17 congiurati si prese 17 pugnalate in pieno Senato. Non sappiamo se tra loro ci fosse la presidente Casellati, ma c’era sicuramente Bruto, il figlioccio di Cesare. È improbabile che, con diciassette coltellate in corpo, il dittatore romano avesse ancora il fiato per pronunciare la celebre profezia all’indirizzo di Bruto. Quel che è certo è che Cesare stramazzò al suolo e tirò le cuoia.
È facile notare due plateali differenze tra il regicidio di Cesare e gli accoltellamenti di Renzi e Di Maio. Punto primo: Cesare è stato affrontato di petto, a viso aperto, in pieno Senato della Repubblica, mentre i due leaderini della nostra repubblica sarebbero stati assaliti da dietro. Seconda differenza, decisiva: il grande Cesare è perito nell’attentato delle Idi di marzo, mentre Luigino e Matteo non solo sono sopravvissuti, ma non hanno riportato nemmeno un graffio.
Caio Giulio Cesare è affidato ai libri di storia, Di Maio e Renzi continuano a popolare quello che Berlusconi (un pugnale che funzioni con lui non l’hanno ancora inventato) ha definito genialmente il «teatrino della politica». Generalmente fondano un nuovo partito con nuovi amici.
E Bruto? Il povero Bruto, che oltre a essere «un uomo d’onore», era un sincero democratico e difensore della Repubblica, fu puntualmente sconfitto nella battaglia di Filippi e non gli rimase altro che suicidarsi. Invece i presunti congiurati di oggi – gli occulti e maldestri pugnalatori dentro il Pd e nei 5 Stelle – se la passano piuttosto bene. Gli capita anche di incontrare le loro presunte vittime alla buvette del Parlamento, fare uno spuntino e scambiare due chiacchiere.

Francesco Monini, direttore di Madrugada