Scuola e cultura nella terra dei vivi

di Catalani Alessandra

Coltivare la speranza di futuro

Lo stato delle cose, desolante

Urge collocare il discorso per poter dire anche una sola parola sulla praticabilità della cultura a scuola oggi: dire scuola in Italia nel 2011, infatti, significa rappresentare realtà in cui oltre l’ottanta per cento dei discenti per classe è straniero – e molti sono miseri e non conoscono ancora neanche una parola di italiano il primo giorno in cui siedono sui nostri banchi -, realtà in cui ragazzini di quattordici anni hanno compagni di vent’anni che fin dall’inizio, per far capire chi comanda, mandano segnali di bullismo inequivocabili; classi di 35 studenti stipati come polli in strutture fatiscenti; gruppi di figli amati, protetti e anche iperprotetti da genitori professionisti o comunque a lavoro ancora garantito, i quali non hanno ancora abbandonato la scuola statale non si sa perché. E molte altre differenze, molte altre contraddizioni, molte altre disomogeneità che, guardate in un quadro d’insieme, fanno un mosaico difficilmente interpretabile secondo un’unica chiave di lettura. Ai fini del discorso che qui si vuole aprire non è poi irrilevante il fatto che i docenti, su cui senza dubbio l’intero gioco si regge, sono umiliati e sganciati dal contesto sociopolitico: con tutta evidenza lo Stato che li paga non chiede loro niente se non un babysitteraggio indolente e i cittadini in buona misura li considerano gente a tre mesi di ferie, fuori dal mondo e dal mondo superata. Il quadro è questo ed è sconfortante senza se e senza ma: un punto così basso di attenzione l’Italia alla sua scuola non l’ha dedicato mai. Che poi la crisi possa essere occasione, va detto, sì, ma in seconda battuta.

Il balletto dell’erudizione evapora nel ridicolo

Certo è che finire per essere il luogo ove si mastica e si ripropone indefinitamente uguale a sé stessa una serie di contenuti tradizionali è un rischio esiziale per tutta la scuola, rischio – sia detto non per inciso – che certe aule di frontiera non possono neanche più permettersi di correre per la risibilità immediata che suscita l’inutile ove l’urto del disagio sociale è forte fino all’insostenibilità. Ma nel balletto vanesio e addirittura inestetico dell’erudizione possono lasciare le penne tutti i ragazzi di tutte le scuole, e poi, in fila indiana inesorabile, anche docenti, dirigenti, genitori, personale che a vario titolo all’esperienza scolastica con minore o maggiore impegno partecipa. E per mille motivi, richiamati più o meno lucidamente, più o meno reattivamente, nel dibattito attuale su questa istituzione, nel nostro Paese è sempre più frequente che le scuole che non devono rispondere fisicamente alla marginalità e all’esclusione, e alle problematiche umane e sociali a esse connesse, si inaridiscano nella pseudocultura, addirittura organizzando e sistematizzando una modalità trasmissiva del sapere che sa di operazione di antiquariato o somiglia infine, più che altro, a una spolveratura, anche condotta con metodo, di oggetti un tempo amati, la cui morte non si ha il coraggio di riconoscere e di annunciare. Tuttavia le condizioni per forgiare una cultura a scuola ci sono o ci sarebbero – e non sono neanche solo legate alla ricerca didattica o metodologica in genere, settore in ogni modo quanto mai degno di essere esplorato con ambizione culturale proprio anche nel luogo in cui l’insegnamento si svolge con la sua concretezza quotidiana e corporea.

Dentro una domanda di vita e di felicità

Il primo passo da fare – se diamo come postulato che il quadro sconfortante di cui sopra non deve indurre alla rassegnazione – mi sembra quello che origina dal chiedersi, come scuola appunto, che cosa possa corrispondere adeguatamente alla domanda di vita e di felicità che sale dagli uomini e dalle donne del nostro tempo, considerati uno per uno e come comunità. Se cultura è organizzare la speranza, secondo la sintetica ed efficacissima definizione di Ernesto Balducci, ogni contenuto o atto che si orientino a questa diciamo «organizzazione», che siano esperiti a scuola o in altro luogo, meritano rispetto e salvano l’esperienza educativa dall’insignificanza del meramente decorativo. Abbiamo, ad esempio, in molti l’impressione che siano urgenti competenza e onestà per ricondurre il paese dalla deriva a strade sensate e aperte verso mete praticabili di vita comune. Fa cultura, allora, una scuola che mette in pentola questi temi in modo vivo, arrivando alla loro traduzione, alla loro declinazione sul selciato della storia. Si dovrà per fare questo ritornare al passato, come da varie voci si dice (indulgendo pericolosamente, a mio avviso, a una laudatio temporis acti che non pare all’altezza delle questioni sul tavolo)? Si dovrà rivedere i programmi? Espungere argomenti? Introdurne di nuovi? Forse sì, ma, credo, non prioritariamente.

Si annida una speranza che produce pensiero

Innanzitutto si potrà e si dovrà agire sempre con l’energia che ci vuole per tenere in agenda la questione della speranza (e questo in alcune scuole si fa, in uno sforzo di resistenza contro condizioni vergognosamente avverse). Non mi spaventa dover parlare delle Verrine o di equazioni di secondo grado, di quanto di più solito e di più tradizionalmente paragrafato si trova nei manuali, se la presentazione e la condivisione degli argomenti avviene tenendo lo sguardo sul qui e ora mio e dello studente e se si compie con ordine, con rigore metodologico, con esattezza. Spaventa doverne parlare nel trionfo dello sconforto, quando il laboratorio della costruzione di un domani migliore per ciascuno e per tutti sia chiuso e abbandonato e gli strumenti che lo arredavano siano dismessi, venduti, imballati. Resi inutilizzabili da cumuli di polvere. È quel laboratorio che fa della scuola un luogo di cultura, cosicché in esso, quando sia aperto, diventa secondario il che cosa delle lezioni e assumono pertinenza il come e il perché. Il discorso è troppo complesso per stare in questo articolo che va verso la fine del suo spazio: tentiamo solo di ricapitolarne gli elementi fondamentali. Un ragazzo o una ragazza, una comunità di ragazzi e ragazze, una comunità di docenti dentro una società e un argomento a caso, anche il più peregrino, quello a cui darei meno fiducia, dentro questo smarrimento epocale in cui tutto sembra da buttare via: credo ancora che, sì, possa «accadere» cultura se metto in gioco anche l’energia della speranza. Di una speranza non in debito di ossigeno ma grande, per ognuno e per tutti: lucida fino a costringerci a produrre un pensiero e, soprattutto, un’organizzazione e una modalità inedite dello stare insieme; consapevole fino a impedirci l’esercizio ozioso della ripetizione fine a sé stessa. Indimenticabile l’invito di De André: «A un Dio senza fiato non credere mai».

Alessandra Catalani, insegnante nel liceo di Stato, Jesi (An)