Wir schaffen das

di Monini Francesco

Fateci caso. In ogni luogo, senza dover recarsi nella giungla o in un distretto malfamato, il male vince la sua quotidiana battaglia sul bene. Anzi, a leggere giornali e telegiornali, sembra proprio non esserci partita. Il male non si limita a vincere, stravince. Il male delle guerre e delle stragi terroristiche – più o meno «dimenticate» o «gridate», secondo lontananza o vicinanza dalla vecchia Europa. Il male delle violenze alle donne e ai minori, il male della cattiva politica e della finanza spregiudicata e truffaldina. Sempre e comunque, il male vince e il bene perde. Il forte trionfa e il debole soccombe.

Faccio anch’io questo mestiere e non mi piace sparare sul giornalismo. Ma il dubbio l’ho sempre avuto. Oggi è cresciuto, è diventato un sospetto, quasi una certezza: che il Quarto potere, quello che una volta – almeno qualche volta – faceva tremare lo scranno di re e presidenti, abbia tradito la sua ragion d’essere. Si sia accodato, obbediente ai potenti della Terra.

Non parlo solo dell’eclissi del «giornalismo d’inchiesta», di quel giornalismo coraggioso, quello che ha lasciato sul campo i suoi martiri. Mi sembra di vedere un andazzo generalizzato, forse inconsapevole. Quasi un riflesso incondizionato: mettere la lente d’ingrandimento sul male e lasciare al buio il bene.

Certo, è vero, il male – anche l’orrore – è atrocemente in campo, è tutto intorno (e sopraàe sotto) alle nostre vite. È giusto raccontarlo, darne conto, cercare di capirne cause e pericoli. Ma intorno a noi c’è anche un bene che nessuno racconta, che nessuno indaga, che nessuno intervista. Al male quattro pagine fitte di parole e immagini. Al bene, al giusto che resiste, al nuovo che cerca di nascere, appena un trafiletto, un fondino, una nota di costume. Oppure nulla.

La tentazione è forte, e tutti, anche il sottoscritto, siamo trascinati dalla turbinosa corrente del male. È la scelta più facile. Quindi scusatemi, faccio ammenda, d’ora in poi starò più attento.

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Conosco amici che il televisore in casa non ce l’hanno proprio. Prima era una scelta ideologica, da sinistra bacchettona. Oggi non più: «Che me ne faccio della tivù?» con il pc, portatile, tablet, mp3, podcast, Netflix e via andare, possiamo vedere tutto, come e quando vogliamo.

Giusto, ma io ho sempre difeso la vecchia tivù. Perché è un pezzo importante della nostra storia. E perché quando la guardo è come stare in un cinema affollato. Milioni di italiani stanno guardando la stessa cosa. Insomma, «davanti alla tivù non sei mai solo».

Fin qui la mia simpatia per l’ex scatolone ora dimagrito come una acciuga sotto sale. Non fosse per una piccola disavventura. Sei mesi fa cambio casa e, per una nemesi di cui mi sfugge la colpa, il mio televisore diventa cieco e muto. Non proprio, qualcosina si vede e si sente: gli unici canali raggiungibili sono quelli Mediaset. Che non sono poi tanto diversi dagli altri canali televisivi, sono semplicemente il condensato, il precipitato, la «spremuta del peggio». Appunto. Cercate un po’ di volgarità? Lì, su Canale 5, Rete 4 e Italia 1, troverete tutta la volgarità, la «buzzurragine», il cattivo gusto oggi in circolazione.

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Da vedere – ma attenzione, possono dare dipendenza – due campioni assoluti. Paolo Del Debbio, becero agitatore di folle e commerciante d’odio a metà prezzo, conduttore del preserale Dalla vostra parte. E la brava Barbara D’Urso – mi correggo: bravissima e inimitabile – professionista in tuffi e «sfrucugliamenti» nel gossip e nei delitti insoluti. Non ditemi che la televisione nazional-popolare è sempre stata così.

Ricordate il patetico e tramontato Emilio Fede? Con Paolo del Debbio, anche Fede (così «fiero di servire il padrone» e sfacciatamente di parte) non regge il confronto. Perché con Del Debbio siamo in un’altra epoca; su un altro piano, un «piano superiore»: dalla velina padronale alla istigazione a delinquere.

Per popolarità – e bravura, lo ripeto, perché anche il trash può aspirare alla perfezione – Barbara D’Urso può invece essere accostata a Raffaella Carrà. Ma i tempi sono cambiati, non è più possibile servire a tavola (tra le lacrime) un sano piatto di tagliatelle alla bolognese, bisogna aggiungere peperoncino, spezie, particolari piccanti; e sangue, tantissimo sangue.

Mi sto perdendo. Forse anche io sono cascato nel gorgo. Vado quindi alla morale della favola. Nei sei mesi passati nelle prigioni Mediaset, quando trovavo la forza di azionare il telecomando e di spegnere il mio dolce carceriere, facevo lo stesso identico proponimento: «Domani chiamo l’antennista!». Alla fine, non so perché, non l’ho fatto. È di ieri però la mia piccola vittoria: ho staccato il filo dell’antenna e l’ho cacciato nella raccolta differenziata.

Per il pluralismo televisivo (ammesso che esista una cosa del genere) avrei avuto tutto il tempo. Ora avevo bisogno di una tregua.

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Si parlava del male e del bene. Davvero un bel discorsetto. Ma dovremo pur dire che la civilissima Svezia (esistono asili più belli degli asili svedesi? Nossignore!) ha deciso di espellere gli 80.000 migranti arrivati nel paese durante il 2015? La Finlandia si è subito accodata alla Svezia; ma dove poi li porteranno non si sa: in Libia, in Siria, in Iraq? In mezzo al deserto e alla guerra? Intanto, il dittatore ungherese Orban sta costruendo il suo muro antisfondamento. La Macedonia chiude le frontiere con la Grecia. E molti paesi europei (tanto vale elencarli: Austria, Danimarca, Francia, Svezia e Norvegia) hanno reintrodotto i controlli alle loro frontiere interne (sulle persone, perché le merci passano liberamente!). Se non si riuscirà a regolare e limitare il flusso migratorio, minacciano di sospendere la libera circolazione dei cittadini nello spazio un tempo senza frontiere, sino a un massimo di due anni.

Per una volta ha ragione Matteo Renzi (con le parole lui è formidabile), che da Ventotene ammonisce: «Se cade Schengen, cade l’Europa».

La cosa più impressionante è che nessuno dei tanti leader politici che vogliono chiudere le frontiere e mettere in mora il trattato di Schengen ha un’alternativa credibile da proporre. L’Europa, o quel che ne rimane, sembra in preda a un contagioso cupio dissolvi. Che ci sarà dopo il big bang europeo? Non so, forse non torneremo fino agli Orazi e Curiazi, ma sicuramente perderemo un secolo tondo tondo. Torneremo a Sarajevo, non all’ultima guerra del 1991, ma all’attentato del giugno 1914.

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Il bene a volte si intreccia con il male. Prova a opporsi, spesso non ci riesce, ma almeno dà testimonianza. Mi è piaciuta la foto della ministra della giustizia francese Christiane Taubira che, dopo tre anni e mezzo di mal di pancia, si dimette, esce dal governo, e se ne va in bicicletta tra tanti applausi dei sostenitori. Christiane Taubira dichiara che «a volte resistere significa andar via. Per fedeltà a sé stessi, per dare l’ultima parola all’etica e al diritto».

A me pare una bella notizia. Una sconfitta? Certo, ma una «sconfitta gioiosa». Cristiane Taubira non dice solo un coraggioso no a un presidente imbelle e ridicolo come Hollande, ma testimonia che non si batte il terrorismo con le leggi speciali, e manda un segnale di allarme a tutta la Francia. La ex Grande Francia che a forza di leggi speciali e di modifiche costituzionali sta riducendo le libertà fondamentali del cittadino, lasciando per strada la grande lezione della Rivoluzione dell’89 e della Carta dei Diritti dell’Uomo.

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Wir schaffen das. Noi ce la facciamo. Noi possiamo farcela. È con questo slogan che Angela Dorothea Merkel, cancelliera tedesca, ha proposto e «imposto» al popolo tedesco di accogliere gli immigrati, siriani e non solo. Fino a ora, in Germania sono un milione.

Non voglio parlare ancora del fatto in sé, degli scontri e delle polemiche in atto in Germania. Dal mio punto di vista la signora Merkel non è un’abile opportunista, ma neppure l’angelo dei rifugiati. È un politico realista. Forse l’unico che abbiamo in Europa. L’unica che ha capito che con i respingimenti, i muri, il filo spinato, le frontiere chiuse, non si ferma la marea.

Mi ha colpito come una bella notizia (invisibile su stampa e telegiornali, almeno quelli italiani) che quello slogan un po’ «obamiano» sia stato ripreso e fatto suo da una signora di 84 anni. Ruth Kluger, classe 1931, professore emerito alla Californian University, ebrea scampata per miracolo ai forni crematori di Auschwitz, ha scelto quelle stesse parole per concludere il suo intervento. Berlino, 27 gennaio 2016, tutto il parlamento tedesco si riunisce in occasione della Giornata della Memoria. Ruth Kluger legge senza enfasi l’intervento conclusivo. Racconta brevemente la sua storia «fortunata». Estate 1944, ad Auschwitz un ufficiale tedesco interroga uno a uno i deportati, vuole sapere l’età. C’è una donna che gli fa da interprete, questa donna ha suggerito alla dodicenne Ruth di dichiarare 15 anni. Così ho fatto – racconta ora Ruth ai parlamentari tedeschi – e l’ho detto con l’intrepido orgoglio di una bambina che vuol essere più grande della sua età. L’ufficiale commenta: Mi pare troppo piccola, esile, magra. Ma la stessa donna interviene: No signore, guardi bene, ha le gambe forti, è adatta per lavorare. Cosi Ruth, insieme a tutti gli ultra-quindicenni viene mandata al lavoro forzato. Tutti i bambini invece saranno avviati nel «campo dei bambini» di Terezin e subito gasati. A Terezin si contarono solo 100 sopravvissuti su 15.000.

Ma Ruth non ha ancora finito il suo intervento. Smette di leggere, si toglie i suoi occhialini con la montatura rossa, alza le spalle, si rivolge ai parlamentari. Ringrazia il governo e Angela Merkel per l’invito, confessa che non è abituata a parlare davanti a un consesso così importante, che neppure le piace, che ama invece parlare nelle scuole, ai bambini, ai ragazzi.

Ruth guarda negli occhi i parlamentari e conclude: sono venuta per i rifugiati, per favore accoglieteli, ce la possiamo fare: Wir schaffen das.

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Parecchio tempo fa collaboravo a Cuore, il settimanale satirico, anzi, come recitava il sottotitolo, settimanale di resistenza umana,àfondato e diretto da Piergiorgio Paterlini con Michele Serra e Andrea Aloi. La mia rubrica preferita, la prima che andavo a leggere, si chiamava Chi se ne frega.

Mi è tornata in mente leggendo le roventi polemiche in margine alle statue romane censurate, coperte per non turbare la sensibilità di Hassan Rouhani, il presidente iraniano in visita in Italia per fare affari (la bellezza di 17 miliardi di euro di contratti). Nella conferenza stampa finale, interrogato in proposito, Rouhani ha sorriso indulgente. Si è capito che delle statue se ne fregava allegramente.

Matteo Renzi invece (ma solo il giorno dopo) aveva un diavolo per capello: «Chi è stato! Voglio il colpevole!», ha tuonato. Il ministro della Cultura Franceschini (ma solo il giorno dopo) ha professato la sua innocenza: «È una vergogna, ma io non ero informato!». È incominciata la grande caccia. Forse allora è colpa della Sicurezza, dei Servizi Segreti, del Ministro dell’Interno Alfano… Ma no, diamo la colpa al Capo del Cerimoniale. Ebbene sì, a Palazzo c’è anche un Capo del Cerimoniale. Poverino, perderà il posto, ci scommetto.

Il dramma, anzi, la comica, è proseguita per giorni e giorni. Anche Vittorio Sgarbi ha detto la sua. Ma che peccato che il settimanale Cuore sia morto e sepolto, e con lui anche tutta la satira politica. Peccato, perché le statue censurate andavano a pennello per la rubrica Chi se ne frega. Appunto, proprio come la pensano gli italiani, che francamente hanno ben altro di cui preoccuparsi.