La febbre alta della democrazia

di Monini Francesco

Se il parlamento dimagrisce
Settanta a trenta: come prevedibile, nel referendum per il taglio netto dei parlamentari i Sì hanno largamente prevalso. Non è stato un plebiscito – molti intellettuali, leader politici disubbidienti e tante persone di buon senso si sono espressi per il No – ma la netta vittoria dell’antica bandiera del Movimento 5 Stelle è innegabile.
Difficile e interessante però capire chi sia il vero vincitore della tornata elettorale. Non certo i pentastellati, usciti dalle urne delle elezioni regionali con le ossa rotte, pesantemente ridimensionati, o addirittura spariti: il grande mare dei loro consensi sembra essersi prosciugato.
Il centro-sinistra e il Partito Democratico riescono a tenersi Toscana e Puglia. Salvini rimane fermo al palo e dovrà guardarsi dal suo futuro competitor, il leghista pragmatico Zaia che trionfa nel suo Veneto. La Meloni conquista per la prima volta le Marche. Infine, Conte e il suo governo bipolare possono sperare di arrivare alla fine della legislatura, rintuzzando smottamenti e spinte centrifughe.
Il quadro politico sembra confermato. Ognuno rimane al suo posto. Ma forse non per molto: un durissimo autunno e un gelido inverno ci diranno se gli equilibri politici, che l’esito del referendum ha puntellato, reggeranno davanti all’approfondirsi della crisi. Se basteranno i tanti miliardi in arrivo a turare le falle dell’economia e della società italiana.
Se le tanto promesse e sempre accantonate riforme – vedi Zingaretti – verranno finalmente messe in agenda.
Non so chi possa davvero gioire per un parlamento dimagrito. In sintesi: abbiamo risparmiato due lire e abbiamo tolto rappresentanti a vari territori del Paese. Ma a guardar bene, il referendum è solo l’ultima tappa di un lungo percorso. In realtà il problema è il parlamento stesso, la forma più alta di rappresentanza prevista dalla Costituzione. Da molti anni, da molti governi e di vari colori, il parlamento è stato svuotato di poteri e parallelamente il potere esecutivo (e gli accordi tattici tra i capipartito) sembra aver preso definitivamente il sopravvento.
Magari qualcuno – ed è già successo nel recente passato e Beppe Grillo ancora lo afferma – pensa che in fondo il parlamento possa essere aggiunto alla lista degli enti inutili: un carrozzone costoso da abolire. In tutti i casi, anche se stentiamo ad accorgercene, la democrazia italiana ha la febbre alta.

Quando la politica cavalca l’antipolitica
È importante capire i messaggi fondamentali che emergono dal referendum. Capire cosa sta succedendo, e cosa potrebbe accadere, al rapporto tra cittadini e istituzioni, tra una società sempre più “liquida” e una politica sempre più distante e autoreferenziale.
Capire cioè dove sta andando in Italia la democrazia, a cominciare dal parlamento, l’istituto che la nostra Costituzione indica come il più alto e importante per garantire l’esercizio della democrazia stessa: il “governo del popolo”.
Se ci chiediamo chi ha orientato la grande maggioranza degli italiani a votare Sì, appare chiaro che la spinta è stata ancora una volta impressa dal vento dell’antipolitica: un’opinione pubblica che dimostra sfiducia, o disinteresse, o disgusto per la politica, per i partiti, per l’irrilevanza delle forme di rappresentanza popolare. Beppe Grillo aveva per primo dato voce a questo profondo malessere, poi i 5 Stelle l’avevano capitalizzato con straordinari risultati elettorali. Ebbene, la crisi verticale del partito di Di Maio, come pure l’appannamento del programma populista di Salvini o le indecisioni del PD hanno lasciato intatta la forza dell’antipolitica, momentaneamente orfana, ma in ottima salute: tanto che la vedremo puntualmente ripresentarsi nel prossimo futuro.
Non uso questo termine, antipolitica, con un’accezione solo negativa, ma come un sentimento drammatico e plurale: una coscienza individuale diffusa di estraneità e impotenza verso le piccole e grandi scelte assunte dalla classe politica dirigente.
Potrebbe sembrare l’anticamera della “fine della politica”, o comunque della politica come l’abbiamo conosciuta in questi ultimi vent’anni. Invece, ecco il fatto nuovo di questo referendum: i grandi partiti – proprio loro che erano potenzialmente sul banco degli accusati – si sono accodati, tutti, al vento dell’antipolitica.
E accodandosi al Sì, prendendosi un pezzetto di vittoria, hanno pensato di allungarsi la vita, almeno per un poco. Almeno per un poco le cose sarebbero andate avanti come sempre. Al governo come all’opposizione.
Così probabilmente sarà. Si tirerà avanti fino all’elezione del Presidente della Repubblica e alla fine della legislatura. Il nodo però rimane. E assomiglia a una bomba inesplosa. Una politica che per sopravvivere si accoda all’antipolitica non promette nulla di buono. Una classe politica che non ha il coraggio di riformarsi, che non riesce a dare nuova rappresentanza alle istanze sociali, che non riflette sulla crisi della forma partito, che non restituisce dignità, ruolo, potere al parlamento, che si affida a questo o quel potente califfo locale: le premesse per una crisi della democrazia italiana ci sono tutte.

La solitudine di Francesco
«Questo Santo dell’amore fraterno, della semplicità e della gioia – scrive il Papa nell’introduzione alla nuova enciclica Fratelli tutti – che mi ha ispirato a scrivere l’Enciclica Laudato si’, nuovamente mi motiva a dedicare questa nuova Enciclica alla fraternità e all’amicizia sociale. Infatti San Francesco, che si sentiva fratello del sole, del mare e del vento, sapeva di essere ancora più unito a quelli che erano della sua stessa carne. Dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi». Ancora una volta il Papa si ispira a Francesco d’Assisi, povero fra i poveri, e al suo Cantico delle creature. E scrive cose scomode, sulla pandemia che ha accomunato nel dolore tutto il mondo, sul bisogno di fraternità, sull’urgenza della pace, sul primato degli ultimi.
Il vecchio Papa – ha ormai 84 anni – continua a camminare con tutta la sua anima sulla via segnata da Francesco e firma il suo ultimo messaggio proprio sull’altare di Assisi, come per ribadire la sua scelta: con San Francesco, fino alla fine.
Ma qual è la fine? Sappiamo quanto gli ultimi anni di Francesco d’Assisi siano stati segnati dalla sofferenza e soprattutto dalla solitudine. Il suo messaggio rivoluzionario era stato piegato dall’istituzione Chiesa, la sua Regola riscritta e normalizzata. Francesco viveva appartato, in compagnia solo di alcuni frati della prima ora, lontano dal suo stesso Ordine che era ormai grande, potente, ricco di nuovi conventi.
Oggi Papa Francesco assomiglia a quel Francesco. Molta parte della sua stessa Chiesa non lo ascolta, o se lo ascolta non lo segue.
Papa Francesco è sempre più solo, ma va avanti, continua a seguire il cammino di Francesco d’Assisi. Fino alla fine.

Se vince il bugiardo
Donald Trump è un bugiardo seriale: qualcuno si è preso la briga di contare le sue bugie e ne ha contate più di mille solo nel primo anno di presidenza. Donald Trump non paga le tasse da 15 anni: 750 dollari in tutto. Donald Trump e la sua corte familiare hanno probabilmente intessuto rapporti illeciti con la Russia di Putin.
Donald Trump ha nominato alla carica centinaia di giudici a lui favorevoli, compresi quelli della Corte Suprema, Donald Trump ha coperto le intenzioni e le azioni dei suprematisti bianchi e dei nuovi movimenti razzisti. Eccetera.
Domanda, ingenua finché volete: com’è possibile che Donald Trump – mentre scrivo manca meno di un mese alle elezioni presidenziali – sia ancora in corsa per ottenere il suo secondo mandato? Ho letto in un post su Facebook: «Ma possibile che in un paese di 315 milioni di persone i Democratici non siano riusciti a trovare un candidato meno loffio di Joe Biden?». Vero, il riciclato Biden non assomiglia in nulla a un Obama, ma la forza di Trump non deriva dalla debolezza altrui.
Trump – anche se spero con tutto il cuore nella sua sconfitta – ha dalla sua la forza… della forza. Una forza che fa passare in secondo piano perfino il suo ridicolo ciuffo ossigenato. Trump ostenta sicurezza, ostenta potere, ostenta aggressività: contro la Cina, contro i comunisti, contro gli oppositori. E la sua immagine di vincente attira e seduce un popolo di perdenti.
Non succede solo in America. Bolsonaro in Brasile, Orbán in Ungheria, Putin in Russia, Lukašenko in Bielorussia (con l’appoggio determinante di Putin). Viviamo un tempo in cui il potere della forza sembra essere la ricetta vincente. Speriamo che Trump il bugiardo perda le elezioni, ma nemmeno questo potrà sconfiggere un virus forse più pericoloso del Covid-19 e che circola in tutto il mondo: quello di affidarsi mani e piedi all’uomo forte. Solo ogni popolo, e solo ognuno di noi, può sconfiggere questa malattia.
Francesco Monini direttore responsabile di madrugada