Lo strano caso del matematico e il ciclo-fattorino

di Stradi Paola

Paradossi
«Professore, cosa ci fa lei qui?». Mio figlio aveva appena aperto la porta di casa al ciclo-fattorino (oramai con l’inglesismo dilagante, rider) e riconosciuto, dietro la mascherina di ordinanza e il fare veloce imposto dalle mansioni che quel ruolo riveste, il suo professore di matematica, supplente per alcuni mesi al liceo.
Al mio arrivo, lo sbigottimento iniziale si era tramutato in un dialogo breve e cordiale in cui il prof con autorevole semplicità, aveva spiegato che, sospesa la supplenza per un’inezia burocratica legata alla normativa anti-covid, era approdato velocemente a questo lavoro, in attesa di eventuali ripescaggi dalla graduatoria.
«Mi raccomando, saluta la classe e continuate così che siete un bel gruppo».
Avevo ancora in mano la mancia che mi ero guardata bene dal consegnargli e, rientrando in cucina, sono stata accolta da inevitabili domande: «Mamma, ma… com’è possibile? Perché il prof non è rimasto da noi a scuola visto che ora abbiamo un altro supplente? Perché non fa un lavoro che riguarda la matematica? Lui non insegnerà più?».
Insomma, intuibile come di fronte a questi quesiti la prima a essere confusa ero io; poi abbiamo cercato di mettere le cose in ordine…

Addetti ai lavori
Parlando di scuola, ciò che è spiazzante è che non ci si sente mai adeguatamente preparati come cittadini.
Una volta come genitore mi sono sentita dire da un’insegnante: «Signora sa, noi addetti ai lavori…». È stato quello il momento preciso in cui mi sono sentita extra-comunitaria rispetto ai meccanismi di comprensione e funzionamento dell’agenzia formativa per eccellenza che dovrebbe far sentire addetti tutti i soggetti che interagiscono con lei e che invece, spesso, li allontana.
L’episodio ha avuto un risvolto positivo: è stato in quel momento che ho deciso di candidarmi per il consiglio di classe e poi per quello dell’istituto comprensivo dei miei figli perché avevo una sorta di rivalsa. Se la scuola – luogo in cui i ragazzi trascorrono gran parte della giornata – era un rebus per i non addetti ai lavori e solo formalmente, nel patto di corresponsabilità debitamente firmato dalle parti, comunità educante, allora in qualche modo dovevo provare a risolverlo. È stato lì che, pur se solo in minima parte, ho acquisito un quadro generale, ho frequentato gli incontri utilissimi del FoNAGS (Forum Nazionale delle Associazioni dei Genitori della Scuola) presenti presso gli uffici scolastici provinciali; ho imparato a riferirmi al dirigente e non più al preside e a sapere che il DSGA (Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi) è il vero snodo per l’approvazione di ogni bega amministrativa.

Pandemie
La normativa di contrasto al covid, l’emanazione continua di decreti e i relativi recepimenti regionali, gli aggiornamenti sul registro elettronico, i calcoli dei giorni di isolamento se positivi o se in contatto con un positivo, il rapporto non sempre virtuoso tra servizi sanitari e territorio: tutto questo ha scatenato una collettività social che ha provato a decodificare, ad auto-formarsi, a trovare i criteri per sopravvivere nella gestione familiare.
Come genitore di tre ragazzi di tre percorsi formativi diversi, ho dedicato gran parte del mio tempo libero a capire il sovra-sistema di norme dettato dalla situazione pandemica in corso calato nel sistema scolastico. Sarei falsa nel dire che il tempo di confronto e studio è stato efficace: troppo frammentate le funzioni di responsabilità nell’organico scolastico, troppo poco il tempo dedicato a fare sistema con le famiglie e, soprattutto, perdente ne è uscito il dibattito sullo studio, risucchiato dall’emergenza diventando decisamente un sovrappiù.

E ora?
Il caso del matematico ciclo-fattorino è prova inconfutabile di una scuola pubblica che sta perdendo la rotta, lasciando al largo delle sue finalità l’originario nucleo di valori su cui è stata fondata: la crescita culturale, la valorizzazione del potenziale, la cura verso le nuove generazioni.
La pandemia ha certamente acuito questa deriva ma in fondo l’imbarcazione stava già facendo acqua da tempo e le falle, tappate con riparazioni posticce, sono state sostituite all’occorrenza col cambio di capitano della scialuppa, ministri, sottosegretari e gestori dei fondi del PNRR che siano.
Il corto circuito del sistema scolastico è che il nucleo del suo esistere, al di là di ogni retorica, è incentrato prevalentemente sul funzionamento formale della macchina. Il modello è quello classico delle organizzazioni gerarchiche in cui i soggetti rispondono non a ruoli ma a funzioni: il susseguirsi di riforme dai nomi più originali se non addirittura patetici (La Buona Scuola è solo un esempio), sia da destra che da sinistra, non ha scalfito la rigidità che in particolare rende estremamente problematici alcuni punti-chiave: reclutamento (docenti, dirigenti, personale amministrativo, ausiliari…), adeguamento strutturale e tecnologico, rapporto sostanziale con le istituzioni locali e centrali (uffici scolastici, enti locali, ministero), relazioni autorevoli con le università, le accademie, l’alta formazione tecnica.

All’ultimo banco
«Siamo stati messi all’ultimo banco un po’ tutti: noi insegnanti, i ragazzi, ma anche i genitori. Ci siamo tutti noi che vorremmo fare una scuola diversa, ma soprattutto ci sono i più fragili. Solo nel momento in cui impareremo a prenderci cura di loro, allora tireremo su la scuola» 1 .
La scuola pubblica attualmente si presenta in modo articolato ed esiste grazie a una ferrea volontà di chi ci lavora mettendo in gioco azioni di resistenza e di valore educativo elevatissimo: non dipende dal centro o dalla periferia, le cosiddette eccellenze viaggiano trasversalmente e rappresentano a volte le uniche agenzie educative presenti su piccoli territori.
La scuola ha però anche necessità di orientarsi come comunità, deve superare la sindrome dell’accerchiato e mettersi in gioco, rivendicando un ruolo chiave nell’agenda delle priorità in un Paese che non glielo dà; e non deve temere di essere valutata e per questo ha necessità di motivarsi, di aver cura degli spazi, di partecipare.
La scuola ha il dovere di tutelare i fragili, quelli di tutte le categorie; ha per questo urgenza di coordinarsi, di crescere in modo più libero e di non confondere la qualità con la conformità burocratica.
La scuola, infine, nel dopo pandemia, ha bisogno soprattutto di ascoltare ed essere ascoltata. Sono stati anni in cui oltre ai morti e ai feriti, si sono acuiti conflitto sociale e sfiducia collettiva, si avverte a pelle un disagio importante, alimentato da dinamiche interne faticose, precarie, arrugginite, a volte tossiche. E il tempo pandemico non è da rimuovere ma da sciogliere e proprio per questo la scuola deve riprendere a sviluppare il desiderio di conoscenza e a umanizzarlo.
«Siamo in un momento storico straordinario: stanno venendo al pettine tutti i nodi di un sistema educativo che non funziona più perché non ha al centro i ragazzi, ma sé stesso. È sotto gli occhi di tutti […] Abbiamo da anni un numero impressionante di docenti in burnout, lo sfinimento psico-fisico da lavoro. Nel momento in cui vieni trasformato regolarmente in un burocrate che deve occuparsi di tutto tranne che dei ragazzi è chiaro che è inevitabile. Un sistema inventato dagli uomini che dovrebbe servire a umanizzare la vita, alla prova dei fatti non lo fa più» 2 .

1Chiara Sandrucci, Alessandro D’Avenia: proviamo a inaugurare una scuola nuova, che non faccia scappare, in Corriere della Sera – ed. Torino, 10 giugno 2022.
2Chiara Sandrucci, Alessandro D’Avenia… cit.

Paola Stradi

orientatrice e formatrice, università degli studi di Padova, scuola di scienze umane, sociali e del patrimonio culturale, componente la redazione di madrugada