Un angelo con le ali di cartone

di Realdi Giovanni

Io non ho paura
«Il nostro pensiero deve emanare un profumo forte, non diversamente da un campo di grano in una sera d’estate», scrive Friedrich Nietzsche. Negli occhi ho ancora il passare veloce della mano di Michele sulle punte del grano, nella distesa giallo­bruciata del campo. E i suoi occhi spalancati nel buio del buco della terra, a cercare e respingere insieme il contatto di Filippo, dieci anni come lui, in quinta come lui. «Siamo uguali». Talmente uguali che alla fine è il secondo a tendere le braccia al primo, gli occhi aperti nella notte triste. Il profumo di grano è quello delle cose vere, quelle che dicono gli angeli custodi. Non la Verità, volgare e sbracata certezza di sapere come le cose stanno, ma la suggerita, a volte urlata, parola che dice come le cose si sentono. Cosa per cosa, giorno per giorno.

Notti di veglia
Carmine Di Sante, amico di Macondo, è mite. Parla sottovoce e quasi si scusa. Lo incontriamo perché ci racconti dell’Esodo, delle notti insonni di Elohim e dell’uomo d’Israele. La notte bianca, notte di osservanza, del dio dei padri è profilassi: un prendersi cura in anticipo, prima di qualsiasi richiesta umana. È sorpresa, irruzione, sconvolgimento, è disiscrizione da qualsiasi logica. La cifra è quella della gratuità: non è il far le cose senza voler nulla in cambio, nella rinuncia al premio, alla ricompensa, al ringraziamento; è agire perché diversamente non puoi fare, perché si è talmente liberi da non poter fare altrimenti, perché la tua libertà esonda, non è trattenuta, si sparge, tracima. La condizione dell’uomo, che egli può riconoscersi addosso, è quella del liberato, del vegliato. E Dio veglia -continua Di Sante -perché Israele vegli con lui e così faccia memoria della sua liberazione. E da vegliati, gli uomini possono vegliare, gli uni sugli altri, possono «riconoscere la responsabilità nei confronti dei loro microincontri».

Tutti quanti abbiamo un angelo
Avverto la totale amoralità di questa logica della liberazione. Liberare non è questione di far bene o far male, di ubbidire ad un’etica stabilita, ad un dovere morale che ci guadagni un regno dei cieli qualsiasi. Da liberati non possiamo che liberare: riconoscersi e riconoscere l’altro è un tutt’uno. Il pietismo che ha sommerso il termine prossimo, prossimo tuo è il medesimo che ha edulcorato la figura biblica dell’angelo custode, sino a farne un ente extramondano, etereo e sovrafisico, un fantasma per i bimbi buoni. Al contrario, ognuno, adesso e qui, può essere angelo dell’altro, del suo vicinissimo. Può riconoscere in sé questa vocazione. Siamo chiamati già da sempre per chiamare chi ci sta accanto. Così Michele, nel film di Salvatores: si avvicina al pozzo per curiosità, da bambino; scopre Filippo e ne è spaventato, da bambino; gli porge il secchio e compra il pane, perché se si ha fame e si hanno solo 500 lire questo solo si può fare, da bambino. E da bambino non capisce la logica degli adulti: non ne è contro, è semplicemente altro.

Riconoscersi
Andrea raccoglieva violette
ai bordi del pozzo
il secchio gli disse:
signore, il pozzo è profondo
più fondo del fondo
degli occhi
della notte del pianto
lui disse: mi basta
mi basta che sia
più profondo di me
Michele scende nel pozzo. Gioca con la sua paura. Affacciato al mondo adulto avverto la mia totale incapacità di fissare il buio del fondo del pozzo. Quella che chiamavo poco sopra “logica della liberazione” rimane un artificio razionale, una consolazione gelida, un programma culturale. Essa appare così semplice, perfino banale: da liberato, non puoi che liberare. Certamente. Il nodo è proprio in quella prima parte: riconoscermi liberato, vegliato, accudito. E farlo come spinta, sorgente, quotidiana, non come intuizione emotiva puntuale e isolata, fine a se stessa. «Ogni mattina ringrazio e ricomincio con quel che rimane», mi disse una volta Mauro Corona, su a Erto.

O della civiltà
Manu è rimasta solo occhi verdi. Già sottile, dopo il mese a Recife quasi scompare. Due parole di saluto, poi mi racconta il viaggio, l’orfanotrofio, l’infermeria raffazzonata, il far tutto da sola, l’ex­primario con la moglie caposala rimasti solamente i primi due giorni. E soprattutto i bambini. Manu è medico, aspettava la partenza con Emercency, poi le cose son cambiate, ed è partita da sola. Un mese, intanto. «Me ne sarei portati via due o tre, se solo avessi potuto» e mi dice i nomi, il sorriso, i gesti. «Anche una piccolina, di tre mesi, alla quale non avevano dato ancora un nome». Mi guarda: ha dentro tutto intero il mondo diverso possibile nel quale è stata inghiottita. Gli occhi si velano, ad entrambi a dire il vero. Poi lo squillo del cellulare ci salva. Consuelo doveva chiamarsi Andrea, se fosse nata maschio. «Sono alcuni giorni che mi sveglio bene, positiva» mi dice, con la sua voce un po’ abbandonata a se stessa, tra bocca e naso. Studia lingue, arabo, e ora deve preparare lo scritto del quarto esame di questo idioma, oggi tanto vicino e altrettanto lontano. Consuelo guarda avanti, con cautela, e intanto pensa ad un viaggio dopo la laurea, lontano. Etty Hillesum, 3 luglio 1943: «Quando un ragno tesse la sua tela, non lancia forse i fili principali davanti a sé e ci si arrampica poi sopra? La strada principale della mia vita è tracciata per un tratto davanti a me ma arriva già in un altro mondo». E poi: Marilena, Claudia, Michela, Andrea, Betta, Luca, Matteo, Gaetano, Matilde, Rita, Cristina, Gianfranco, Silvia, Paola, Fiorella, Marta, Marco, Francesco, Erika, Lilly, Martina, Davide, Mario, Checco, Valentina, Francesca, Annamaria, Stefania, Elisa, Giuseppe, Maria, Giorgio, Maurizio, Alberto, Anna, Paola, Tina, Edo, Esther… Macondo propone il suo angolo colorato a Civitas 2003, alla fiera di Padova e incrocia decine di volti. La domanda rimane: che cosa è Macondo? Rimbalza dai visitatori alla testa­cuore dei macondini sperduti. Macondo è anche un secchio, per andare nel pozzo.