EZLN: una realtà non virtuale
Febbraio 1996: cinque soci di Macondo (fra cui il
presidente) atterrano in Messico e dopo poche ore stanno viaggiando a
bordo di un pulmino in direzione di S. Andres Lassainzar (40 Km. a N.O.
da S. Cristóbal de las Casas), dove è in corso la prima trattativa fra
l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ed il governo
messicano, con l’intermediazione del CO.NA.I., presieduto dal Vescovo di
S. Cristóbal, Mons. Samuel Ruiz. Questi è il primo a riceverci durante
una pausa delle trattative: vuole sapere di noi, ci chiede le nostre
finalità, dice che avremo modo di riparlare… Per il momento restiamo a
S. Andres e attendiamo come tutti (giornalisti, simpatizzanti e gente
comune) gli eventi scanditi dai comunicati dei rappresentanti dell’EZLN,
che, di tanto in tanto, escono dalla residenza della trattativa e
aggiornano sull’andamento della stessa, sempre stretti da un triplo
cordone di sicurezza costituito dalla polizia militare messicana, dagli
stessi militanti dell’EZLN e dalla Croce Rossa Messicana.
La tensione è alta, la temperatura bassissima.
Incontriamo la Comandancia
Dopo
48 ore di attesa, alle 22 del 14 febbraio, un assessore del CO.NA.I. ci
recapita gli attesi lasciapassare che ci consentiranno di avere un
colloquio con qualche rappresentante dell’EZLN, crediamo noi; in realtà,
superati i cordoni di sicurezza, entriamo in una stanza della residenza
e ci troviamo davanti a… tutti i sedici comandanti dell’EZLN: dietro
ad un tavolo c’è schierata l’intera “Comandancia” coi visi coperti dal
regolare passamontagna. L’emozione è inenarrabile, il dialogo breve, ma
di grande intensità: spieghiamo cos’è Macondo, quali i nostri interessi;
il sottoscritto mette a disposizione le frequenze italiane di Radio
Sherwood e chiede qual è la situazione di questa prima trattativa e
quale quella dei detenuti politici zapatisti. A risponderci è il
comandante David: sorride per i detenuti (almeno così ci sembra da
dietro il suo passamontagna) e ci dice che il primo gennaio 1994, quando
il loro esercito si impadronì di sei città del Chiapas, liberarono
tutti i detenuti del carcere di San Cristóbal, più di 700 dei quali
erano loro militanti; non solo, ma da quel momento l’esercito regolare
messicano di quella regione disertò, passando dalla loro parte con tutto
l’armamento in dotazione.
Ragione e resistenza
La
loro parte: la parte cioè, della ragione, della fame, della resistenza;
la parte di chi si è trovato emarginato all’interno della Selva
Lacandona, affamato nella regione più ricca del Messico e di questo ha
fatto la propria forza, della prima il proprio nascondiglio
inattaccabile.
Il dialogo, della durata prevista di dieci minuti,
prosegue per oltre mezz’ora con reciproca soddisfazione. Veniamo
informati del buon andamento delle trattative, dovuto in particolare al
fatto che il governo messicano ha dovuto accettare di riconoscere l’EZLN
come persona giuridica e come necessario interlocutore, confermandogli
quell’autorità e prestigio che il popolo ciapaneco gli ha conferito e
che è il frutto di venti anni di lotta scaturita dall’emarginazione e
dalla miseria in cui lo stesso è stato relegato per permettere al
governo centrale il massimo dello sfruttamento delle risorse di quella
regione ricchissima (petrolio, ambra e caffè) in favore delle
multinazionali del NAFTA (Usa, Canada e Messico), a discapito delle
stesse popolazioni locali, che di quella zona dovrebbero godere
naturalmente e che invece si sono trovate ad essere sfruttate e
criminalizzate, prive di qualsiasi assistenza ed abbandonate ad un
destino di necessario annientamento.
Riconoscimento dell’esercito zapatista
Oggi,
invece, si trovano rappresentate degnamente, a sedere al tavolo delle
trattative con quello stesso governo che neppure riconosceva loro il
diritto di esistere e che adesso deve rimangiarsi ogni cosa per paura
che il movimento che l’EZLN rappresenta si estenda all’intero paese e
metta definitivamente in ginocchio un sistema pseudo-democratico, che
già troppe volte ha scoperto il proprio volto e che qualcuno ha
dimostrato essere ampiamente vulnerabile.
In quei brevi minuti del
nostro colloquio (che sono certo per noi rimarrà indelebile nella
memoria), abbiamo anche rivolto ai comandanti la richiesta di poter
vedere le Comunità zapatiste e di provare un’esperienza della vita delle
stesse: non abbiamo avuto risposta certa, ma la rassicurazione di un
prossimo contatto a San Cristóbal. Siamo usciti, dopo un buffo e
commosso saluto, con la concreta sensazione di avere vissuto istanti di
storia.
Verso il contatto
con le Comunità zapatiste
Il
16 febbraio abbiamo avuto il “contatto” ed alle tre del mattino
Francisco è venuto a prelevarci a bordo di una jeep per portarci a S.
José del Rio; l’ora, decisamente antelucana, era motivata dalla
necessità di evitare il più possibile gli inevitabili posti di blocco,
che dividono (nel vero senso della parola) il territorio controllato
dagli zapatisti dal resto del paese. Giunti a Las Margueritas troviamo
quello dell’Ufficio Migrazione, dove ci invitano a scendere, consegnare i
documenti e dare spiegazione dei nostri spostamenti. Nell’ufficietto
dove ci fanno entrare c’è un ufficiale della polizia militare (altro che
ministero della migrazione…), che ci sottopone ad un vero e proprio
interrogatorio e che parer tutt’altro che convinto delle nostre
spiegazioni (ufficialmente saremmo dei commercianti di caffè, del tutto
disinteressati alle vicende politiche locali…). Dopo le domande e la
relativa verbalizzazione, veniamo schedati, fotografati e videoripresi,
con l’avvertenza che se saremo scoperti a fare cose differenti da quelle
dichiarate, verremo immediatamente espulsi dal territorio messicano e
sul nostro passaporto verrà apposto il timbro di “indesiderato”.
Il doppio gioco
del governo messicano
Finalmente
si riparte e, finalmente, il nostro “autista” si rilassa, cambia
espressione e diventa loquace: ci spiega il doppio gioco del governo
che, da un lato, blandisce i turisti, dall’altro intimidisce quelli che,
come noi, si avvicinano alle zone “calde”. Così come lo stesso governo
da una parte accetta ufficialmente il colloquio con l’EZLN con
conseguente tregua disarmata, dall’altra, invece, circonda l’intero
territorio zapatista, praticamente isolando la zona della Selva
Lacandona e mettendo in atto una serie di azioni di “disturbo”, che sono
al limite fra la guerra fredda e la guerriglia, a partire dal perenne
pattugliamento di determinate zone per continuare con il continuo
sorvolare con elicotteri le Comunità più isolate, sganciando prodotti
chimici che guastano le povere coltivazioni agricole e mettono a
repentaglio la vita di bambini e animali.
Saluti e stivali di gomma
Alle
10 del mattino siamo finalmente nel cuore della mitica Selva Lacandona e
perveniamo alla Comunità cui la Comandancia ci ha destinati. Passate
poche ore scoppia uno dei classici diluvi, che fanno dire al
Subcomandante Marcos, nei suoi commiati, “saluti e stivali di gomma
perché qui il fango la fa da padrone”, ma nulla può fermare il fermento
che anima la Comunità che è in attesa proprio dei Comandanti, che
rientrano da S. Andres al termine della prima “mesa” delle trattative,
conservazione delle lingue indigene, della loro cultura e della loro
indipendenza dal governo centrale.
Un “ratito” in onore di…
Sotto
l’acqua battente vengono portate sul bordo della strada (se così si può
chiamare la carrettiera che attraversa l’intera foresta) le marimbas,
che cominciano a suonare motivi tradizionali per salutare l’arrivo dei
Comandanti: questi, capitanati dal Comandante Tacho, smontano dalle jeep
della Croce Rossa e proprio Tacho viene verso di noi e ci saluta,
nell’ammirazione totale dei presenti… Dopodiché il “capo” della
Comunità convoca tutta la popolazione nella scuola e mette ai voti la
proposta di fare un piccolo “rato”, anzi un “ratito” in onore dei
companeros italiani: voto unanime per due ore di ballo, saluti e
benvenuto ufficiali e, poi, obbligo di ballare…
Unica circostanza
per noi atipica la mancanza assoluta di alcool, il quale, come le
sostanze stupefacenti, è bandito dalle Comunità zapatiste, mentre il
governo fa di tutto per riuscire proditoriamente ad introdurlo, con
intuibili intenti di annientamento strisciante.
I bisogni della Comunità zapatista
Nei
giorni seguenti ciascuno di noi si cimenta in ciò che è capace di fare:
Antonio e Carmelo, medici quali sono, fanno ambulatorio full-time,
constatando che si muore per un nonnulla, manca ogni farmaco, così come i
frigoriferi; la Croce Rossa, che tanto si dà da fare quando c’è un
ritorno pubblico, ufficiale e di mass media, qui invece latita; la
mortalità infantile è la più alta del paese, la vita media è invece la
più bassa; in compenso non esiste la depressione, né i suicidi e neppure
la malattia mentale.
La presenza delle donne e l’equilibrio
Giampaolo,
da buon sindacalista, discute con me assieme ai vari responsabili della
Comunità: abbiamo incontri con il promotore dell’agricoltura,
dell’educazione, delle donne (che qui sono davvero soggetti a pieno
titolo, al pari di ogni altro individuo, così come, all’interno della
Comandancia, abbiamo potuto notare la presenza di donne in maggior
numero rispetto agli uomini) e della giustizia. Questi ci sbalordisce,
confermandoci l’impressione che abbiamo già maturato e, cioè, di
un’organizzazione sociale praticamente perfetta: nelle Comunità
zapatiste vivono circa settecentomila persone e non si registrano
delitti (mai nessun omicidio, né rapine, né violenze…), motivo per cui
il suo ruolo si risolve nel “correggere gli errori dei companeros,
senza mai dover ricorrere a castigos”: si tratta perlopiù di
comportamenti scorretti, in seguito ai quali il responsabile viene
censurato, ma non vi è mai il ricorso alla “giustizia statuale”, perché è
corrotta e corruttibile.
Nelle Comunità zapatiste l’adulterio non è
consentito, ma neppure punito, mentre il matrimonio è considerato un
accordo civile, come tale risolvibile con l’accordo delle parti.
Una forte impressione di dignità
Da
questi incontri, riunioni, confronti maturiamo l’impressione che siamo
in presenza di gente davvero speciale: persone che hanno una dignità, un
rispetto di se stessi e degli altri ed un’identità culturale talmente
radicata da fare arrossire noi, la nostra vecchia cultura europea e,
soprattutto, la nostra pretesa civiltà…
Non solo, ma ci sorge il
sospetto (fondatissimo!) che la nostra presenza possa rischiare di
essere solo inquinante, se non altro per il nostro modo di essere, il
nostro individualismo e quella dose di decadente remissività e di marcio
che ormai ci accomuna ai nostri palinsesti televisivi. Nelle Comunità
zapatiste non c’è acqua corrente, né TV, ma la Comandancia comunica col
resto del mondo usando sapientemente la rete Internet…
Credo di
aver ricevuto una grande lezione di vita da queste persone semplicemente
meravigliose, che hanno appreso sulla propria pelle che il nemico
diffuso del terzo millennio è per tutti rappresentato da quel nuovo
imperialismo che si cela dietro ai facili slogan del neoliberalismo.
Messico, 500 anni dopo a cura di Massimo Di Felice Padre Bartolomé, primo vescovo della diocesi di San Cristóbal de las Casas, difensore dei diritti delle popolazioni indigene, all’epoca sterminate dai colonizzatori, scriveva nel 1542 nella sua “brevissima relazione della distruzione delle Indie”: “In mezzo a queste popolazioni, quando le scoprirono entrarono gli spagnoli, come lupi e tigri e leoni crudelissimi, affamati da molti giorni. E non hanno fatto altra cosa da quaranta anni a questa parte, fino ad oggi ed anche in questo giorno lo fanno, che sbranarle, ucciderle… Della grande terra ferma siamo certi che i nostri spagnoli, per la loro crudeltà e opere nefaste, hanno spopolato e distrutto terre che oggi sono deserte ed erano piene di uomini dotati di ragione, più di dieci regni più grandi di tutta la Spagna… Le cause per cui i cristiani hanno ucciso e distrutto tante e tali e tanto infinito numero di abitanti è stato per aver come fine ultimo soltanto l’oro e riempirsi di ricchezze in pochissimi giorni e salire a condizioni molto alte e sproporzionate a loro…”. L’attuale vescovo della stessa diocesi, padre Samuel Ruiz, in una lettera pastorale del 6 agosto 1993 scriveva: “Nella società del Chiapas la disuguaglianza segna tutte le relazioni umane e sociali rendendole portatrici di una carica di oppressione e dominazione che è parte integrante della coscienza collettiva… Le differenze più evidenti riguardano l’indigeno non solo per la sua razza, ma anche per la sua situazione socioeconomica. Spogliato delle proprie terre, l’indigeno è uno straniero nella propria terra. Tale stato di cose si riproduce nei nativi che vivono al margine della società nazionale e le cui terre stanno per essere colonizzate con tutte le conseguenze che da ciò derivano: espropriazione delle loro terre, depredazione dei loro habitat naturali, perdita della loro cultura… La Chiesa di San Cristóbal de las Casas, erede della vocazione profetica di padre Bartolomé de las Casas, cammina con i poveri e tra loro, prendendo coscienza della sofferenza della maggioranza della popolazione…”. La regione del Chiapas pur essendo ricca per la sua varietà e abbondanza di risorse (allevamento, agricoltura) è ancora oggi una delle aree più povere. Nonostante nella zona si produca circa il 60% del totale dell’energia elettrica di tutto il paese, il 32.1% di tutte le case non ne dispone affatto. Allo stesso modo nell’area si registra il tasso di analfabetismo della popolazione più alto del paese: 30.1%. Le condizione nelle quali vive la gente chiapaneca sono di estrema ingiustizia: priva di case, centri di salute, strade, acqua potabile e altri servizi. Ogni cinque case due non hanno acqua, tre non hanno servizi igienici ed una ogni tre non ha energia elettrica. Particolarmente grave appare la condizione sanitaria: nella regione si registra il maggior tasso di mortalità per tubercolosi e per malaria di tutto il paese. Cosa è cambiato in questi 500 anni in questa regione a sud del Messico? Sicuramente molto. Non esiste più il dominio spagnolo e le relazioni di potere sono profondamente diverse. Al dominio della madrepatria si sono sostituiti gli interesse impersonali delle multinazionali e la avvenuta modernizzazione ha modificato i rapporti di forza, l’ambiente e le culture. Alcune costanti appaiono però inalterate: lo sfruttamento e l’emarginazione delle popolazioni indigene, l’espropriazione delle risorse della regione, la resistenza e le lotte generate dalla strutturale condizione di miseria, il ruolo profetico e l’azione liberatrice di una parte della Chiesa, schierata in difesa degli oppressi e contro gli interesse economici di una élite. |