Il viaggio come incontro con l’altro

di Riva Franco

Viaggiare è lasciarsi scuotere

Vedere è un lasciarsi scuotere, viaggiare è un incontrarsi. Del viaggio non si comprende nulla senza il rapporto con l’altro: non per curiosità nei suoi confronti, ma per lo stordimento che si riceve quando si prende sul serio il pensiero che il mondo non è fatto a propria immagine e somiglianza, e che il mondo dell’umano è tanto più mondo, e tanto più umano, quanto più la differenza dell’umano vi abita senza prevaricazioni. Il viaggio, «l’esodo, l’esilio, indicano un rapporto positivo con l’esteriorità, e l’esigenza di questo rapporto è un invito a non accontentarsi di ciò che è nostro (ossia del nostro potere di assimilare ogni cosa, identificando e riferendo tutto al nostro Io)» (M. Blanchot, Infinito intrattenimento).

Di fronte all’altro il viaggio avviene sempre oltre, e in qualche modo perfino nonostante, se stessi. Senza dubbio non sarà un viaggio quello in cui si assimila a sé ogni cosa, e ogni persona. E i nomi di questa assimilazione sono pesanti: colonialismi, imperialismi, cultura unica, globalizzazione dell’economico, villaggi turistici.

Il viaggio, al contrario, è un incontro con l’altro.

L’oriente, la meraviglia

Nel Proemio primo a Il Milione si racconta che Marco Polo ha visto in Oriente cose «meravigliose» e «quasi infinite»: perché ha camminato e cercato molto per terre straniere, ma anche perché ha molto conversato con le persone che mano a mano incontrava. La meraviglia del viaggio riguarda luoghi e cose mai viste. La meraviglia del viaggio riguarda soprattutto persone: persone che si meravigliano, persone che suscitano meraviglia. La meraviglia sorge nel farsi-fronte di una diversità umana che si avvicina. Il viaggio rompe perciò con il ripiegamento sclerotico su se stessi: è un uscire dal guscio.

L’infinito del viaggio, la sua intima inesauribilità, non dipendono però tanto, o soltanto, dal dilatarsi dei tempi e dei luoghi quanto, e soprattutto, dalla meraviglia d’altri. Infatti, dove c’è l’incontro con l’altro c’è già un viaggio. La meraviglia d’altri restituisce al viaggio il senso dell’infinito: senso stesso dell’incontro con l’altro che non ha termine, e che ci lascia sempre con una nostalgia struggente. Proprio questa meraviglia d’altri impedisce di fare di ogni erba un fascio: l’altro non si può etichettare in una scatola mentale, in un concetto generale, in un giudizio di maggiore o minore dignità culturale.

Il viaggio discute le presunte certezze di sé e, per questo, vive nella crisi che non lo segna in negativo, come fosse una mancanza di equilibrio, ma in positivo: la crisi del viaggio equivale all’esperienza di qualcosa che non finisce proprio perché non è più tutto nelle proprie mani. L’incontro con l’altro è l’esperienza stessa di una trascendenza.

Marco Polo ha conversato molto in Oriente. Con il viaggio e con l’incontro, anche la parola viene restituita alla sua dignità di dialogo, come a dire che la parola dell’umano non sarà un’imposizione e un marchio, un logo multinazionale. La parola umana è parola scambiata e, prima ancora, restituita agli altri. In fondo, solo l’ascolto dell’altro autorizza a rivolgergli, seriamente, una parola.

Lo stupore dell’altro

Il luogo della meraviglia è il volto dell’altro: volto che è subito lingua, cultura, mimica, bisogno. La meraviglia d’altri è duplice: una meraviglia che proviene dall’altro, e che sbarazza il sé dalla centratura su se stesso – meraviglia della cura e della sollecitudine per l’altro; e una meraviglia che pensa a se stessi, di ritorno, proprio a partire dal volto dell’altro – meraviglia, cioè, di essere capaci di qualcosa di più del ripetere noiosamente, e pericolosamente, «io», e di rimanere sempre mentalmente presso di sé senza viaggiare mai per davvero.

Lo stupore suscita le parole del viaggio. Parole che interrompono il rimanere e il ritornare inesorabili presso di sé. Parole che cambiano le parole, perché si spostano dall’io al tu. Parole, quindi, di una partire che incombe fin da subito; e la cui esigenza, suscitata dall’altro, non si può più ignorare. Il viaggio inizia veramente solo quando si esce da sé e l’andare si trasforma – talvolta per uno choc improvviso, più spesso lentamente – in un essere chiamati dall’altro.

Tutto nel viaggio allora cambia. Non è più un gestire, un progettare, un controllare, un prendere; non più solo l’impresa gloriosa dell’eroe o la conquista di terre e di mercati, un fare tutto sommato degli schiavi. Il viaggio ribalta il sapere della chiusura e del tornaconto in un sapere che resta aperto: sapere stesso dell’infinito. Grazie all’incontro con l’altro, il viaggio raggiunge il proprio cuore, che è lo stesso stare in viaggio.

I viaggi dell’occidente

Ci sono dei viaggi che non sono viaggi, pur essendolo materialmente, perché si viaggia senza staccarsi da sé, senza incontrare l’altro. Il viaggio della conferma di sé trasforma tutto in una colonia: della propria patria, dei propri interessi, dei propri piaceri; e sono scene riviste sempre di nuovo sulla scena apparentemente mutata del mondo. Il viaggio non viaggio è sempre, in qualche modo, un viaggio di conquista o di guerra.

Dopo che l’Occidente ha circumnavigato – e forse occupato – il globo terrestre, è triste osservare, come tornando al punto di partenza, cosa stanno diventando i viaggi nella stagione in cui niente più del viaggiare sembra caratterizzarlo. I viaggi dell’Occidente sono infatti sempre di più dei viaggi senza l’altro: viaggi standardizzati, militarizzati, virtualizzati.

Sulla scena mondiale della globalizzazione non è difficile accorgersi che il viaggio si trova al tempo stesso potenziato e avvilito: facilitato enormemente dai meccanismi in atto di unificazione politica ed economica, tecnologica ancora, culturale e linguistica, il viaggio si trova per le stesse ragioni anche impedito per l’uniformità dei luoghi e delle culture, che lo fanno assomigliare sempre più a uno spostamento tra il centro e la periferia della grande metropoli mondiale (F. Riva, Filosofia del viaggio).

Il ritorno allo spostamento giornaliero, da pendolari del globo, fa perdere al viaggio la sua alterità, che è l’incontro con l’altro. Inoltre, così diffuso, così mercificato, il viaggio si avvicina molto a un oggetto di consumo, a un prodotto accanto ad altri prodotti, fino al punto che il consumo stesso diventa, come nel caso dei turismi sessuali o dello shopping dislocato altrove, l’unico motivo del viaggio. Il consumo sta divorando anche il viaggio.

I viaggi dell’occidente sono sempre più militarizzati. Nell’era del viaggio generalizzato e della metropoli globale risorgono frontiere e dogane: magari più sottili e meno percettibili, forse riducibili ai piccoli fastidi di dover dichiarare perfino un collirio per gli occhi per poter prendere un aereo, ma in ogni caso frontiere e dogane, posti di blocco. In nome della sicurezza, certo, ma non solo. Le procedure di identificazione del viaggiatore hanno perso il loro carattere rituale e di incontro, per farsi indagine poliziesca e interrogatorio, radiografie dell’«intimo». Dall’altra parte ci sono i viaggi degli immigrati, che militarizzati rimangono nella vecchia maniera delle sentinelle armate e dei fili spinati.

Attirati nel meccanismo del consumo, i viaggi dell’Occidente sono già ampiamente «virtualizzati»: consumati in anticipo, preconfezionati. L’Occidente sta però virtualizzando i viaggi in un altro senso, quello della navigazione in rete, dell’oceano on line, dei contatti telematici, delle visite virtuali. Un viaggio – con estrema coerenza – senza viaggiare, senza incontrare, senza alterità reale: senza me e senza te in carne e ossa, senza strette di mano, senza ospitalità calda e accogliente.

Viaggi dove forse non c’è più nessuno da incontrare. Fine stessa di ogni viaggiare.