La grande vecchiaia

di Bertin Mario

Una nuova frontiera

Umberto Veronesi recentemente ha dichiarato che, secondo le ultime proiezioni basate anche sull’accelerazione scientifica che si è verificata da quando si conosce la mappa del genoma umano, una bambina che nasce oggi in Europa vivrà fino a 103 anni e un bambino fino a 97. E si parla di aspettative di vita media. Infatti nel patrimonio genetico di ognuno è prevista una aspettativa di vita che può raggiungere i 120 anni. Stiamo, quindi, andando verso una società di vecchi. Secondo Guido Viale, nel 2050 la fascia di età più rappresentata in Italia sarà quella compresa fra i 75 e gli 80 anni per i maschi e gli 80-85 per le donne, cioè quella parte di popolazione della quale probabilmente almeno il 50 per cento non sarà più autosufficiente. E, poiché l’invalidità progredisce in maniera proporzionale all’età, la percentuale delle persone non autosufficienti crescerà per le fasce di età più avanzate fino ad arrivare a valori prossimi al 100 per cento.

Sorge allora la questione se sia ancora sostenibile una società con un numero di anziani non autosufficienti in continua crescita. In questo fenomeno – sottolinea Viale – è inserita una profonda contraddizione: i progressi della medicina e della qualità della vita hanno allungato enormemente la possibilità di sopravvivenza biologica dell’individuo, ma non la sua capacità di rimanere autosufficiente. Un numero crescente di anziani non è più in grado di autogestirsi e di organizzarsi la vita non solo per le difficoltà motorie, ma soprattutto per un progressivo deterioramento delle facoltà mentali. Ci meravigliamo per un anziano che corre la maratona di Roma, ma soprattutto per un anziano che è ancora «perfettamente lucido». Questa constatazione ha portato il biogerontologo inglese Aubrey de Grey a dichiarare: «L’invecchiamento è cosa da barbari. Non dovrebbe essere permesso». Senza arrivare a questo genere di provocazioni per un forzato riequilibrio demografico – che però, sotto forme diverse, di tanto in tanto affiorano all’interno delle società «evolute» – credo che sia segno di irresponsabilità non tenere nel debito conto i problemi colossali che pesano sul nostro non lontano futuro.

Gli squilibri sulla famiglia

Lo squilibrio procurato dall’invecchiamento della società ha certamente gravissimi risvolti di carattere economico (altro che lo scalone di Maroni!) che la politica – preoccupata quasi esclusivamente dell’immediato – tende a trascurare. Ma non è su questi aspetti che intendo soffermarmi in questa sede. Seguendo le analisi di Viale, voglio innanzitutto prendere in considerazione i problemi posti da una persona non più autosufficiente, specie se affetta da «demenza senile», sull’intera vita della famiglia.

«La vita – dice Viale – finisce per ruotare intorno all’anziano e, alla fine, a risentirne è la terza generazione:àci sono casi in cui bisogna scegliere se portare i figli in vacanza o trascorrere le ferie con l’anziano, se uscire la domenica con i figli o restare in casa, perché le due cose sono incompatibili. L’anziano non autosufficiente può diventare un elemento dirompente per l’unità e la qualità della vita della famiglia». È un nuovo problema per il quale si comincia a ricorrere ad avvocati e tribunali. Avvocati e tribunali stanno diventando gli intermediari di un difficile dialogo tra membri della stessa famiglia.

Ma l’elemento più paradossale è che a occuparsi dell’assistenza degli anziani molto avanti nell’età siano chiamati i figli sulla soglia dei 70 anni o oltre 70 anni, cioè persone che potenzialmente hanno essi stessi bisogno di assistenza.

Ciò sarà molto più grave nelle famiglie monocellulari, in cui un certo giorno due persone anziane dovranno prendersi cura dei quattro genitori.

Le conseguenze di questa situazione inedita che si va configurando in tutto il mondo occidentale, ma soprattutto nei paesi a bassa natalità come l’Italia, sono devastanti, sotto il profilo economico, ma anche umano. È lontano il tempo in cui una delle figlie non si sposava e restava in famiglia per assistere i genitori. Detto in maniera brutale, con l’attuale organizzazione sociale, si muore troppo tardi. Viale conclude con queste dure parole: «O la classe medica cerca di affrontare il problema del gap crescente tra morte biologica e venir meno dell’autosufficienza, soprattutto intellettuale, […] oppure quello che la comunità scientifica sta vantando come un successo, e cioè il fatto di aver aumentato la speranza di vita, in realtà si sta dimostrando un immane disastro, una fonte potenziale di disgregazione dei rapporti umani e personali».

La «badante»

Vista l’impossibilità di prendersi cura dei genitori o dei parenti non autosufficienti, negli ultimi anni ha preso piede il fenomeno della badante, e cioè dell’assistente familiare, in genere una donna di mezza età immigrata dai paesi dell’Est europeo, dalle Filippine e, in misura minore, dall’America Latina.

Nel 2004 risultavano regolarizzate più di 700.000 persone impiegate in compiti di assistenza familiare. A esse è necessario aggiungere il grande numero di coloro che, per l’onerosità di un rapporto regolare, sono rimaste clandestine.

Le badanti sono generalmente persone che non intendono stabilirsi in via definitiva nel nostro paese, ma intrattenervi un lavoro a termine o a rotazione per mantenere le famiglie nei loro paesi d’origine, per risparmiare il denaro necessario ad acquistarsi una casa in patria, per fare studiare i figli. Trascorso un certo periodo di tempo, esse tornano al loro paese.

Nella figura della badante, Viale trova una certa contiguità con quella della prostituta: «Sono entrambe donne immigrate che si occupano del corpo delle altre persone, le quali non sanno risolvere da sole problemi di carattere fisico o psicologico; in un caso si tratta di organizzare la vita di anziani non più autosufficienti, nell’altro di soddisfare delle esigenze sessuali al di fuori delle soluzioni normalmente offerte dalla famiglia».

Nell’un caso e nell’altro la prestazione è ridotta al puro intervento fisico, svuotato della componente affettiva che nel contesto familiare l’accompagnava. Sono piuttosto rariài casi in cui tra badante e persona anziana si stabilisca un rapporto di affettuosa accoglienza, di attenzione ai bisogni non espressi, di preoccupazione, di una presa in cura che travalichi i confini del mestiere. I dati sulla mobilità delle badanti confermano queste osservazioni. Questo processo che si sta affermando nel nostro paese conduce a considerare la persona anziana disabile come un individuo che esprime soltanto bisogni fisici, la cui soddisfazione esaurisce la relazione interpersonale. Nel caso delle badanti, inoltre, una relazione interpersonale più ricca è resa quasi impossibile dalle diversità della lingua, della cultura, delle abitudini che spesso costituiscono una barriera invalicabile.

La paralisi sociale

La vecchiaia, soprattutto nel caso dei disabili, rischia in tal modo di essere trascinata in uno stato di apatica immobilità, di privazione di senso, di attesa che tutto finisca. Questa terribile deriva mi sembra peraltro favorita dalla visione nichilistica della vita e del mondo, che sta avanzando come una nera nube di polvere sulla cultura occidentale. La letteratura americana contemporanea – per fare un esempio – ci sta presentando il mondo come un paese devastato e deserto, in cui ogni luce si va spegnendo e in cui unico compito dell’uomo è quello di sopravvivere contro gli altri e contro il proprio destino.

Si consolida così l’immagine della vecchiaia come il periodo della immobilità. Non c’è più nulla da fare perché nulla ha più senso per chi non produce ricchezza e per colui nel quale la propensione al consumo diminuisce. E così a ogni evento di anchilosamento segue un processo di riduzione della sensibilità, di pietrificazione, di sottrazione di vita. Il vecchio è spinto a rassegnarsi della sua inutilità, ad affidarsi alla benevolenza altrui. Viene trascinato in una condizione di a-patia, in cui le passioni sono negate. In un territorio in cui il ricordo non è più fecondo, e dove la sterilità svuota di significato non solo il presente, ma anche il passato. Tutto quello che l’anziano ha fatto nel passato non ha più alcuna importanza nel presente. Il vecchio cammina sempre più pesantemente. Ogni passo in avanti sembra sempre di più uno stare. Stare impiantati. Uno sprofondare.

E allora viene da chiedersi: che cosa sarà una società in cui la maggior parte dei suoi componenti vivrà privata di futuro e di senso? In cui la maggioranza dei suoi componenti si percepirà come destinata a una progressiva inutilità, a un processo di pietrificazione che rende tutto colloso, magmatico, immobile?

La nostra società non sembra accorgersi del rischio che una parte di essa la trascini verso il vuoto. E il vuoto non è l’aperto; è l’insensibile, l’insignificante, la privazione di orizzonti.

Perché la società continui a essere viva deve restituire vita a ciascuno dei suoi componenti, deve valorizzare ogni condizione delle persone che la compongono, deve fare in modo che ciascuna di esse – e non solo i giovani – si senta trascinata dal futuro.

La prima condizione di una simile riconversione è di restituire la voce alle persone avanti con l’età, ora condannate al mutismo. Come? Questa è una delle nuove frontiere della politica.