L’orizzonte è piatto

di Realdi Giovanni

Fuori tv non sei niente

De visu

Visibilità. L’orizzonte di senso è questo: disporsi alla vista, a esser colti dallo sguardo. Essere è esser-pubblico. Scuole, associazioni, servizi pubblici, parrocchie perfino: l’obiettivo dell’azione specifica non pare esser più eseguire al meglio il compito che la società ha riservato per ognuno, ma compierlo sotto la vista di tutti. Insegnare, va bene, ma proponiamo alla possibile utenza le nostre brochure, i progetti integrativi, le strutture della scuola. Facciamo volontariato, va bene, ma costruiamo iniziative in cui compaia bene in evidenza il nostro simbolo, in cui invitare il politico appariscente, sparpagliamo colorati volantini per renderci riconoscibili. Supportiamo e accompagniamo il disagio sociale, va bene, ma ricordiamo la nostra esistenza con serate cinematografiche, performance teatrali, mostre di fotografia. E il nostro servizio pastorale? Che sarebbe senza i mitici bigoli della sagra, la partita scapoli-ammogliati, il recital, l’attrice che racconti la sua lacrimevole conversione a tutti?

Nulla di male, si dirà, se la proposta è intelligente, e ce ne sono in giro. Ma il meccanismo sembra talvolta invertito: abbiamo in serbo una proposta (forse) intelligente, ma l’importante è far sapere di noi, di chi siamo, di quanto bravi siamo, della creatività di cui siamo portatori sani.

Sembrava una banalità anni novanta, quella per cui «Se non sei in televisione non sei nessuno», e invece è diventata parola d’ordine. Non in senso stretto forse, cioè non nel senso per cui si vada a cercare in prima istanza il mezzo televisivo. In TV si fa fatica ormai ad apparire, a meno che non ti rendi protagonista, e quindi oggetto, del realismo più spietato. Ma in senso lato: la possibilità, in qualsiasi maniera, di divenir-pubblico, conseguenza della completa commercializzazione dello strumento televisivo, sembra la risorsa più importante per avere la conferma decisiva della propria esistenza.

Digito ergo sum

L’altro lato della medaglia è fin troppo evidente. Abbiamo notato come i quotidiani locali e nazionali degli ultimi mesi si siano riempiti le pagine, seguiti a ruota dai Tiggì, delle nefandezze videoriprese nelle scuole italiane. Dopo il caso del ragazzo disabile preso a pugni, la fenomenologia è esplosa: professori dormienti, ragazze in reggiseno, lanci dalla finestra (del primo piano), risse, banchi volanti, motorini in corridoio, episodi più o meno veri di bullismo. L’enorme comunità di Internet, che opinionisti radical indicano come il vero luogo della libertà di comunicazione (e quindi evidentemente della libertà tout court), diviene l’otre in cui raccogliere e mostrare le cose come stanno. Privo della censura operata nelle televisioni, il Web diviene esperimento di democrazia totale, nel quale reperire l’informazione o il filmato, cui solamente si fa cenno negli altri media, in versione integrale. La capacità riproduttiva della rete è tale da spingere i ragazzi a costruire e filmare le loro bravate per poter finalmente comparire in pubblico. Ecco l’inversione: è il mostrarsi che dà origine all’esserci.

Dagli all’untore

Se il mostrato è l’esistente, ne viene che solo sulla base del mostrato posso giudicare la realtà. Il caso del politico, la cui auto è stata fotografata accanto al viados, è esemplare: se è stato così fotografato, dev’essere per forza un uomo di cui parlare. Non immediatamente colpevole, si badi. Un giudizio drastico ammoscerebbe la voglia di chiacchierarne. Meglio fornire elementi di ambiguità, in modo che la macchina del gossip non si fermi. E il dibattito tra colpevolisti e garantisti non è ordinato a capire quale sia lo stato della comunicazione e dell’informazione in Italia, ma ancora una volta a decidere se mostrare è bene o male.

Perché se è vero che siamo nella democrazia radicale, è anche vero che ogni status democratico ha i suoi sofisti. Questa volta però non sono abili eristi, esperti di retorica: le parole infatti vengono solo dopo. Dopo l’immagine. Non c’è più Ippia, o Callicle: c’è Lele Mora e i suoi fotografi. Seguiti a ruota da tutti gli abili commentatori.

Menarci per l’aia?

Ma l’opinione pubblica ha vita propria? Esiste?

Noam Chomsky, nel 1984, scriveva: «uno degli scopi fondamentali di un sistema educativo efficace è dotare le sue vittime della capacità di osservare senza vedere, una qualità che rappresenta il segno distintivo dell’«intellettuale responsabile»». Nel commentare il comportamento dell’amministrazione USA, il noto linguista disegna questa situazione: da un lato il pubblico, vittima di una pedagogia della confusione, abituato a recepire continuamente dati senza elaborazione; dall’altro, una serie di pensatori pubblici per i quali la missione del dotto è dispensare critiche all’apparenza decisive, e invece perfettamente ordinate al sistema. Aggiornando questa dinamica, potremmo dire: da un lato noi, i tacchini dell’aia mediatica, dall’altro lato chi ti giura di farti vedere la realtà integrale. Dribblando la considerazione che essa nasce proprio in quanto mostrata.

Sembra insomma di muoversi immersi in un continuo spostamento dell’orizzonte: non è però esso che avanza coi nostri passi, come sarebbe naturale, ma siamo noi che tentiamo di centrarci continuamente rispetto all’orizzonte stesso, che pare già dato, per produrre un senso al nostro essere. «I sistemi democratici – continua Chomsky – procedono diversamente [dalle società totalitarie], perché devono controllare non solo ciò che il popolo fa, ma anche quello che pensa. Lo Stato non è in grado di garantire l’obbedienza con la forza e il pensiero può portare all’azione, perciò la minaccia all’ordine dev’essere sradicata alla fonte». E quindi sta allo Stato – qui descritto come un Leviatano burattinaio – creare la cornice in cui anche la critica è prevista e predigerita.

Può essere azzardato immaginare questo intreccio di fili e considerarci tutti come pupi siciliani, anche perché un’interpretazione dietrologica della realtà non è esattamente una novità. Più interessante è notare invece come quel che rimane calpestato in tutto questo vedere è la possibilità di «esperienze di realtà», di quel movimento vitale cioè per cui accanto al fatto esperito nasce e si sviluppa il mio personale racconto di quel fatto, continuo tentativo di trovare la parola giusta per dirti che cosa mi è successo, quale sentimento ho provato, quale significato posso vedere e quali somme tirare su di me, su di noi, al calar del sole. Perché poi al buio, vedere non è più necessario.