Lune la fune, marte le scarpe, venere la cenere

di Realdi Giovanni

Dedicato a Luigi Meneghello

Lunedì, ore 10.45

Chiesa di San Francesco Grande in Padova. Siamo convocati al funerale del padre di tre amici del patronato. Entro, vorrei farlo di nascosto, precedendo la salma di qualche attimo. Come altre volte non so cosa dire, cosa fare. Mi siedo quasi davanti, accanto ai miei genitori. Mi sembra di tornare piccolo, accanto al papà, in quella chiesa dove ho passato anni della mia infanzia.

La percorro con lo sguardo: l’abside in fondo, con il coro e l’altare vecchio, l’organo a destra, poi la sede, i posti per i chierichetti, l’altare nuovo, con ammucchiati gli apostoli per l’ultima cena. In alto, l’arco possente con un angelo, forse l’annunciatore. A sinistra l’altare della Madonna della Salute, particolarmente tetro.

Dalla porta laterale entra il parroco: non è quello attuale, ma il frate che ci ha accompagnati negli anni ruggenti di campiscuola e attività di animazione. Ha sempre le spalle larghe, ma è un po’ più gonfio, sul volto una specie di smorfia, proprio la sua, tra le scuse e il sorriso.

Osservo gli amici nel primo banco e sento quanto poco sappia maneggiare la morte, quanto essa rimanga argomento studiato, meditato forse, ma lontano dalla carne e dal sangue.

Riconoscere i millimetri di questo edificio è come ripercorrere alcuni di quegli anni, annusandone decisamente la scomparsa.

Lunedì, ore 12.00

Fuori dalla chiesa i lavori del restauro del palazzo di fronte rendono i movimenti angusti. La gente passa in bicicletta, dribblando le fioriere del comune, e butta un occhio al gruppo, spegnendo il sorriso o aggrottando la fronte.

Ci sono tutti quelli del Patro. Ci riconosciamo e anche se non ci siamo mai del tutto persi di vista, tracciamo la linea del dare/avere dei cambiamenti. L’occasione è drammatica, ma spuntano i sorrisi e le strette di mano, qualche abbraccio. C’è quasi imbarazzo: è bello vedersi e sapersi parte di un qualcosa di comune, anche se ora facciamo sponda a un dolore grande. Faccio i conti: con alcuni di loro segniamo i vent’anni dall’iscrizione alla scuola superiore. Modiche quantità, direbbe qualcuno, ma mi sorprendono.

Lunedì, ore 13.00

Sono in piazza delle Erbe, in cerca di frutta. Il Salone restaurato di recente accoglie le siorette indaffarate, con le borse del macellaio e della boutique. I banchi delle verdure colorano il selciato: al centro la fontanella fascista, immobile, offre di che lavarsi le mani a tutti, compresi i cingalesi che governano la vendita per conto di altri. Fa pendant con la raffigurazione marmorea dei territori dell’impero italiano, sulla facciata del palazzo comunale. Due particolari minimi, ai quali l’occhio del padovano si è addomesticato, spezzoni di storia incastonati nel via-vai odierno, senza apparenti stonature. Si erano ravvivati, alcuni anni fa, scenografie naturali per alcune scene de I piccoli maestri, pellicola tratta dall’omonimo testo di Luigi Meneghello, la cui esperienza partigiana si era conclusa proprio a Padova. La piazza vuota, sparsa di detriti, le volte sotto il Palazzo della Ragione rimpinzate di sacchi di sabbia, un enorme profilo della mascella imbronciata di sfondo. Poi il carroarmato che minaccia gli studentelli resistenti e la sorpresa: si arrendono, si arrendono! Osservavamo da lontano, cose folkloristiche, carri in maschera con sopra strani esseri di un altro pianeta.

Martedì, ore 14.00

Sono in pausa pranzo, tra i lavori del collegio docenti. Mia moglie mi raggiunge al telefono, con due notizie. La prima, persone a noi carissime aspettano un bimbo. La seconda, Meneghello si è spento nella sua casa a Thiene. Facile forse il gioco di rimbalzo tra la vita e la morte, tra l’iniziare e il porre a termine. Mi guardo intorno, nel bar semivuoto e ho un po’ di nostalgia dei miei studenti.

Mi sento sospeso. È tutto una specie di contenitore, una enorme bozza trasparente e dentro ci muoviamo noi, per cominciare o per finire qualcosa. Fare: la mattinata è passata all’insegna di una pretesa produttività, cose da programmare, servizi da far partire, progetti da perfezionare. Che cosa bisogna fare per fare bene scuola? chiedevano a Lorenzo Milani. E lui: domandarsi piuttosto che cosa bisogna essere per fare bene scuola. Praxis dunque, e non sempre e solo poiesis. È una distinzione aristotelica: la seconda parola significa produzione, fare nel senso di costruire qualcosa, una sedia, un progetto, una poesia. Praxis è fare nel senso di agire, e basta, senza un obiettivo, o meglio ponendo in essere quell’obiettivo che è l’azione stessa. Bios, la vita, per i greci è praxis. Vivere non produce nulla, nemmeno la felicità, che quindi non è qualcosa che si costruisce. Non ci sono self-made men in Grecia. Nascere e morire sono proprio praxis, espressioni di bios, suoi modi di manifestarsi, come dormire, osservare, suonare.

Martedì, ore 17.00

Terminato il collegio, esco nel parcheggio. L’auto protetta dagli alberi non è caldissima. Il cielo si sta velando, potrebbe piovere. Metto in moto, retro-prima… Sento che il motore recalcitra, sbuffa. La seconda non entra. Ora nemmeno più la prima. Questo mese è già la seconda volta che qualcosa non va. Il meccanico mi dà il numero del carro attrezzi. Fumo e aspetto.

Dovrei fare, muovermi, concludere. Ma la meccanica dell’auto decide per me. Guardo in alto e le grasse nubi sono diventate innocue. Penso al nuovo bambino concepito, penso a Meneghello e ai suoi fiori. E io, che ci sto a fare? Dovrei mettere al mondo figli, scrivere libri, concludere qualcosa. Nella bolla del tutto invece vagolo a vuoto: questo mi dice quella sorta di guardiano interiore che mi accompagna, l’opposto del saggio daimon socratico. È la melanconia del non-fatto, dell’avrei-dovuto.

L’uomo del carro attrezzi è possente e tiene i capelli legati. In poche manovre sistema il grosso camion e carica la mia vettura. Ci salutiamo. Ora sono a piedi. C’è pulizia, in cielo, ora. E il vento è piacevole, porta cose nuove. Mi incammino: vado a trovare la nuova mamma.

Martedì, ore 18.00

Padova non sono le piazze. I padovani non sono i professionisti che vi sostano inebetiti la mattina nei bar, gli studenti stravolti la sera col bicchiere in mano. Padova sono le vie dietro Santa Giustina, o in Sant’Osvaldo, le strade di Santa Rita. Piccole persone, gente normale, se si può dire.

Camminare senza scopo provoca incontri luminosi. Come Lele, indaffarato col suo furgone, gli occhi chiari e le spalle larghe. Mi ferma e mi chiede se sono in pensieri. Poi mi racconta i suoi: la casa trovata, la decisione difficile di convivere, perché due affitti sono assurdi. O Marcello, il Professore, che ciondola preciso sul marciapiede e mi chiede notizie dei fratelli. Sfodera qualche lamento puntuale, mai fuori luogo in realtà: la scuola, i figli di avvocati che vanno al Classico, ma non s’imbevono di alcuna cultura. Colpa di chi? Compro delle fragole, grasse e rosse, il verduraio è gentile.

Sono fuori dalla bozza di vetro, la vita sembra un bovolo dolce.

Venerdì, ore 15.00. Malo

Il suo paese è mite, come lui stesso, nell’intervista con Marco Paolini. Si è raccolto un migliaio di persone, di fronte al portone della Casa Bianca, si fa la fila per firmare il libro delle partecipazioni. C’è compostezza e un chiacchiericcio non petulante. Qualche televisione rivolge domande idiote agli accademici accorsi.

Avevo stampato una foto di Meneghello trovata in internet: mescola il caffè, o forse il tea, e osserva arguto qualcuno sulla destra. Sta parlando, o chiedendo qualcosa. Che fine ha fatto quel tale? Come si diceva quella cosa?

Sento forte il rimpianto di non averlo incontrato di persona. Ma poi, che cosa ci saremmo detti? Sarei rimasto imbarazzato ad attendere qualche spunto da lui. Meneghello ci ha lasciati, ma per il curioso destino degli scrittori, anzi, come lui preferiva, di uno che scrive cose, la morte non è mai un abbandono. Leggerlo è risuscitarlo, è godere ancora della sua forma di bios. Da piccolo maestro, insegna la pacata arte dell’antiretorica: a differenza di drappelli di cinquanta-sessantenni – a cui pagheremo la pensione -, che non fanno altro che ricordarci quanto eroici siano stati, invocando inutilmente i loro 68 e 77, Meneghello ha raccontato le storie della sua giovinezza senza mai rivendicare di esser stato una qualche meglio gioventù.