Una necropoli per i vivi. Dentro Il Cairo

di Masina Ettore

Il Cairo è una mostruosa megalopoli di cui nessuno conosce con esattezza le dimensioni umane: secondo alcuni, la sua popolazione è di 13 milioni di abitanti, secondo altri addirittura di 16 milioni. I problemi del traffico e dell’inquinamento atmosferico sono gravissimi; e il processo di crescita continua, devastante.
Ovunque vanno sorgendo palazzi che sembrano già fatiscenti; in mezzo a loro e accanto agli stupendi monumenti dell’antichità islamica si accalcano casupole che sono poco più che ruderi sbrecciati, di un triste color fango. Soltanto l’area del turismo e quelle riservate alle onnipresenti forze armate e ai loro famigliari mostrano un aspetto elegante, igiene, modernità.
I pullman che trasportano i turisti all’aeroporto di Heliopolis costeggiano, per un lungo tratto, un grande quartiere. A notte ne traspare la vera identità: mille piccole luci suggeriscono l’idea di un cimitero. Il quartiere, infatti, si chiama Città dei morti ed è interamente composto di tombe; ma nelle tombe abitano adesso, insieme con i morti, 18 mila famiglie di vivi.

Dormire con i morti

In quell’immensa necropoli, ogni famiglia del Cairo che disponesse di un po’ di danaro ha costruito per decenni e forse per secoli l’equivalente di una piccola cappella funeraria; in cui ogni anno riunirsi per ricordare i propri morti; sepolti sotto il pavimento di terra battuta. Da tempo i senzatetto del Cairo hanno cominciato a invadere quelle tombe, a installarvisi con le loro povere masserizie.
Mansuetamente, quando il proprietario si presenta con un funerale se ne escono dal sepolcro, rimangono, con le loro cose, in attesa, nelle strade sconnesse. Avvenuta la sepoltura, subito rientrano a vivere sopra la fossa appena ricoperta. Vi sono sepolcri più ricchi con tombe a vista, di mattoni e di pietra. Racconta un amico: “Ho fatto visita a una famiglia che aveva un letto matrimoniale posto fra due di questi sarcofagi”.
Per vivere tra i morti (con quali conseguenze igieniche è facile immaginare, tanto più che l’Islam seppellisce i cadaveri senza bara) qualcuno degli abitanti della città si arrabatta a pagare un affitto ai proprietari.
Nel corso della nostra vita Clotilde ed io abbiamo visto molte favelas e cantegrilas e villas-miserias e poblaciones e ne portiamo nella memoria l’atrocità. Ma questa coabitazione fra cadaveri e viventi ci è sembrata un simbolo particolarmente mostruoso dell’ingiustizia che continua a regnare nel mondo: per la quale alcuni, anche da morti, hanno un’abitazione ed altri non ce l’hanno neppure da vivi.

Una lenta inondazione umana

E però, sbiadito l’orrore della nostra ritrovata lontananza geografica di quei luoghi, un altro sentimento si fa strada pian piano dentro di me: ed è una specie di dolorosa allegria che rende omaggio alla esplosione della vita che non si arresta davanti ad alcun ostacolo: gigantesca marea umana che preme sui confini della nostra cultura di morte la quale assicura la conservazione dei ricchi defunti ma non una vita degna per i poveri; o lenta inondazione umana che continuerà a filtrare attraverso ogni paratia stagna approntata dal nostro insensato egoismo; che né le leggi di Schengen né il muro eretto fra Texas e Messico potranno arginare; che, poco a poco ma irresistibilmente, va modellando una nuova Terra con la mite forza dei padri che cercano pane e speranza per i figli, delle madri che non vogliono più perdere i loro bambini nel genocidio della denutrizione; dei profughi che si sottraggono con fughe eroiche alla insensata violenza dei signori della guerra manovrati dai mercanti d’armi o dall’avidità delle transnazionali.
La Città dei morti è diventata, dopo tutto, città di vivi.
Così sarà certamente di quella parte della nostra civiltà occidentale che è defunta per eccesso di privilegi. Io penso che, mentre i morti seppelliscono i morti, noi dovremmo lasciarci contagiare da quell’ansia di vita