Articolo diciotto
L’articolo 18, in queste settimane ancora una volta al centro del dibattito politico nazionale, non è evidentemente «solo» un articolo chiave di una legge. Una legge pur importante, la n. 300 del 20 maggio 1970, più conosciuta con il nome di Statuto dei Lavoratori. Dentro l’articolo 18 invece, e sopra e tutt’intorno al tema specifico, si confrontano concezioni e idee della politica, dell’economia e della società diverse e in certi casi contrapposte.
Al fondo del dibattito ci sono nodi forti che spesso hanno un’eco puntuale nel testo della nostra Costituzione e nei diritti in essa sanciti. Il nodo più evidente, la contraddizione da sciogliere, sta nella difficile composizione di diritti diversi e in taluni casi confliggenti: la libertà d’impresa e i diritti dei lavoratori.
Cosa c’è dentro l’articolo 18
L’elemento giuridico e tecnico normativo non è il centro del problema.
Conviene però chiarire che il principale motivo del contendere attiene alla cosiddetta «flessibilità in uscita». La legge 300 del 1970, frutto di lunghe lotte sociali e di una lunga mediazione parlamentare (ricordo che in quel medesimo 1970 si celebra lo storico referendum sul divorzio), stabilisce un diverso regime per le piccole aziende (fino ai 15 dipendenti) e le medie e grandi aziende (oltre i 15 addetti).
Qual era la ratio della legge? Per le piccole imprese, naturalmente più fragili e soggette a fattori esterni, viene fatto prevalere il «diritto di impresa», si dà cioè la possibilità all’imprenditore di licenziare, anche non in presenza di giusta causa o motivi disciplinari o crisi produttiva. Viceversa, per le imprese con più di 15 dipendenti, che si presume più solide, patrimonializzate e forti sul mercato, fermi restando i motivi di giusta causa eccetera, si fa prevalere ilàdiritto del lavoratore a tempo indeterminato a conservare il suo posto di lavoro. In caso di licenziamento illegittimo è quindi previsto il reintegro sul posto di lavoro. Libertà economica e diritti dei lavoratori. Ecco quindi riproposti due diritti fondamentali contemplati dalla nostra Carta Costituzionale, frutto com’è noto di un felice compromesso tra la matrice liberale, democratica, cattolica e socialista. Tutti gli articoli del Titolo III della Carta, quello dedicato ai rapporti economici, da una parte sanciscono il diritto alla proprietà privata e alla libertà economica, dall’altra limitano tali diritti all’utilità sociale e all’interesse pubblico, stabilendo nel contempo i diritti al giusto salario, la libertà di associazione sindacale, il diritto di sciopero. Come si sa, non è previsto, e non a caso, il corrispondente diritto di serrata.
Pur ribadendo i classici diritti della tradizione liberale (proprietà e iniziativa privata), tali diritti appaiono «attenuati», cioè limitati dall’interesse collettivo e dal principio della tutela della parte debole, in questo caso i lavoratori rispetto al proprietario dell’impresa.
Vecchio e nuovo
È sicuramente riduttivo, ma forse illuminante, prendere per buona la lettura che vorrebbe vedere, dietro lo scontro sull’articolo 18, la battaglia fra il Vecchio e il Nuovo. Evidentemente si tratta di uno slogan propagandistico, di una semplificazione manichea, caratteristica della vision di Renzi e del renzismo. Ma si sa, oggi la politica si combatte anche a colpi di tweet.
Forse però non si tratta solo di una boutade del giovane Renzi. A guardar bene, la storica battaglia del «nuovo che avanza» contro «il vecchio che resiste» è già stata evocata da Monti & Fornero nel 2012, e in qualche misura anche del governo Berlusconi nel 2002. Tutte le volte insomma che si è tentato, con alterne fortune, di modificare l’impianto dello Statuto dei Lavoratori, attraverso il suo principale architrave, l’articolo 18.
Se però l’assunto fosse esatto, chi farebbe la parte del Nuovo e chi quella del Vecchio? Se guardiamo ai due principali competitors dello scontro odierno, Matteo Renzi e la CGIL, noteremo che entrambi accusano l’altro di stare dalla parte del Vecchio (del resto, è sempre bello dipingere sé stessi con i colori del Nuovo). Matteo Renzi accusa il sindacato, e segnatamente la CGIL che ne è di gran lunga la forza maggioritaria, di difendere l’orticello dei garantiti, lasciando in altomare la massa crescente dei lavoratori precari (in verità si è spinto addirittura ad accusare il sindacato stesso, e non le forze imprenditoriali, ad aver creato milioni di «senza diritti»). Più in generale, per Renzi FIOM, CGIL e gli altri sindacati rappresentano ormai solo un apparato burocratico e parassitario, retaggi del Vecchio che deve essere spazzato via per dare una nuova e moderna agilità al mercato del lavoro (la parola magica è: flessibilità). Un’Italia moderna, competitiva, attrattiva per i capitali stranieri, deve ridurre fortemente il potere di interdizione (vedi anche: contrattazione, concertazione) del sindacato. Meglio ancora, deve eliminare dalla scena politica questo attore che resiste al cambiamento.
Da parte sindacale, specie per bocca di Landini e di Camusso, Fiom e CGIL, la critica viene interamente ribaltata su Renzi e sulla sua politica. Attraverso l’attacco all’istitutoàdel reintegro sul posto di lavoro per i licenziamenti senza giusta causa, attraverso il rifiuto della concertazione e la diffidenza verso la contrattazione, attraverso infine l’attacco frontale alle istituzioni della rappresentanza sindacale, la politica del presidente del Consiglio vuole riportare le relazioni industriali e la società italiana indietro di sessant’anni. Vuole insomma spacciare come Nuovo, il ritorno al Vecchio: a quell’Italia degli anni cinquanta dove in fabbrica i padroni regnavano incontrastati e i diritti dei cittadini lavoratori non erano tutelati né dalla legge, né dai propri rappresentanti democraticamente eletti.
Effetti collaterali
Dodici anni fa il tentativo di Berlusconi, allora presidente del Consiglio, e del suo ministro del Lavoro Roberto Maroni, di porre mano all’articolo 18, fu fermato da un’oceanica manifestazione indetta dalla CGIL di Sergio Cofferati, a cui parteciparono tutte le sigle e tutte le bandiere sindacali. Ne sono stato un emozionato testimone diretto: Roma era talmente bella da star male.
Andò meglio (o peggio) al governo Monti e al tristemente famoso ministro Fornero (specie per il pasticcio sugli esodati) che, agitando lo spettro della Troika e il default del Bel Paese, ottennero una radicale riforma dell’articolo 18. Tanto che qualche commentatore contesta a Renzi di agitarsi per nulla. Dal 2012 non esiste più il «reintegro automatico», ma per far valere tale diritto il lavoratore licenziato senza giusta causa deve passare necessariamente per il pronunciamento del giudice.
Nelle prossime settimane – ma il testo definitivo che uscirà dalle Camere potrebbe riservare qualche sorpresa – l’obiettivo del governo è quello di scambiare automaticamente il reintegro con un risarcimento economico. 18 mesi di salario ad esempio. Che, sia detto per inciso, per un putacaso licenziato cinquantenne equivarrebbe al default. Personale e famigliare, in questo caso.
Rimangono invece, e prevarranno nel medio periodo, i cosiddetti «effetti collaterali». Non tanto quelli riguardanti il ciclo economico: nessuno infatti, nemmeno Renzi, si sente di sostenere che tali misure sul mercato del lavoro aumenteranno l’occupazione o il Pil. Lo avrà, forse, il progetto di defiscalizzare per tre anni le nuovi assunzioni (dopo aver licenziato altrettanti cinquantenni?).
I veri effetti dobbiamo aspettarceli nel cuore della società. La battaglia dei diritti, che dura da cento anni tra alterne fortune, è destinata a continuare. Un sindacato che ha molte ragioni dalla sua parte – ma pure un carico di peccati mortali: autoreferenzialità, verticismo, incapacità di entrare in contatto con i nuovi soggetti e i nuovi lavori – si troverà a fronteggiare da solo un forte vento neoliberista: il tentativo di lasciare nella Costituzione solo i «diritti proprietari» e affossare i «beni comuni», gli interessi collettivi, il diritto delle parti più deboli.
Per farlo, al sindacato non basterà dire No, ma dovrà cambiare pelle. Se avrà il coraggio di farlo, come successe agli inizi degli anni sessanta, troverà giovani interlocutori e alleati, compreso il grande mare dei giovani precari. Se non avrà questo coraggio, per la prima volta nella sua storia, sarà in gioco la sua stessa sopravvivenza.
Per farlo, al sindacato non basterà dire No, ma dovrà cambiare pelle. Se avrà il coraggio di farlo, come successe agli inizi degli anni sessanta, troverà giovani interlocutori e alleati, compreso il grande mare dei giovani precari. Se non avrà questo coraggio, per la prima volta nella sua storia, sarà in gioco la sua stessa sopravvivenza.