Cambiare

di Realdi Giovanni

Macondo, l’associazione madre della rivista che ora state sfogliando, porta nella sua anima, da sempre, la cifra del cambiamento. È insomma nata a partire da tutte quelle pratiche e intuizioni che consentano di sottoporre a critica la realtà e, nello stesso tempo, di individuare tragitti di novità. In esse trova nutrimento. La direzione è sempre quella, ostinata e resistente: la persona umana.

Che sia necessario cambiare, che la nostra vita di esseri umani in questo pianeta debba essere oggetto di rinnovamento appare un dato di fatto. O per lo meno, e forse qui sta il punto, nel momento in cui state leggendo queste righe siete in grado di avvertire come naturale, persino ovvia, questa necessità. Cambiare è un verbo connaturato al linguaggio del gruppo umano nel quale, voi e io, adesso ci troviamo.

E Macondo non è sola, in tutto questo enorme, delicato, tentativo. L’Italia e il mondo sono abitati da milioni di iniziative, individuali, di gruppo, associative – reali o virtuali – che non solo credono, ma praticano quello che è stato per una stagione troppo breve uno slogan sentito: un mondo diverso è possibile. Guardiamo un solo istante dalla finestra, cosa troviamo, solo nel tempo di queste settimane? Esempi sparsi, quasi a caso: i marxisti-leninisti di Lotta Comunista propongono la conferenza Opposizione proletaria alla politica imperialista europea contro i salari; il Centro Culturale Protestante di Milano promuove uno spettacolo sul tema della diversità culturale; a Napoli il coordinamento Il vangelo che abbiamo ricevuto organizza il convegno Con Francesco nelle periferie dell’esistenza; l’Associazione Casa del Fanciullo in collaborazione con il Centro studi Olivotti organizza il convegno La famiglia è di casa – Generazioni e Comunità Educante; a Latina ci si riunisce per la XIX edizione della Giornata dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, organizzata da Libera e Avviso pubblico; Obama e l’Unione Europea vengono contestati per il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti da un corposo coordinamento trasversale, a Roma, davanti all’ambasciata USA; attraverso change.org si invita la Regione Umbria a diffondere i risultati mai pubblicati sui primi monitoraggi delle diossine nel latte e sulle uova; Aavaz.org raccoglie le firme contro «i 14 miliardi di euro per dei caccia F35 americani che non ci servono a niente»…

Senza sesto

Gli esempi sono una porzione minima di quanto si muove attorno a noi. E francamente gettano nel disorientamento: ciascuno di noi – almeno i fortunati che lo hanno – già si destreggia per fare al meglio il proprio lavoro quotidiano e stare con la famiglia. Il tentativo di seguire, anche solo in parte, anche solo alcune delle iniziative di cambiamento, richiederebbe una giornata fatta di 36 ore. L’attivismo, fateci caso, quando non sia diventata per molti una vera e propria professione, chiede un’energia, in termini di tempo, di idee, di bagaglio informativo, che la maggior parte delle persone comuni non possiede. Accade, a mio modo di vedere, una dinamica simile a quella dell’impegno pastorale, nelle parrocchie e in associazioni storiche come ac e agesci: due, tre riunioni serali settimanali, appuntamenti fissi nei fine settimana, nei quali, dopo un po’, i volti sono quelli sempre delle medesime persone.

Ma non solo. Chi si muove, anche solo un poco, nell’acqua del cosiddetto Terzo Settore – quel non profit oggi finalmente messo in pubblica discussione da un saggio di Giovanni Moro – percepisce le sue continue ambiguità: cooperative sociali il cui servizio risulta raffazzonato; associazioni che mascherano profitti; organizzazioni dedite in modo frenetico al fund-raising; strutture sedicenti sociali che nascondono verticismi e assenza di partecipazione alle decisioni…

Sembra normale che i dati Istat fotografino la disaffezione giovanile per il voto e, forse, sembra altrettanto normale che segnalino l’aumento di giovani volontari… Ma che cosa aspetta loro? Quale cambiamento possono portare nel mondo se le associazioni alle quali partecipano riproducono dinamiche opinabili?

Un’epoca imperiale

Lo storico del pensiero antico Pierre Hadot riporta, parlando delle cosidette «scuole ellenistiche» e del loro ideale di saggezza, una citazione del sociologo G. Friedmann, per me eloquente: «Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni». Oggi potremmo perfino sostituire «politica militante» con «azione solidale», «rivoluzione sociale» con «mondo diverso possibile» e la riflessione rimarrebbe valida. E non è un caso che il discorso di Friedmann, così attuale, riguardi questioni all’apparenza passate, come stoici ed epicurei.

Sono nomi che forse solleticano qualche lontano appunto scolastico nella memoria. Qui basti dire che si tratta di scuole filosofiche che fioriscono quando il nostro occidente vive una stagione imperiale, fosse quella di Alessandro Magno per la Grecia, o poi di Roma.

Anche oggi siamo in una situazione di sudditanza a un impero. Vige un pensiero unico, mascherato da continua novità e trasformazione, un ordine esteriore che si fa gerarchia interiore: è il mercato, il capitalismo cosiddetto neoliberista, nella sua versione finanziaria. Come un sovrano da un remoto palazzo d’oro – o da sperduti campi di battaglia – allo stesso modo Qualcuno decide l’andamento del nostro lavoro, della nostra istruzione, dei servizi statali. Non si tratta di paranoia dietrologica: non è necessario ipotizzare uno Zio Sam in carne e ossa, o una élite ristretta, che tirino i fili dei burattini. Le nostre scelte quotidiane cocciano contro limiti continui, la cui origine non è immediatamente individuabile, ma che somigliano alla dinamica del motore di ricerca Google: posso scegliere quale risultato mi interessi, tra migliaia. Ma non posso scegliere davvero, perché quelle migliaia di possibilità sono state predeterminate da algoritmi fondati sulla scelta altrui: quanto più un link è cliccato, tanto più «sale in classifica» e viene abbinato a indicazioni di mercato, a pubblicità di prodotti, a informazioni utili a incontrare i gusti delle persone.

Certo Qualcuno decide cosa e come investire. Ma le mie azioni di oggi ricadono in un novero di possibilità decise, per la maggior parte, da dinamiche meccaniche impersonali: posso anche acquistare a km «zero», ma per sapere quale negozio mi è utile impiegherò un pc con una connessione internet; posso anche aderire a compagnie telefoniche quanto più etiche e trasparenti, ma il mio smartphone è stato costruito con metalli per i quali si sparge sangue, da manodopera sottopagata, in condizioni malsane; posso anche aver comprato un cellulareà«etico» (vedi il Fairphone), ma il contratto del lavoro con cui lo pago potrebbe essere appeso a un filo. E con lui, il mio mutuo per la casa, che sono costretto a pagare a una banca che forse proprio etica non è. Controllare tutto è un’operazione che potrebbe concludersi con l’assunzione di psicofarmaci la sera.

Le scarpe dell’indiano

La compagnia che propone una conferenza-teatrale, Popeconomix, ha fatto tappa anche nel liceo ove lavoro. Sessanta minuti splendidamente animati da un attore e giovane economista che, insieme agli autori, ha studiato sodo per spiegare a tutti come ha preso avvio la crisi nella quale siamo, la cosiddetta «crisi dei subprime». Alla fine il messaggio è chiaro: Qualcuno ha deciso gli spostamenti di denaro, virtuale e poi reale; Qualcuno ha voluto l’epilogo cui abbiamo assistito, drammatico per governi, aziende e cittadini. Ma ai ragazzi è arrivato anche un altro messaggio, semplice e determinante: quel Qualcuno aveva un fedele collaboratore. Sono i milioni di persone che non hanno saputo evitare di cadere nella trappola del mercato e, sfruttando mutui facili, hanno puntato a uno stile di vita incompatibile con il loro stipendio. Drogati di bisogni indotti, hanno lasciato che altri decidessero la gerarchia dei propri desideri. L’anima assordata dagli spot, hanno sognato una vita più degna grazie a macchine più potenti, case più grandi, crociere più lunghe e perfino università più prestigiose per i propri figli.

E allora, dove sta il punto?

Ascoltiamo Marco Aurelio: «Quanto vale, di fronte alle leccornie e ai cibi di questo genere, accogliere l’immagine: «questo è il cadavere di un pesce, quest’altro il cadavere di un uccello o di un maiale», e, ancora, «il Falerno è il succo di un grappolo d’uva», e «il laticlavio (ornamento rosso della veste senatoriale) sono peli di pecora intrisi del sangue di una conchiglia»; e, a proposito dell’unione sessuale: «è sfregamento di un viscere e secrezione di muco accompagnata da spasmo»! Quanto valgono queste rappresentazioni che raggiungono le cose in sé e le penetrano totalmente, fino scorgere quale sia la loro vera natura! Così bisogna fare per tutta la vita, e, quando le cose ci si presentano troppo persuasive, bisogna denudarle e osservare a fondo la loro pochezza e sopprimere la ricerca per la quale acquisiscono tanta importanza. Perché la vanità è una terribile dispensatrice di falsi ragionamenti, e ti lasci più incantare proprio quando più ti pare di impegnarti in cose di valore».

Se vi pare complicato quanto il filosofo dice, un detto attribuibile alla saggezza dei nativi americani riassume al meglio la questione: se avrai bisogno di un paio di scarpe, non sarai un uomo libero.

La richiesta non è camminare scalzi per le strade di questo mondo… Ma nemmeno far di Francesco d’Assisi – lo scalzo per eccellenza – una delle tante ideologie in conflitto. Che fare? Una sorta di sano «egosimo», una stanchezza piena di cura: cominciare a chiedere a sé stessi, nel segreto della propria stanza, di che cosa davvero abbiamo bisogno.