È il pensiero che canta

di Realdi Giovanni

Il lato nascosto delle parole

«Ogni nostra conoscenza di Dio è puramente simbolica» dice un filosofo settecentesco. Puramente simbolico. Non intendeva certo impiegare il termine nello stesso senso di un conoscente nel porgerci uno striminzito pacchettino di cioccolatini natalizi, sottolineando che si trattava di un regalo puramente simbolico, quello del pensiero che conta.

Kant il pensiero lo faceva, se mai, cantare e nella sua lapidaria affermazione riassumeva l’antica tradizione secondo cui ogni attributo conoscitivo che presumiamo di appiccicare alla divinità, poiché raccolto tra i tanti della nostra umana esperienza, non può che descrivere solo la nostra situazione: si chiami giudice, signore degli eserciti, padre misericordioso o amorevole madre, si tratta di nomi che raccontano il nostro situarci nei confronti di un dio ragionevolmente sperato. Di Lui, o di Lei, nulla possiamo dire. Tommaso d’Aquino ne era tanto convinto da chiedere al confratello di bruciare l’intera sua opera, valevole come paglia, pallido balbettio, muggito sommesso di fronte al deus absconditus.

È forse la maggiore eredità che traiamo dalla sapienza ebraica: un altro gran balbuziente, forte del suo senso di giustizia e dotato di una solida curiosità si ferma a osservare un roveto ardente che la fiamma non consuma. Coinvolto da Adonai in una missione impossibile, cerca di armarsi di fronte allo scetticismo dei suoi consanguinei e reclama un nome da portar loro innanzi: io sono colui che sono, è la risposta. Grazie tante: la voce sembra prendersi gioco del pensiero umano, che cerca la casella corrispondente dove infilare le cose. E invece per Dio non c’è scatola concettuale che tenga: tieniti il dubbio, Mosè, e gioca con le parole, cercando quella vera.

Tabù

Le parole sono proprio a nostra disposizione. Le prendiamo dalla scatola ove sono ordinatamente disposte e pensiamo di usarle per farci qualcosa. Le prendiamo come marionette ammaestrate, da far saltare o correre o bastonarsi al momento giusto, e gli altri debbono rimanere a bocca aperta, come bimbi di fronte al mago del carrozzone alla festa patronale. Mi capita spesso di parlare a gruppi di genitori o di scout, e le prime volte mi pareva proprio di somigliare a Mangiafuoco: avevo qualche idea in testa, ma l’importante era trovare la domanda giusta, quella che intercettasse il bisogno reale degli astanti. Anche qui: burattini, cose con le gambe che muovo con le corde. E faccio far loro quello che voglio, a beneficio del pubblico pagante. Grossi premi e cotillons. A rivedermi, mi scoprivo non troppo diverso da uno spot, da un politico o da altri animali televisivi: suscito un bisogno, un desiderio o un’attesa di qualche tipo e poi consegno le risposte, preordinate.

E allora ho provato a muovermi diversamente, sfidando il tabù della non-risposta. Sì, perché quello che emerge anche da una lettura superficiale del reale, è che siamo assediati da parole-risposte: il nostro senso di insicurezza è stato pompato a dovere e, dal dentifricio usato di prima mattina al best-seller sfogliato prima di spegnere, ogni cosa ci viene suggerita come decisiva per il nostro benessere. Siamo organismi complessi ridotti a tubi digerenti, come la divinità autobiografica della Nothomb: annusiamo, ingoiamo, succhiamo, tratteniamo, espelliamo. Tutto pare avere un buon odore, un buon sapore, pare farci bene: così infatti è stato pensato apposta per noi, tutto intorno a me. Che cosa accade invece se le parole non intendono descrivere e risolvere, ma solo suggerire e muovere l’intuizione?

Leggi della robotica

Se in altre parole accettassimo che i pupi abbiano vita propria? Se scoprissimo che nottetempo i burattini si agitano da sé e parlino tra loro e discutano della loro giornata? Se in altri termini ci arrendiamo al fatto che le parole non sono solo cose da usare? In quel baule pieno di odori, quella cassapanca delle meraviglie che è Praga città magica, Ripellino ci suggerisce l’origine della parola robot, negli stessi anni, o quasi, in cui Asimov vedeva nel futuro. Leggendo del golem, creatura mitica plasmata dai rabbini nelle leggende vtlavine (dal nome ceco della Moldava), scopriamo che robot viene dall’area slavofona e sta per servo, uomo di fatica. Un essere artificiale, di foggia adamitica, costruito con l’argilla: imperfetto, embrionale. «Omaccio balordo e goffissimo», decerebrato, animato giusto per qualche peso da spostare, per «suonare le campane», o per difendersi dai gentili e poi necessariamente distrutto. Perché potrebbe ribellarsi, fare da solo, seminando il panico. Accanto alla sinagoga chiamata Spagnola, nel quartiere Josefov di Praga, c’è un monumento bronzeo dedicato a Kafka: lo scrittore siede a cavalcioni di un essere gigantesco, privo di testa e di arti. Pare dominarlo, muoverlo, ammaestrarlo, additando con l’indice destro la direzione. Lo sguardo di Franz però non è di ostentata sicurezza e conserva quella malinconia cinica che scorgiamo nei suoi personaggi: potrebbe esserci un senso, ma è il fatto di cercarlo, anche con estrema sofferenza, che conta.

Mi chiedo se lo sforzo di ogni scrittore grande possa essere semplicemente ridotto all’uso delle parole. O se invece la sua grandezza non stia proprio nel continuo sforzo di trovare la parola, di permettere al reale di essere nominato, concretizzato, svelato alla mente e al cuore degli uomini. In questo senso lo scrittore ubbidisce al linguaggio e non è solo suo governatore e nello stesso tempo ubbidisce alle cose come sono: si affida alla capacità simbolica che ogni parola conserva nel suo intimo e coglie un collegamento con uno spicchio di realtà, che da grigio assume la dimensione e il colore suoi propri, ma prima solo nascosti. Il Golem ha una sua vitalità, che va intuita e sedotta.

Succede l’esatto contrario quando invece pretendiamo che le parole abbiano solo quel significato, che individuiamo a nostro consumo: intervistato da Roth, nel suo Chiacchiere di bottega, uno scrittore ceco racconta la sensazione di assurdità, addirittura di comicità, provata nell’ascoltare in tempi di libertà i discorsi degli esponenti del regime sovietico. Eppure quei pomposi sproloqui venivano proposti e recepiti come assolutamente normali. Con quale sentimento reagiremo tra vent’anni alle interviste televisive dei nostri politici?

Questa non è una frase

L’ambito del sacro, come quello della cosa pubblica, patisce quella che Gianni Tognoni, amico di Macondo, chiamava l’occupazione delle parole. Parole e immagini disoccupate: ecco ciò che ho incontrato osservando, giorni fa, le opere di Magritte in mostra a Milano. Forme da un lato, colori dall’altro, titoli da un’altra parte ancora: tu cerchi il collegamento, fai funzionare la ragione calcolatrice, quella dei percorsi logici, ma il meccanismo fa cilecca. Ho provato a guardare il quadro per coglierne il messaggio e poi a leggere il titolo: nessuna convergenza, in apparenza. Facendo l’operazione opposta sono ancor più rimasto imbrigliato nel fumo delle non-pipe del pittore.

Vuoi capire e capire ancora ma devi rassegnarti a intuire. Il senso c’è, anche se è volutamente reso non disponibile dall’autore, che segue il suo segno e il suo sogno e getta fuori l’opera.

Ma ciò che è onirico non vale nella società della trasparenza totale, quella ostentata dai poteri partitici e religiosi nella loro estrema disponibilità di risposte, ma nello stesso tempo curiosamente tradita dai loro comportamenti pubblici: onestà, da un lato, e perdono dall’altro, echeggiano tonitruanti nelle aule parlamentari e in tante cattedrali, per poi svanire, bolle di sapone, di fronte alla tronfia spudoratezza degli accordi sottobanco in una losca telefonata, di fronte alla drammatica verità del dolore di un padre sfiancato.

«Ci fu una giornata di sole. Cosimo con una ciotola sull’albero si mise a fare bolle di sapone e le soffiava dentro la finestra, verso il letto della malata. La mamma vedeva quei colori dell’iride volare e riempire la stanza e diceva – O che giochi fate! – che pareva quando eravamo bambini e disapprovava sempre i nostri divertimenti come troppo futili e infantili. Ma adesso, forse per la prima volta, prendeva piacere a un nostro gioco. Le bolle di sapone le arrivavano fin sul viso e lei col respiro le faceva scoppiare, e sorrideva. Una bolla giunse fino alle sue labbra e restò intatta. Ci chinammo su di lei. Cosimo lasciò cadere la ciotola. Era morta».à(Italo Calvino, Il barone rampante).