Essere vecchi oggi

di Bertin Mario

Una vita piena di niente

Nella letteratura, nel cinema fa tendenza costruire storie di vecchi in due maniere contrapposte: o come persone un po’ bislacche, anche un po’ comiche – patetiche più che divertenti – che fuggono da case di riposo, attraversano continenti, organizzano complotti. Oppure come personaggi alla deriva di un’esistenza la cui parte che conta è ormai tutta alle spalle, che precipitano nel buco nero della solitudine e della demenza.

L’uno e l’altro aspetto, spogliati della maschera talvolta farsesca di cui scrittori e cineasti li rivestono, sono presenti nella condizione anziana di oggi, anche se in forme più problematiche e complesse, ma che vanno a comporre una nuova realtà sociale. Sandro Antoniazzi dice che stiamo assistendo a un vero «passaggio d’epoca, a una vera e propria svolta» che interessa sia il modo di vita individuale che l’organizzazione della società.

Il fenomeno che sta alla base di questo cambiamento è l’invecchiamento della popolazione, che perdura ormai da anni in tutto il mondo, ma in particolare in Europa, con l’Italia ai primi posti. Esso è dovuto all’incremento della popolazione in età avanzata (la speranza di vita in Italia è sopra gli ottant’anni), alla riduzione di quella in età giovanile, al contenimento della fecondità. È curioso notare che l’invecchiamento della popolazione si produce ovunque con l’aumento del reddito pro-capite (la soglia sono i 7.000-8.000 dollari l’anno).

L’invecchiamento della popolazione comporta un aumento del carico della popolazione anziana sul resto della società. Oggi nel nostro Paese, ogni cento giovani ci sono quasi 150 anziani. Siamo secondi alla sola Germania. A livello regionale, è la Liguria a detenere l’indice di vecchiaia più alto con 236 anziani ogni cento giovani e la Campania si conferma la regione con l’indice più basso (103 per cento). Nessuna regione italiana, dunque, ha un numero di giovani superiore a quello degli anziani.

Questa situazione ha conseguenze devastanti, strettamente correlate fra loro, sia in campo economico che nelle relazioni intergenerazionali. Il costo delle persone anziane col tempo diventa insostenibile (attualmente è pari a circa il 20% del Pil), tanto che con la riforma Dini, prima, e poi con la riforma Fornero, per il calcolo della pensione, si è introdotto il metodo contributivo puro, che rompe il patto tra generazioni che ispirava il precedente sistema a ripartizione. Fino ad allora il sistema funzionava sulla base del seguente principio: io pago la pensione a te, sicuro che, quando sarò vecchio, un giovane la pagherà a me. Oggi non è più così. Ciascuno è responsabile del suo futuro. Inoltre, l’assenza di integrazioni assicurative a carattere contrattuale (i cosiddetti fondi pensione) espone a grave rischio i lavoratori di oggi. Ma anche gli attuali pensionati, che godono di pensioni relativamente modeste (il 42,6% percepisce mensilmente meno di mille euro), tassate proporzionalmente più degli altri redditi e molto di più che negli altri Paesi della UE, assistono a una progressiva perdita del potere d’acquisto delle loro pensioni, spingendoli verso l’area dell’assistenza, pubblica e privata, nelle sue diverse forme.

Paradossalmente, come ha messo in evidenza uno studio dell’Università Bocconi, la vecchiaia sul lavoro inizia oggi a 45 anni. Questo vale per chi ha il posto di lavoro fisso e, a maggior ragione, per coloro che non ce l’hanno. Infatti nelle aziende la discriminazione per l’età (52%) supera nettamente quella di genere (32%) e quella di percorso scolastico (27%). In presenza di un allungamento della vita, assistiamo, dunque, a una drastica riduzione dell’età in cui una persona può accedere al lavoro o dell’interesse dell’azienda a investire su di lei. Ovviamente su questo fenomeno ha una considerevole incidenza anche la padronanza nell’uso delle nuove tecnologie, che è più estesa tra i giovani. L’esperienza sul lavoro conta molto meno di ieri. Quella di vita, poi, tradizionale patrimonio delle generazioni anziane, conta meno di niente.

Gli ultrasessantacinquenni in Italia sono 12,3 milioni. Di essi, circa il 19% sono non autosufficienti e 1,4 milioni ricevono l’indennità di accompagnamento. Circa trecentomila sono ricoverati in una casa di riposo, ma con una distribuzione sul territorio moltoàdiseguale. Infatti i posti letto disponibili in Basilicata sono lo 0,5% della popolazione anziana, contro il 5% della provincia autonoma di Trento. Inoltre, i costi delle rette richieste superano ovunque l’importo medio delle pensioni. L’assistenza residenziale, dunque, non riesce a incontrare la domanda. Lo stesso dicasi dei centri diurni, che hanno una diffusione molto frammentaria.

Se poi si considera la qualità della vita delle persone anziane nel nostro Paese, credo si possa parlare di una vita vuota o, peggio, piena soltanto di TV. Più del 90% delle persone con più di sessantacinque anni non va mai al cinema, a teatro o a vedere spettacoli; l’83,6% (il 93,9% nel caso dei disabili) non usa mai il computer. Meno del 20% legge regolarmente un quotidiano. Meno del 40% ascolta la radio, ma la televisione la guarda il 95 per cento.

Se la speranza è il presente illuminato dal futuro, allora non sembra che si possa essere molto ottimisti. Ci si potrebbe dire piuttosto di-sperati. Verrebbe da concludere con i versi di T.S. Eliot che sono posti all’inizio dei suoi Quattro Quartetti:

Il tempo presente e il tempo passato

Son forse presenti entrambi nel tempo futuro,

E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.

Se tutto il tempo è eternamente presente

Tutto il tempo è irredimibile.

A meno che… A meno che non nasca una nuova ipotesi di società, in cui l’uomo abbia la capacità e la volontà di progettare un nuovo futuro in cui i valori chiamati a governare il mondo non entrino in rotta di collisione con quelli che promuovono la crescita della persona.

Mario Bertin
vecchio di buone speranze,
componente la redazione di Madrugada