Il dolore dell’inadeguatezza

di Bruni Alessandro

Torno da Roma. Il tepore del sole ottobrino e il dondolio del treno mi fanno chiudere gli occhi. I pensieri vanno e vengono tra il dentro e il fuori, tra scenari visti e parole udite e dette durante la giornata: a quell’analisi tra quanto il mio agire è stato giusto e quanto mi devo perdonare, nel disappunto di quanto sono stato inadeguato.

Rimango in quel coma vigile che prelude al sonno nella piacevolezza della coppia che mi sta di fronte, anch’essi semi assopiti. Li guardo con intensa curiosità cercando di percepirne segni di interiorità. Lo faccio in modo sfacciato sapendo di non essere veduto e quindi non temendo la scortesia. Sono osservatore della loro palese intimità, dell’evidente essere insieme anche se divisi dal bracciolo, in mezzo a persone tra loro indifferenti. Avranno come tutti la loro storia e io ho la pretesa di «ascoltarla» e di interpretarla o semplicemente di immaginarla, perché vorrei che gli altri ascoltassero la mia storia. Tutti noi abbiamo una storia. È difficile raccontare storie ed è difficile ascoltarle. Il racconto è sempre monco e non dice tutta la verità, l’ascoltare è sempre parziale perché si sente solo ciò che si vuole.

Anche oggi tra gli amici di avventure accoglienti, quante storie sono state raccontate, quante sono state riviste con gli occhi di chi non c’era, quante policromie nell’affrescarle, quante gioie, quanti dolori e quante difficoltà a capire noi e gli altri, noi e i bambini, noi e le istituzioni!

Giulio ha cominciato a raccontare a pranzo, tra una portata e l’altra, nel chiacchierio delle voci di sfondo e nell’attenzione di chi assimilava le sue parole come se fossero proprie, come se la sua storia fosse la nostra storia (questo accade quando si è tra compagni di viaggio: ci si fida, sapendo che gli altri si fidano). Giulio ci fa percepire il suo dolore da inadeguatezza come se fosse il nostro dolore. Le sue parole sono da noi interrotte perché impauriti e desiderosi a nostra volta di partecipare al suo racconto, ma anche con il latente pensiero: no, ma a noi no!

Famiglia esperta, accogliente di lungo corso, con un affido in atto di un ragazzo quindicenne, accoglie sostenuta dai servizi una quattordicenne. Questi ragazzi hanno trascorsi burrascosi, tipici di chi ha lottato per la sopravvivenza e avezzi alla propria difesa nell’esercizio di una fisicità anche violenta e tentatrice, nella manipolazione delle situazioni, nell’esercizio dell’ambiguità di chi ha subito e vuol far subire, nell’esplorazione del loro essere in divenire e dell’essere altrui: ancora cose, ancora merce, ancora non pienamente persone, ancora non avezze al governo di tentazioni e sentimenti. Malgrado l’esperienza e la vigilanza della famiglia accogliente, tra loro accade qualcosa che somiglia a quel gioco (!?) televisivo in cui due giovani sconosciuti si incontrano e si esplorano al buio, tra malizia e innocenza, tra proibito e desiderio, tra due esseri liquidi ancora senza argini, senza un’educazione alla tentazione, agli affetti.

Ciascuno di loro ne farà un racconto tra il vero e l’immaginario, ciascuno di loro innocentemente avrà bisogno di raccontare, di distinguere, di recriminare, di accusare. Saranno gli stessi adulti a stimolare e dirigere il loro racconto, talora inconsapevolmente, talora con suggerente enfasi dovuta ai loro personali cadaveri nell’armadio. Di nuovo violazioni e difficoltà di rispetto. Di nuovo dolore da inadeguatezza in chi si è assunto responsabilità.

In storie come queste si è subito trascinati nel «di chi è la colpa» e «qual è la terapia». Il primo punto è un esercizio a posteriori perché varrà per altri casi, sarà bagaglio di esperienza e non di intervento al presente. Il secondo si palesa sempre nella determinazione di chi vuole cancellare l’ambiguità della situazione conàun colpo di spugna: allontanamento dei due ragazzi dalla famiglia affidataria, condanna penale se sono evidenti gli estremi, condanna alla cancellazione di affetti famigliari in costruzione, condanna di entrambi all’isolamento interiore.

Subentra sul piano degli adulti la volontà di separare le (loro) responsabilità personali, piuttosto che il coinvolgimento: ma la terapia è nel coinvolgimento, nel governo della situazione, nel prendere per mano e far fare un percorso a ragazzi e famiglia. La separazione, l’allontanamento, è la via più facile, meno terapeutica, più sbrigativa (si parla di sistema di protezione, ma di chi, dei ragazzi o delle istituzioni?). È però anche il modo per rendere permanente nei ragazzi l’esperienza negativa, per far scaricare la loro colpa negli altri perché ancora loro sono incapaci di fare un’analisi di sé stessi. È far vivere loro un lutto senza mostrare il cadavere, un senso di colpa non risolto, un nodo che rimarrà annodato tutta la vita. Così però chi ha responsabilità potrà dire: «non potevo fare altrimenti», ma in realtà è un «non potevo farmi carico».

Storie di famiglie e di ragazzi vissute ancora nel buio dell’esplorarsi nascosto, in attesa di una luce che ne faccia capire i contorni e i perché. La luce interiore non si accende con un interruttore, ha bisogno di tempo per riuscire a far vedere, per riuscire a far capire. Accogliere è donare tempo e dare tempo. Rimane manicheo il voler distinguere tra professione e vocazione, rimane soprattutto inconclusa e deviante l’assenza del farsi carico e del dare tempo.

In oncologia non basta asportare il tumore, trattarlo con chemio e radio-terapia, bisogna tenere per mano il paziente per educarlo a convivere con il suo dolore, la sua inadeguatezza, il suo diritto a vivere, a perdonarsi e a perdonare, e a continuare, nonostante tutto, a essere persona. Perché per i ragazzi che sbagliano non deve essere così? Lampi di luce all’uscita delle gallerie, poi… tutto è buio.