Indifferenza politica

di Colombo Giovanni

Che dilaghi l’indifferenza rispetto alla politica è un dato confermato da tutte le ricerche e dall’esperienza quotidiana di chi continua testardamente a occuparsene. Di solito, quando nei nostri ambienti impegnati se ne parla, scatta subito l’invettiva del militante: «l’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria… l’indifferenza è il peso morto della storia… Gli indifferenti sono più odiosi dei violenti…». Queste parole contengono una buona dose di verità ma hanno il grosso limite di prendersela esclusivamente coi singoli, che sarebbero pigri, assenteisti, militesenti, e di non analizzare a sufficienza il contesto culturale e politico. Infatti, a mio avviso, se ci troviamo in questa scoraggiante condizione, è per il prevalere di una mentalità politica autoritaria che, mentre inneggia alla libertà, produce passività. Così che paradossalmente si resta assenti anche quando si è presenti. Mi spiego con un breve ragionamento.

L’avvento di un predominio economico

Ormai è pensiero diffuso che l’Italia sia entrata in una fase post-democratica. Siamo al cesarismo (Scalfari). Siamo al sultanato (Sartori). Sta avvenendo un degrado organico e quasi biologico, la «mucca pazza della democrazia» (Mastropaolo). Dalla poliarchia del tempo greco siamo tornati alla monarchia della piramide del faraone (De Rita). Si sta realizzando, trent’anni dopo, il piano di rinascita democratica della P2 di Licio Gelli (Cordero). Si può dire in tanti modi la regressione in corso, la sostanza non cambia. Siamo alla Signoria, io preferisco questa definizione che mi sembra assai efficace. Ne sentii accennare per la prima volta da Giuseppe Dossetti, nel maggio del 1994, nel discorso in memoria del suo grande amico Giuseppe Lazzati; «Sentinella, quanto resta della notte?». Fin d’allora, in anticipo su tutti, il monaco – «padre costituente» denunciava «la trasformazione di una grande casa economico-finanziaria in Signoria politica», vedeva la nascita, attraverso la manipolazione mediatica dell’opinione, di un principato più o meno illuminato. Con coreografia medicea. In questi quindici anni la profezia dossettiana si è ampiamente realizzata. Nel mio piccolo, dalla posizione di consigliere comunale, ho seguito passo per passo l’avverarsi di questa profezia anche a livello locale: a Milano ormai siamo a tutti gli effetti nella Signoria Moratti che con l’Expo 2015 vorrebbe rinverdire i fasti dei Visconti e degli Sforza. In sintesi: chiamasi Signoria un sistema politico-istituzionale segnato dal predominio dell’economico e dalla definitiva scomparsa del principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri. Montesquieu, adieu.

Autoritarismo e libertà truccata

Ma come mai gli italiani – ah! Les italiens – stanno assecondando una simile regressione? Ma come fa Berlusconi a mettere sotto un intero Paese? Forse può servire riflettere sul proprium dell’autoritarismo moderno. Come è ben noto, ogni forma di autoritarismo, prima di essere un assetto politico-istituzionale, è una costrizione del modo di pensare e di stare al mondo. Questa costrizione oggi si afferma attraverso meccanismi diversi da quelli del passato. L’autoritarismo tradizionale nasce in contesti in cui le persone sono sudditi. Per definizione, ai sudditi non si chiede di avere mai un’opinione. Essi devono semplicemente aderire a dei comportamenti, senza che la loro adesione debba essere confermata: essa è al di là di ogni dubbio, fuori da ogni possibile controversia, parte in automatico (in caso contrario scattano i meccanismi di repressione). L’autoritarismo moderno procede invece con altre modalità. Accetta di fare i conti con un contesto culturale, sociale, economico, industriale, scientifico in cui ci si muove per scelta individuale, in forme elettive. Per questo il suo progetto non è quello di far tornare i cittadini in condizione di sudditanza, anzi il suo primo obiettivo è di trasformare tutta la popolazione in massa presente e attiva. Se nella società democratica sono previste le elezioni, la partecipazione alle decisioni, nelle società autoritarie/totalitarie saranno confermate, addirittura aumentate le forme in cui verrà richiesta l’opinione dei cittadini. L’importante è che i cittadini, scegliendo, si orientino verso una certa «convinzione». Il secondo obiettivo, infatti, dell’autoritarismo moderno è quello di dotare i cittadini della convinzione «giusta». A tal fine vengono ampiamente utilizzati i media, con la loro capacità persuasiva. Detto in altra maniera, ecco cosa succede: si prendono i cittadini, li si obbliga a scegliere e, nel contempo, si manipola l’oggetto della scelta. Si distribuiscono carte truccate, si nascondono i dati, si fa finta che ci sia un’alternativa. Un convinto liberista direbbe che si procede in assenza di concorrenza.

Menù fisso per scelta, che fare?

I cittadini scelgono sì, ma scelgono un menù fisso, che non possono pensare di creare o modificare. E verso questo menù, che arriva dall’alto, dopo un eventuale primo momento di curiosità, non possono che guardare con crescenteàindifferenza, prendendone sempre più le distanze. E anche quando ne arriverà uno nuovo, siccome sarà anch’esso preconfezionato, continueranno a sceglierlo assentandosi. Saranno presenti senza esserci. Si può vivere una vita, parlare, lavorare, protestare, primariare (neologismo: fare le primarie), televotare (quanto televoto nel prossimo futuro!), con la testa e il cuore altrove.

Affinché si riduca l’indifferenza e si affermi il suo contrario – cos’è il contrario dell’indifferenza? che nome useremo? Forse quello di «interesse» o addirittura quello di «entusiasmo» – occorrerebbe rompere l’attuale mentalità, spezzare il monopolio dell’offerta, riportare la scelta tra prospettive culturali, politiche, economiche, istituzionali diverse. E soprattutto bisognerebbe tornare a inventarle insieme, queste prospettive, perché solo la creatività, solo la poiesis suscita presenza, coinvolgimento, dedizione. Nessuno più ne parla ma la politica, quella vera, non è un meccanismo tra gli altri che gestisce la necessità, contribuendo a renderla indiscutibile. La politica, nella sua natura più profonda, è poesia, è capacità di pensare da capo il reale, come uno spazio percorribile con infinite traiettorie. È narrazione/ invenzione di ciò che è ancora latente nel mondo. È fiducia che le cose che comunemente vediamo possano essere altro da quel che sono. La politica, insomma, è come la primavera che arriva, spezza, interrompe, libera, fa fiorire. E solo se noi accettiamo di diventare pratoline, torna l’entusiasmo e va via la Signoria…

Giovanni Colombo
consigliere comunale a Milano,
esponente della Rosa Bianca