La dialettica partito/movimento
Sull’ambivalenza della struttura partitica si è già detto, e scritto, tutto. I partiti presìdi di democrazia e canali di partecipazione alla cosa pubblica (almeno in linea di diritto); ma anche (in linea di fatto, spesso) meccanismi clientelari ai danni degli esterni e barriere fra la base popolare e i vertici istituzionali. Come salvare il meglio del sistema partitico senza accettarne le degenerazioni partitocratiche?
Movimenti a rimedio
L’età anagrafica (ho compiuto il diciottesimo anno nel 1968) e la provenienza geografica (sono nato e ho sempre vissuto a Palermo) mi hanno consentito di osservare da vicino, e in qualche caso di partecipare, a un tentativo di rimedio: la creazione di movimenti politici alternativi ai partiti tradizionali. Dopo gli anni del movimentismo a sinistra del PCI, anche il mondo cattolico ha provato a pungolare la Balena bianca con il Movimento popolare collegato a «Comunione e Liberazione» (Milano) e con «Una città per l’uomo» (Palermo). Negli anni ottanta è stata la volta della «Rete» trasversale di Leoluca Orlando, in contemporanea con il movimento dei Verdi. Di questi mesi, infine, è l’esperienza straordinaria, imprevedibile, del Movimento Cinque Stelle.
Passaggi, orientamenti
Il rimedio (movimento-tafàno pungolo del partito-pachiderma) funziona? Sì, ma solo a certe condizioni. Sì perché il movimento suggerisce idee, stimola aggiornamenti, ruba la scena massmediatica, minaccia di togliere consensi elettorali, propone volti inediti. Che cosa sarebbe stata la storia italiana, anzi occidentale, senza il movimento studentesco, il movimento femminista, il movimento ambientalista?
A un determinato momento succede che le tematiche portate avanti originariamente da un movimento diventano patrimonio comune di uno schieramento molto più vasto di associazioni e di partiti. A questo punto si profila un bivio. O i promotori del movimento si ritengono soddisfatti dei risultati raggiunti e rompono le righe, tornano nel privato, smettono di pungolare i partiti. Oppure essi giudicano la ricezione delle proprie tematiche, da parte di altre organizzazioni, parziale, sfocata, deludente; e decidono di configurarsi come partiti essi stessi. È un altro modo di rinunziare alla funzione originaria di stimoli esterni ai partiti. In entrambe le ipotesi, insomma, vengono meno le condizioni di una proficua dialettica fra movimenti e partiti.
Sul piano dei ragionamenti teorici non vedrei nessuna difficoltà a che un movimento, trasformatosi in partito, diventasse per così dire in prima persona un efficace operatore delle proprie tematiche: ma l’esperienza storica degli ultimi decenni mi pare abbia falsificato questa teoria. Il Movimento popolare di CL, Una città per l’uomo, la Rete, i Verdi – diventando partiti – si sono comportati un po’ peggio dei partiti in rapporto ai quali si erano posti dialetticamente: spontaneismo, disorganizzazione, conflittualità perenne, leaderismo, incompetenza tecnica… sono tutte caratteristiche che si sono riscontrate, isolatamente o insieme, nei movimenti partiticizzatisi. Il Movimento Cinque Stelle ha sinora evitato alcune di queste derive, ma al prezzo di stroncare (con mezzi democraticiàtalora anche nella sostanza, più spesso solo nella forma) ogni accenno di dissenso dalla «linea» dettata via internet dai due «guru» fondatori.
Prospettive e ipotesi
Se questo racconto è veridico, che prospettive restano? Ovviamente non ci sono ricette facili. La direzione su cui provare a riflettere, e soprattutto a sperimentare concretamente, mi parrebbe la progressiva istituzionalizzazione della dialettica fra movimenti e partiti. Intendo il superamento di modalità occasionali o polemiche in nome di una reciproca complementarietà. Ipotizzerei, ad esempio, assemblee annuali in cui un movimento che intende restare tale (in nome della pace o della nonviolenza o dell’antimafia) inviti ufficialmente esponenti di tutti i partiti per offrire indicazioni programmatiche; e, viceversa, congressi in cui un partito inviti ufficialmente gli esponenti di tutti quei movimenti seri, informati, che possano offrirgli contributi di idee e di esperienza. Da questi scambi annuali potrebbero scaturire gruppi di lavoro un po’ più estesi nel tempo sino al raggiungimento di un obiettivo concordato (un disegno di legge, una battaglia parlamentare, una campagna di sensibilizzazione affinché il governo in carica faccia effettivamente rispettare delle norme disattese ecc.).
Perché un equilibrio del genere possa instaurarsi e perpetuarsi sono necessarie alcune condizioni. Prima fra le quali: che transitare dal mondo del movimentismo al mondo dei partiti non significhi passare dal volontariato gratuito al professionismo iper-retribuito. Oggi diventare parlamentare per un movimentista significa uscire da una condizione di precarietà economica ed entrare, per tutta la vita, in una condizione di privilegi. Sino a quando sarà così, il polo dei movimenti si troverà in condizione di oggettiva debolezza rispetto al polo dei partiti. Quando le modalità di finanziamento saranno le medesime per movimenti e partiti (esclusivamente sulla base dell’elargizione facoltativa dei cittadini in sede di dichiarazione dei redditi) – e dunque essere un fautore della lotta contro la fame nel mondo non significherà rinunziare ogni mese a una fetta del proprio salario né essere il più anonimo dei peones in parlamento, significherà quadruplicare il proprio reddito abituale ” ognuno sarà più libero, psicologicamente, di optare fra la militanza in un movimento o in un partito. E sarà meno improbabile che un cittadino competente decida per l’una o per l’altra collocazione in base a considerazioni oggettive, senza la tentazione di risolvere una volta e per sempre le proprie preoccupazioni private.