Se vivi, vivi per qualcuno

di Stoppiglia Giuseppe

La tenerezza è l’impronta umana dello spirito

«Stranamente, lo Straniero ci abita: è la
faccia nascosta della nostra identità, lo spazio
che rovina la nostra dimora, il tempo nel
quale sprofondano l’intesa e la simpatia.
Riconoscendolo in noi, ci risparmiamo di
detestarlo in lui. Sintomo che rende il «noi»
problematico, forse impossibile, lo Straniero
comincia quando sorge la coscienza della mia
differenza e finisce quando ci riconosciamo
tutti stranieri, ribelli ai legami e alle
comunità».
Julia Kristeva

«L’amore immaturo dice:
ti amo perché ho bisogno di te.
L’amore maturo dice:
ho bisogno di te perché ti amo».
Erich Fromm

Morire per l’Europa

Antonio non lo conosceva nessuno e molti l’hanno già dimenticato. Sarebbe bello che servisse a qualcosa, se riuscissimo, per una volta, a non limitarci al cordoglio.

Un dolore enorme, un ragazzo di vent’anni, che muore così. Un colpo alla nuca, vigliacco e cieco, un obiettivo a caso. Antonio Megalizzi è stato ucciso da un coetaneo, Chérif Chekatt. Avevano ambedue 29 anni. Nati nello stesso anno. Antonio in Italia, cresciuto al nord, a Trento, figlio di immigrati calabresi. Era un giornalista volontario di Europhonica, una radio web dedicata all’Europa, la sua passione. Pochi minuti prima dell’attentato era nella sede del Parlamento Europeo per realizzare un’intervista.

L’Europa, un mito che dura da tremila anni, è semplicemente la proiezione di un ideale, fondato su una realtà storica insopprimibile. La strage dell’11 dicembre 2018, nel mercatino di Strasburgo, come le innumerevoli stragi che hanno insanguinato l’Europa, nel corso dei secoli, così come l’insipienza di arruffapopoli improvvisati e micidiali, non potranno mai scalzare una realtà antropologica, confermata dall’unità della cultura europea e dalla insopprimibile mobilità interna, come dalla capacità di integrare gli apporti delle realtà periferiche, non riusciranno a cancellare quel mito.

L’espansione del messaggio evangelico, la libera circolazione dei pellegrini, degli artigiani, degli artisti, dei letterati hanno sempre dimostrato di saper neutralizzare gli effetti deleteri del fratricidio organizzato e confermato la massima di Tertulliano sull’efficacia del sangue dei martiri, che germinerà nuovi testimoni.

Vivere è affidarsi

Normalmente, quando ci spostiamo da un posto a un altro, ne conosciamo il motivo. Però, dobbiamo riconoscerlo, un viaggio prefissato è troppo corto. Un viaggio che si fa conoscendone i motivi, non è un viaggio.

Il vero viaggio è quello che interiormente è senza meta definita, tanto che non sappiamo perché si è giunti a quel punto né perché ci si trova in quella situazione. Le domande su quello che faremo non interessano più. Siamo lì, punto e basta. Abbiamo camminato. Ci siamo affidati e consegnati. Non sono il sapere o la funzione che definiscono la vita, ma l’essere stesso, l’espressione profonda di sé, il puro dono e niente più.

Scrive Rainer Maria Rilke in quella mappa indispensabile che sono le Lettere a un giovane poeta: «Il tempo non è una misura. Un anno non conta. Dieci anni non sono niente. Essere persone non vuol dire contare, vuol dire crescere come l’albero che non sollecita la sua linfa e resiste fiducioso».

La bellezza più feconda è quella che non si lascia determinare dalle finalità provvisorie né dagli utilitarismi d’occasione. È quella, piuttosto, che senza sollecitare la sua linfa, la degusta lentamente, lasciandosene completamente impregnare: fino all’orizzonte in cui non si distingua il soggetto dall’oggetto, né si separi l’amore dall’oggetto amato, né il tempo sia scandito in passato, presente o futuro. Questa feconda bellezza la sperimenteremo unicamente nel donarci.

Il dono di sé è trasfigurazione

I biografi di Michelangelo sono unanimi nel sottolineare l’importanza della figura materna nella sua opera. Perse la madre da bambino e in molti momenti la sua arte sarà una specie di dialogo, evocazione discreta o puro grido verso quella figura assente, proprio per questo smisuratamente presente.

Pensiamo per esempio, alla «Pietà» che si trova in San Pietro,àuna delle immagini più dolorose e iconiche del cristianesimo. La madre sta seduta e il figlio morto riposa sul suo grembo. La madre ha un corpo enorme, capace di ospitare il corpo del figlio adulto, ma conserva il volto di una ragazza in fiore. Il corpo sembra una scialuppa, un salvagente, una città-rifugio; il viso, però si disegna impavido, come se, attraverso quella sofferenza, guardasse altrove, e si concentrasse non su quella morte, ma sull’infanzia intatta del figlio.

È un enigma questa discordanza apparente e le ipotesi di spiegazione sono numerose; vale a dire che Michelangelo fosse contagiato dal neo platonismo, secondo cui la vita divina è impassibile, oppure che intendesse riprodurre la forma dei volti seguendo i codici della scultura greco-romana, tanto ammirata dal Rinascimento, ma anche che citasse il teologico verso di Dante sui misteri della Vergine «figlia del tuo figlio»; o semplicemente che quel viso giovane fosse l’immagine che un figlio può serbare della propria madre, perduta nell’infanzia e ritrovata nella morte, che è dono di sé agli altri fratelli.

Scoprire nella comunità circolante la forza e la debolezza propria

Le grandi domande della vita sono quelle che ogni essere umano formula attraverso i grandi testimoni del nostro tempo. Sono domande che riguardano la realtà e il suo senso, la presenza del male e della sofferenza, la plausibilità di Dio a partire dall’esperienza del dolore, che cerca soccorso nella forza dell’amore e chiama la comunità a farsi carico di chi sta in difficoltà.

Centrale è dunque la comunità. Siamo sempre stati attenti a questo elemento importantissimo per un cristianesimo adulto. Nella comunità abbiamo bisogno gli uni degli altri. Capiamo facilmente che il debole ha bisogno del forte, ma forse quello che facciamo più fatica a comprendere è che anche il forte ha bisogno del debole. Abbiamo bisogno di chi è piccolo, di chi è vulnerabile. Abbiamo bisogno del povero per scoprire la nostra povertà.

Vivendo con persone ferite, scopriremo le nostre ferite. Accogliendo la ferita degli altri, impareremo ad accogliere la nostra. Perché sono così, perché sono stato abbandonato? Gesù stesso chiede a Dio: Padre mio, perché mi hai abbandonato? Dobbiamo cercare di non spiritualizzare troppo questa domanda di Gesù: è il grido della sofferenza umana. Gesù non voleva creare un mondo competitivo, voleva creare un corpo. San Paolo aggiunge: «Quelle parti del corpo che sono le più deboli, le meno presentabili, quelle parti del corpo che nascondiamo, sono necessarie al corpo e devono essere onorate». La visione di Gesù è una società in cui il forte e il debole hanno bisogno l’uno dell’altro. Quando facciamo delle cose per gli altri, spesso finiamo per farli sentire piccoli, perché «io sto facendo qualcosa». Quando siamo generosi, sentiamo un certo potere sull’altra persona. È nella relazione che mostriamo all’altro che lui è importante; e insieme, entrando in relazione con le persone deboli, percepiamo di essere vulnerabili.

Le tappe dell’incontro con l’escluso

Per superare il disagio che percepiamo nel contatto con le persone portatrici di handicap, ci sono ben cinque tappe da attraversare e la prima tappa è la paura. La seconda è quella di pensare di aiutarli perché sono poveri, la terza è volerli aiutare a divenire più umani, la quarta è scoprire che sono loro a cambiare e insegnarci l’essenza dell’umano, la quinta infine è scoprire che ci conducono verso Dio.

Dobbiamo combattere, anche con fermezza, l’attuale cultura dello scarto: «Gli esclusi non solo sono sfruttati, ma sono rifiuti, avanzi». È un sentimento orribile quello di sentirsi colpevoli di esistere e di non avere un posto nel mondo. Mangiare alla tavola degli esclusi significa non rinchiudersi nel proprio clan, tribù o classe sociale e diventare loro amico, concorrendo così all’unità.

Il pericolo è l’ideologia secondo cui tutti debbono essere uguali. Invece, tutti dobbiamo credere nell’amore, aprendoci al prossimo. La strada è lunga. Dobbiamo prendere tempo e scoprire la persona dietro le difficoltà.

La tenerezza è un regalo dello spirito. Siamo qui per incontrarci. La tenerezza è un tocco rispettoso, offre sicurezza, rivela l’importanza e il valore sacro dell’altro, diventa esortazione a crescere. È accoglienza, non giudizio. La tenerezza è la maturità umana.