Un’integrazione efficace e organizzata: la nostra grande sfida

di Gandini Andrea

Migrazioni, dove e perché

Ogni generazione ha la sua «croce» o grande sfida. I nostri nonni hanno avuto la prima guerra mondiale del 1915-18, i nostri padri la seconda, trasformando, nel dopoguerra, un paese povero in uno ricco, mantenendo antichi valori di uguaglianza e fratellanza in un paese più giusto, con un welfare diffuso.

La sfida attuale è quella delle riforme e dei rifugiati/migrazioni. Si può vincere dando benessere sia a noi che ai rifugiati, com’è stato altrove. Paure, chiusure, provincialismo gestionale creeranno quel conflitto permanente in cui tutti («noi» e «loro») perderemo.

I flussi migratori si accentuano quando i dislivelli di reddito, occupazione, di diritti umani sono rilevanti tra paesi vicini com’è oggi per Europa e Nord Africa/Medio Oriente. I flussi dei rifugiati dipendono da guerre e dittature che generano anche povertà. Pacificare e aiutare nello sviluppo paesi come Siria, Libia, Iraq, Sudan, Eritrea… è anche nostro interesse di europei.

Per questo il dialogo tra Europa e Russia conviene soprattutto a noi europei. Gli studi sui flussi migratori mostrano che sono influenzati pochissimo dalle politiche (più o meno restrittive); ciò che li favorisce è l’opportunità di lavorare: se non c’è, non vengono.

L’intera Europa ha un forte calo demografico per cui necessita, ogni anno, solo per coprire il turn over occupazionale, di circa 1,5 milioni di immigrati, senza i quali avrebbe una spaventosa recessione.

La Germania – in calo demografico come l’Italia ma con maggior crescita economica – ha accolto nel 2015 un milione di immigrati. Nel primo anno un rifugiato-immigrato costa allo Stato tedesco 12mila euro, che si riducono a zero nell’arco di 3-5 anni quando questi si inserisce nel mondo del lavoro. Per Germania (ed Europa) accogliere immigrati (entro un certo numero) è una strategia intelligente perché dapprima cresce la spesa pubblica (con effetti positivi sull’economia) e in un secondo momento gli immigrati, lavorando, aiutano a pagare le pensioni e la crescita economica.

La Merkel ha capito che questa scelta è più lungimirante per l’economia che costruire autostrade.

L’Italia ha un forte calo di natalità: nel solo 2016 gli italiani sono diminuiti di 200mila unità; in 4 anni gli over 70 sono cresciuti di 500mila unità; nei prossimi 20 anni gli italiani in età di lavoro diminuiranno di 300mila unità all’anno. Il declino demografico dei paesi nord europei favorirà inoltre l’emigrazione di italiani verso l’estero e, in assenza di immigrati-lavoratori, l’attuale welfare (pensioni, sanità, scuola…) sarà insostenibile: quindi o si riesce a integrare in modo efficace una quota di immigrati o non saremo in grado di mantenere i diritti e le pensioni di oggi. Ogni anno aumentano gli italiani che espatriano: 107mila nel 2016, il 37% sotto i 34 anni, 10.374 solo dal Veneto. All’estero abbiamo 4,8 milioni di italiani (+1,8 milioni rispetto a 10 anni fa).

Dobbiamo quindi organizzare l’immigrazione come un fatto ordinario, che certo non può superare certe dimensioni e integrare con il lavoro gli immigrati regolari.

I benefici del flusso migratorio

La Svizzera, che ha votato per restringere i flussi degli immigrati (italiani in questo caso) con il referendum «Prima noi», non vi ha dato seguito in quanto il blocco immigratorio comportava un danno economico enorme per gli svizzeri.

Le società che hanno integrato immigrati per ragioni demografiche e di sviluppo hanno beneficiato di un surplus di crescita economica e di qualità della vita e hanno oggi percentuali di immigrati superiori alla nostra. Studi indipendenti mostrano per l’Italia un beneficioànetto della presenza degli immigrati (tasse e contributi pagati meno servizi usati) di circa 2 miliardi di euro per anno.

Altri Paesi come la Germania (che hanno accolto oltre 200mila profughi Tamil nel 1992) sono più attrezzati nell’accoglienza. La crisi è stata temporaneamente risolta ricorrendo al principio del «primo paese sicuro»: grazie all’accordo con la Turchia (6 miliardi dati dalla UE).

In Libano c’è oggi quasi un milione di siriani rifugiati (accordo con UE per 800 milioni).

Finita la guerra, in Siria e Libia si dovrebbe fare la stessa cosa. La politica del «primo paese sicuro» è sicuramente la peggiore delle politiche, a eccezione delle altre. Che poi sarebbero due: quella di una completa chiusura, che avrebbe come esito la fine di un ordine internazionale da cui dipende il benessere economico delle popolazioni. E quella dell’abolizione delle frontiere come un secolo fa, dimenticando che richiederebbe la fine di ogni intervento redistributivo e del welfare ai nostri connazionali e poveri nonché, visto che essa andrebbe imposta a una popolazione assai recalcitrante, una «sospensione» della democrazia.

L’Italia, a causa del declino demografico, necessita di circa 150mila immigrati per anno; bloccando l’immigrazione regolare il danno economico sarebbe enorme: non avremmo più badanti, più lavoratori per molti lavori manuali, in edilizia, agricoltura, servizi commerciali e di pulizie che nessun concittadino vuol fare. Un potente fattore di attrazione degli immigrati è la maggiore diffusione in Italia di lavori che richiedono poche abilità, da pagare il meno possibile da parte di molte aziende agricole e di servizi che hanno modesti ricavi o sono soggetti a crisi (agricoltura, frutticoltura, magazzini, agro-alimentare, tessile, badanti, colf).

Per una gestione efficace dell’accoglienza

In Italia nel 2016 gli sbarcati sono stati 175mila (+5% sul 2015). Qualora vi fosse una distribuzione diffusa significherebbe 2,5 immigrati per mille abitanti in tutti i comuni (come propone il governo). Una cifra ampiamente possibile per 2-3 anni (poi con la pacificazione in Libia e Siria i flussi dovrebbero calare) e vicina al fabbisogno di lavoro dell’Italia causato dal calo demografico e dalla stessa nostra emigrazione (oltre 100mila italiani all’anno). Inoltre ci dovrebbe essere, com’è giusto, anche una re-distribuzione in Europa, portando l’accoglienza a una dimensione «normale» e sopportabile. Gli stranieri in Italia sono meno della media Ue e, anche considerando i flussi degli ultimi 3 anni, rimaniamo sotto il 10%.

Ciò che più preoccupa i nostri concittadini è l’arrivo e la gestione dei rifugiati-immigrati, giovani che popolano le nostre città spesso senza (poter) far niente o che «disturbano» continuamente chiedendo aiuti. Se sono apprezzabili gli sforzi di coloro che sono impegnati per accogliere (sulla base dei diritti internazionali) chi fugge da guerre, dittature e violenze, dall’altro è necessaria una gestione più efficiente ed efficace. I tempi per riconoscere lo status di rifugiato devono essere assolutamente ridotti (2-3 mesi e non 12-24), la loro accoglienza (come si è spesso fatto in molte regioni, ma non nel Veneto) deve essere diffusa sul territorio per evitare ammassamenti.

L’istruzione dell’italiano, delle nostre leggi e consuetudini deve essere svolta tutti i giorni e non solo due volte alla settimana, resa obbligatoria e verificabile. Nel restante tempo devono svolgere obbligatoriamente lavori socialmente utili in modo da apprendere il principio della responsabilità e poter «compensare» la loro formazione/accoglienza con un aiuto alle popolazioni locali, anche forzando le regole internazionali che non lo permetterebbero (in Austria e Sud Tirol si fa). Chi non svolge questa formazione e lavoro sociale obbligatorio deve essere rimpatriato. Occorre anche limitare i gradi di appello solo a uno per evitare intasamenti. Infine, occorre potenziare la transizione al lavoro che deve diventare anche un criterio per valutare (e pagare) le organizzazioni che accolgono. Coloro che non ottengono lo status di rifugiati devono essere respinti in base alle leggi e riportati nei loro paesi o con progetti di inserimento (per cui esistono specifici fondi) o con accordi con i loro governi in cambio di aiuti allo sviluppo che sono convenienti anche per l’Italia. Le risorse aggiuntive per queste politiche di inclusione devono venire soprattutto dall’Europa.

Le radici del dialogo

Chi come noi è cristiano e vuole mantenere le radici europee della cristianità (decisive per le sorti di un mondo migliore) deve avere chiaro che per difendere le nostre radici bisogna saper dialogare sull’essenza comune dell’umanità, che è la sola via che porta, nel lungo periodo, al Cristo.

Wolfram von Eschenbach descrisse nel suo Parzival (quasi mille anni fa) la relazione che prima o poi avremmo avuto con l’Islam, un tema centrale oggi per noi europei. Scrisse questoàpoema quando Francesco d’Assisi andò da al-Kaïmil in Egitto; il Saladino, vedendolo camminare sul fuoco, disse: «Quest’uomo segue il suo cuore ed è sincero». Nel primo capitolo del Parzival, il padre Gahmuret si reca in Arabia. Nel 15° (penultimo) è invece il mondo arabo a entrare in Europa (come oggi). Parzival viene chiamato al castello del Graal per l’ultima prova. Ha compiuto molti errori ma improvvisamente c’è una svolta e tutto va bene. Esce a cavallo e incontra un cavaliere «figlio del fuoco» (Feirefiz) che viene dal sud in cerca del suo vero fratello. I due cavalcano l’uno verso l’altro, uno vestito di rosso, l’altro di verde. Combattono. Parzival spezza la spada, si arrende e dice: «Uccidimi». Feirefiz risponde: «Nel mondo arabo musulmano la regola non permette di uccidere cavalieri disarmati». Ora avviene un fatto straordinario: entrambi alzano la visiera e si riconoscono come fratelli. Parzival, per trovare il Graal, aveva bisogno di portare al castello un fratello con sé e ora l’ha trovato. Essi hanno un padre comune.

Gesù è più di una religione, è l’archetipo umano in ciascuno di noi. È l’essere che sempre si rigenera sacrificandosi, aprendosi a portare l’essere del Cristo. Nel momento in cui facciamo il sacrificio di riconoscere che non conta solo la nostra religione, allora l’essere del Cristo può vivificarsi.

A mio avviso, c’è una grande speranza: cristiani che si incontrano con musulmani possono essere portatori di questa speranza, di un’umanità nuova che basa i suoi valori su ciò che è universale: pace, amore, fratellanza… che sono opera del Cristo. Non cadiamo nel tranello di combatterci col mondo musulmano sul 5% su cui non siamo d’accordo, avanziamo insieme con il 95% che condividiamo.