Violenza, indifferenza e fondamentalismi

di Fabris Adriano

L’esistenza e la diffusione di comportamenti violenti fra gli esseri umani è qualcosa che, se è ancora in grado, forse, di provocare qualche turbamento, oggi certo non stupisce più. Così come non stupisce l’incremento che tali gesti hanno nella nostra società. Un incremento che, se pure non stupisce, in ogni caso mette a disagio e magari allarma.

Violenza pervasiva

La violenza, insomma, è oggi un dato di fatto. Certo: lo è sempre stato. Ma oggi – in un’epoca nella quale l’Occidente vive da circa sessant’anni in una situazione di relativa pace (ovvero di guerra non esplicitamente dichiarata, oppure, quando il parlarne diventa inevitabile, di guerra legittimata come «giusta») – la violenza si è fatta paradossalmente sempre più pervasiva. Lo è in maniera inversamente proporzionale al tentativo, che pure viene compiuto, di nasconderla a uno sguardo pubblico.

Per questo, forse, la distruzione delle Torri gemelle – così come gli attentati di Londra e di Madrid – hanno avuto un impatto così dirompente: perché non solo hanno mostrato che dalla guerra non sono al sicuro neppure Stati Uniti ed Europa, ma soprattutto perché hanno messo allo scoperto, mediante distruzioni simboliche, ciò che doveva restare celato. Così la violenza, e le rovine che essa comporta, sono diventate paesaggio quotidiano.

Di fronte a ciò, l’unica difesa è l’assuefazione. A una violenza diffusa, in altri termini, si risponde con l’indifferenza. È il modo per mettersi al riparo dal trauma costante al quale siamo sottoposti. Ma così il sintomo è scambiato per la terapia, e la malattia può, dunque, diffondersi e prosperare.

Come spiegare la violenza

Nei confronti della violenza abituale si moltiplicano, anzitutto, le spiegazioni.

Di essa, ad esempio, si offre una ragione storica o una lettura di carattere sociale. Rispetto a ciò si ritiene di trovare nella cultura o nella natura dell’uomo, considerato sempre più nella componente animale, i motivi del suo insorgere e prosperare. Si tratta, certo, di spiegazioni che possono anche essere vere, convincenti, adeguate. Ma esse partono da un presupposto di fondo, che viene acriticamente assunto. Il presupposto è quello della presenza di una violenza insensata. La violenza, anzi, sembra risultare, quasi per definizione, qualcosa di insensato. Sempre e comunque. Ecco il dato di fatto che dev’essere accettato, e nei confronti del quale l’indifferenza sembra appunto offrire un’adeguata terapia. Oppure, in maniera certo più attiva e propositiva, il dato di fatto della violenza è qualcosa che può e deve essere spiegato per poi controllarlo e governarlo adeguatamente. Con strumenti che mettono in atto una violenza altrettanto grande, se non maggiore.

Ciò che viene lasciato sullo sfondo, invece, ciò che non viene per lo più preso in esame è proprio il carattere insensato della violenza. Ed è proprio da qui che voglio muovere nella mia riflessione. È appunto questa inevitabile, insensata fattualità della violenza che credo sia necessario discutere. Non per spiegarla, ma per indagarla riguardo al suo senso.

La violenza distrugge le relazioni

Qual è, infatti, il senso della violenza? Qual è il paradigma di fondo in base al quale essa può venir compresa, qual è il contesto di relazioni all’interno del quale può essere inserita? Che cosa c’è sullo sfondo della malattia dell’indifferenza, nella misura in cui essa viene pensata come una reazione ai panorami violenti che abbiamo spesso di fronte?

Con queste domande intendo consapevolmente non arrestarmi nella mia analisi. Voglio non rinunciare alla ricerca di un senso anche per esperienze che risultano all’apparenza senza un perché. Esse non possono venir solamente razionalizzate, chiarite, spiegate, per cercare poi di controllarle. Sarebbe troppo poco, sarebbe un gesto inutile.

Nel caso della violenza infatti, se non si comprende il senso dell’atto che la produce, lo stesso controllo diventa impossibile. Perché lo scopo di quest’atto è di distruggere la relazione: ogni relazione. Il senso della violenza non è, dunque, la sua semplice datità, che può essere più o meno spiegata.

Il senso della violenza, ciò che ci permette d’inquadrarla in un più ampio contesto di relazioni, consiste invece nel carattere d’indifferenza che la contraddistingue. «Indifferente» significa anzitutto: tale da eliminare ogni diversità; capace cioè di omologare tutto, di ridurre ogni cosa a un unico piano. L’indifferenza è lo sfondo che ci consente di capire che cos’è un atto violento, perché è la condizione dell’annullamento di ogni rapporto. Se infatti tutto è indifferente, davvero non c’è bisogno di rispettare alcunché. Davvero nulla m’interessa e, dunque, posso lasciar perdere ciò che ho davanti. O, se ne ho voglia, distruggerlo. O magari utilizzarlo per i miei scopi.

L’indifferenza alimenta la violenza

In altre parole: ciò che consente di comprendere l’espressione violenta, lacerante un precedente equilibrio, nel suo significato più profondo, ciò che offre lo sfondo in base al quale la stessa attività distruttrice, che pretende d’imporsi come un dato di fatto inevitabile, può trovare la propria collocazione in un contesto che non tanto la spiega, ma ne mostra la struttura e l’intimo dispositivo, è appunto il carattere indifferente che costituisce.

Indifferente qui significa: indifferenziato e indifferenziante. Produttore cioè di indifferenza. Capace di annullare ogni rapporto. Perché, secondo questa prospettiva, tutto è già nulla.

Insomma: il senso della violenza è l’indifferenza come capacità di annullare ogni relazione. Il senso della violenza è offerto da quel contesto relazionale in cui il rapporto viene distrutto alla sua radice, impedendo appunto che i differenti si colleghino fra di loro. Si tratta di una relazione che annulla la condizione per cui la relazione stessa è possibile. E così, di fronte a questo paradosso, in questo corto circuito che si profila, la violenza può dispiegarsi.

Fondamentalismi nemici della diversità

Un esempio di tutto ciò? Il nesso che vediamo all’opera tra i differenti fondamentalismi (religiosi oppure no: giacché esistono anche fondamentalismi «laici») e la violenza. Qui, infatti, la violenza non sembra affatto senza senso, ma anzi pare funzionale a un determinato scopo. Al di là di questo scopo, anche qualora esso venga alla fine raggiunto, resta però la domanda sulla motivazione che sta alla base della ricerca di esso.

Vi è, infatti, oltre ogni spiegazione, qualcosa di più e di diverso. I fondamentalismi richiedono, da parte del fedele, un’ubbidienza incondizionata, che non s’interroga affatto sul perché dei comandi impartiti e non s’accompagna a una vera e propria elaborazione di ciò che viene comandato. Perciò essi praticano l’indifferenza.

Si tratta di un’indifferenza che si esplica almeno in due direzioni: anzitutto nei confronti di coloro che risultano diversi, «altri», «infedeli», cioè estranei rispetto al mondo chiuso dei veri credenti, e che dunque, proprio perciò, possono essere combattuti e distrutti senza particolari problemi. Vi è poi un’indifferenza che riguarda quei precetti che vengono rivelati e, in ultima analisi, quello stesso Dio che li rivela: perché in entrambi i casi non conta il senso della rivelazione, ma solo il fatto del suo imporsi e dell’aderire a essa, ciecamente. E così, se importante è solamente l’adesione alla lettera del testo sacro o alle parole della guida spirituale, tutto il resto diventa irrilevante: la comprensione di questo testo, il senso della rivelazione divina, la possibilità di un rapporto autentico con le altre religioni.

L’unico esito dell’atteggiamento fondamentalistico, conseguente all’indifferenza da cui esso è attraversato, è dunque la violenza. Una malattia che, se è giusta la diagnosi che ne ho proposto, può essere curata solo riprendendo il gusto della diversità. Al di là delle paure che tale diversità, più o meno legittimamente, può suscitare.

Adriano Fabris
ordinario filosofia morale
Univesità di Pisa