Resta solo ciò che si ama

di Deganello Sara

Cerchiamo quel che saremo
A scuola, alcuni di noi sapevano tutto sulla cultura beat psichedelica degli anni ’60 o sulla storia dei Beatles o sugli uccelli e la tecnica per cacciarli. Questo è ciò che erano, eravamo: non ciò che sapevamo. E questo è rimasto dopo tutto, dopo le interrogazioni e la maturità, dopo cinque anni di liceo e un intero programma di storia­filosofia­chimica­greco… certo insieme a qualcos’altro di nuovo, acquisito. Perché rimane solo ciò che è vicino alla tua sensibilità e al tuo essere ed è entrato in te in modo permanente: resta solo ciò che si ama. È questo ciò che oggi cerchiamo e di cui abbiamo bisogno noi studenti in modo forse inconscio ma diffuso, endemico: bellezza, emozione.

Per capire, per comprendere
Non è la ricerca del piacere nell’edonismo e nel narcisismo dell’esteta, sterile perché fine a se stessa: è un canale culturale, educativo, è un metodo per comprendere la realtà, per non accettare le sue regole quando troppo spesso sono quelle del mercato, è un sentire comune che sfocia, o almeno dovrebbe farlo, nel dialogo: perché poi se una poesia ti piace la leggi al tuo amico, ne parlate e ne scovate insieme un significato più profondo. E il bisogno da individuale che era diventa sociale: la condivisione, questo antico rito “tribale”, moltiplica la voce, dà la percezione dell’appartenenza ad una comunità, crea legami e perciò forma l’individuo. Ma implica anche uno spazio dove ciò possa avvenire che non è più il teatro greco o la piazza: alcuni lo individuano forse al bar, allo stadio, all’interno di gruppi e associazioni, a scuola e in famiglia. A Schio ridente cittadina industrializzata del Nord­Est che grazie ad Alessandro Rossi conosce anche ciò che è diventata “archeologia” industriale, è venuto Baricco a portare il suo Totem. Ha letto Omero, Melville, Rilke… alla fine Maria gli ha detto: «Lei ci ha emozionati, ma come facciamo ad emozionarci ogni giorno?». Lui ha sorriso: «Sono contento che vogliate emozionarvi ogni giorno, cercate di non dimenticarlo». Maria non era da sola in sala e certo non era l’unica a pensarla così.

Fuori della convenzionalità
Qui, a Taranto, a Roma, a Bologna c’è gente in gamba che vorrebbe conoscere, conoscersi anche se non sembra: è che siamo tutti talenti nascosti che non trovano uno spiraglio per svelarsi. Ed è qui che l’educazione, istituzionale o familiare che sia, deve intervenire: se significa ancora ex­ducere (condurre fuori) deve creare un luogo “al di fuori” dove condurci: uno spazio nuovo che si contrapponga a quelli che già ci sono dell’apparire, della convenzionalità, del profitto, della competizione, dell’autarchia. Per effetto paradossale proprio perché questi ambiti ci sono già e sono dappertutto sembra emergere, latente e recondito, il bisogno di autenticità e di verità, di rapporto umano, di fiducia reciproca, la necessità di avere un’identità, un’originalità non ancora forse nell’intuizione che l’identità si raggiunge solo in rapporto alla diversità, ma pur sempre presente. Anche la formazione professionale, vista in quest’ottica, diventa “formazione” vera e cioè costruzione di una propria identità all’interno della società e non applicazione di uno schema, definito e imparato, alla produzione. Bisogna dunque trovare una risposta a queste esigenze, soprattutto da parte di chi educa perché pochi la cercano da soli e, quand’anche sia data, pigrizia, paura, fatica, freneticità, indifferenza sono in agguato per indurre a rifiutare anche questa possibilità (chi si farebbe in estate, durante le sacre vacanze, 1000 Km di treno per andare in qualche sperduto paesino del Sud a fare una cosa che ancora si chiama “camposcuola”?!). E la scuola rimane un contenitore che distribuisce dati e diplomi, il lavoro uno stratagemma per comprarsi la macchina, la crescita un fatto biologico.

Andare oltre
Ma visto che anche questo dipende dall’uomo, è cioè un fatto soggettivo il vivere questi ambiti in una maniera o nell’altra, c’è una possibilità di riscatto. E dove cercarla se non nell’equilibrio del rapporto potenzialità­condizionamenti che quasi chiamerei forma mentis… quell’abito mentale costituito dal carattere ma anche dagli elementi culturali acquisiti con l’esperienza e l’educazione? Dunque c’è bisogno che chi educa sappia che oltre a dare punti di riferimento, schemi e modelli, certezze per decodificare ogni tipo di messaggio e trovare risposte, incoraggiamenti e stimoli, c’è bisogno di saper andare oltre, di saper vedere lontano anche ciò che non si vede: c’è bisogno di avere il coraggio di rischiare per qualcosa che non è ancora ma che sarà più grande. E quindi si dovrà essere capaci di cambiare strategia, di cambiare punto di vista, di cambiare convinzioni, di cambiare: non solo il tipo di lavoro perché quello si fa sempre in tempo ad impararlo. L’ignoranza è il non poter o voler riconoscere i propri limiti per non doverli superare.

Maestri e distributori automatici
Io avevo un maestro alle elementari (ancora immuni dall’efficienza e dall’ottimizzazione che la divisione dei saperi sembra aver portato) che ci insegnava ad osservare ed ascoltare: ci insegnava ad imparare. Questa capacità si è un po’ persa ultimamente… ora, non dico che non ce ne sia più di gente così, ma solo che non sempre se ne trova: anche la scuola è fatta di persone e ti trovi Maestri e distributori automatici… alla fine tutto dipende da te e da quello che riesci a non aver paura di volere e di imparare. Ma ci vuole forza, perché è una strada controcorrente e non c’è alcuna garanzia di successo o tutela. In quarta superiore un nostro compagno di classe si è ritirato ed ha cambiato scuola senza dir niente a nessuno. Ma come, dopo quattro anni? Noi siamo andati in crisi e abbiamo cominciato a chiederci se era quello il prezzo della scuola­impresa che si basa sul voto, abbiamo cominciato a gridare che non era giusto avere un rapporto con gli insegnanti che si basasse su quel numero, abbiamo cominciato a pretendere un rapporto umano, bilaterale, di scambio reciproco, di confronto, non più do ut des.
Mettersi in discussione
Tutto ciò presupponeva da entrambe le parti un abbandono delle barriere protettive troppo ideale per poter diventare vero. E infatti è finito nel silenzio e nell’oblio: mettersi in discussione è troppo difficile, eppure è di questo che c’è bisogno insieme a spazi che lo permettano. Non so se si debba prima distruggere per poi crearli ex­novo o solo riuscire a scovarli nella quotidianità delle cose banali e farli convivere con essa… tutto dipende ancora una volta da te: non puoi essere vittima, non puoi essere carnefice, non puoi accettare sempre, non puoi rifiutare allo stesso modo, non puoi rimanere indifferente, non puoi andare a farti uccidere in Chiapas, non puoi pretendere un’educazione, non puoi saper fare da solo. Puoi vivere anche domani ed andare a scuola o al lavoro cercando sempre di essere Uomo.