Un santo senza verità

di Bertin Mario

 

Nell’ultimo anno mi sono occupato della figura di un frate cappuccino questuante, vissuto nel Settecento a Nicosia, cuore pietroso della Sicilia, che Benedetto XVI dichiarerà santo il 23 ottobre. Si chiama fra Felice, il beato Felice, del quale la gente del luogo conserva nel cuore una memoria intrisa d’affetto. Mi avevano chiesto di scrivere di lui alcuni suoi confratelli, che avevo incontrato nell’ambito della mia attività. Tardai a dare riposta perché non sapevo che cosa avrei potuto raccontare di una persona analfabeta, che non aveva fatto nulla di particolare, che aveva compiuto miracoli secondo il modello stereotipato dell’agiografia post-tridentina, dei quali era incerta perfino la veridicità.

Quando scoprii che nell’epoca barocca, come peraltro in quella medievale, la santità accertata di una persona veniva descritta attraverso l’attribuzione a lei di fatti meravigliosi raccolti in un repertorio convenzionale, mi venne la curiosità di scoprire chi fosse davvero il fra Felice che stava dietro il san Felice della storia e della pietà popolare. E scoprii una personalità eccezionale, che si era distinta soprattutto nella pratica di una obbedienza eroica.

Fra Felice era preoccupato di fare in ogni momento la volontà di Dio. Ma come scoprire quale era la volontà di Dio? Egli era cosciente della difficoltà di individuarla nel procedere disordinato degli eventi, piccoli o grandi che fossero. Poi capì che essa era racchiusa nella responsabilità da cui ogni uomo è interpellato nell’incontro con gli altri uomini e con le cose.

Obbedienza – come si sa – viene dall’espressione latina ob-audire. Obbedire, cioè, vuol dire essenzialmente ascoltare.

Dell’ascolto, frate Felice aveva fatto il perno a cui tutto riconduceva, dal quale tutto faceva discendere. Aveva scelto come regola fondamentale di adeguare ogni suo comportamento e azione o perfino il semplice gesto agli ordini, ai consigli, alle indicazioni, ai suggerimenti o anche ai semplici desideri di coloro che egli riteneva essere i rappresentanti di Dio, la presenza di Dio, la voce di Dio nella sua vita, e cioè innanzitutto i superiori, poi i confratelli senza alcuna distinzione, e infine, come troviamo riportata dalle testimonianze dell’epoca, le persone qualsiasi.

In ogni momento della sua esistenza, fra Felice mendicava dagli altri una luce su quello che doveva fare, su quello che Dio esigeva da lui. Ogni attimo della sua esistenza s’accendeva di attesa, di un’umile questua per l’anima, che richiedeva una preliminare rinuncia a far valere le sue proprie ragioni e la sua propria volontà. Fra Felice è un santo che si presenta privo di una sua propria verità. Un santo che mendica la sua verità dagli altri.

«Ubbidia a tutti» afferma una testimonianza. Ubbidiva a tutti e a tutto. Tutta la sua esistenza possiamo dire si sia esaurita nel dare una risposta alla aperta e più spesso muta domanda che uomini e cose ponevano al suo cuore col semplice apparirgli di fronte. Sua costante preoccupazione si può dire sia stata di lasciarsi interpellare dal bisogno, magari nascosto, di ognuno. Di ognuno offrirsi in ostaggio. Anche se costui lo oltraggiava e lo maltrattava.

Frate Felice era intimamente convinto che la sua vita non gli appartenesse e che il male consistesse nel riappropriarsene, sostituendo il proprio io alla volontà del superiore, dei confratelli e soprattutto dei poveri per i quali nutriva un affetto speciale, e che sono il volto del Signore in mezzo a noi.

L’obbedienza, allora, per lui consisteva nel ridonare ad ogni momento il suo io al Signore perché agisse attraverso di lui.

La sua umiltà gli rendeva evidente che, mentre il bene non era opera delle sue mani, egli aveva totale responsabilità del male.

Restituire il proprio io al Signore concretamente voleva dire deporlo ad ogni istante nelle mani degli altri perché ne facessero quello che meglio ritenevano. Voleva dire diventare servo di chiunque.

Essendo un ininterrotto atto di obbedienza all’altro uomo, o cosa, la vita di san Felice diventava un atto di obbedienza alla Vita. Alla Vita che è al fondo di ogni vita.

San Francesco questo aveva voluto dai suoi frati. Questo aveva indicato come regola delle regole, come regola suprema. Dire sempre di sì alla Vita. Nelle Lodi delle virtù, quando parla dell’obbedienza (che pone in chiusura all’inno, quasi a riassumerlo tutto) equipara l’obbedienza allo Spirito all’obbedienza al fratello e conclude che essa deve rendere «l’uomo soggetto a tutti gli uomini di questo mondo e non soltanto agli uomini ma anche agli animali, alle fiere, così che possano fare di lui quello che vogliono, in quanto sarà loro permesso dal Signore».

E nella Regola sottolinea che «la vera e santa obbedienza del Signore nostro Gesù Cristo» è che i fratelli «si obbediscano vicendevolmente». Fuori dell’obbedienza essi «saranno maledetti».

Ciascuno, secondo lo spirito francescano, deve lavare i piedi all’altro, ciascuno deve manifestare all’altro le proprie necessità «perché l’altro gli trovi le cose necessarie e gliele dia. E ciascuno ami e nutra il suo fratello come la madre ama e nutre il proprio figlio».

La vera obbedienza – è scritto nelle Ammonizioni – è di «porre», e cioè di donare, la propria anima per i fratelli. Offrirla da se stessi come fa il buon pastore. Il primo biografo di san Francesco, Tommaso da Celano, ci racconta che ogni volta che i primi compagni si incontravano in qualche luogo o per la strada, si amavano di un affetto che era sopra ogni altro amore. «Ed erano casti abbracci, delicati sentimenti, santi baci, dolci colloqui, sorrisi modesti, aspetto lieto, occhio semplice animo umile, parlare cortese, risposte gentili, piena unanimità nel loro ideale, pronto ossequio e instancabile reciproco servizio».

Così frate Felice era preoccupato solo di fare del suo animo uno specchio terso dove potesse imprimersi l’immagine del volto altrui, era preoccupato solo di far proprio l’altrui progetto. Si era proposto di lavorare non per la felicità propria, ma per la felicità degli altri. In un simile orizzonte di vita non c’era posto per rivendicare i propri diritti, di cui non teneva mai conto come se neanche esistessero dei diritti da tutelare, ma perfino i doveri perdevano ogni rilevanza. Vivere voleva dire attuare l’ordine ricevuto come l’unica cosa che in quel momento gli veniva chiesta da parte di Dio, perché ordinata dal superiore o perché proposta a lui dalle situazioni in cui si trovava coinvolto. Frate Felice si sentiva impegnato ad accogliere dentro di sé, con tutto ciò che questo comportava, la parola degli altri e la Parola che sta prima e al fondo di ogni parola e che racchiude in sé tutte le parole. Ad essa sola egli si proponeva di conformare il suo agire, con la docilità e l’arrendevolezza di un corpo morto, secondo l’esempio che aveva usato lo stesso Francesco.

Sta nell’atteggiamento di docilità alla vita, fuori di ogni schema precostituito, la grandezza di questo umile frate che percorreva, giorno dopo giorno, le ripide strade del nicosiano per elemosinare quanto era necessario alla vita del suo convento, ma soprattutto per questuare da ogni persona e da ogni cosa in cui si imbatteva la luce e il senso per la sua vita.