Alle radici della libertà e della gioia cresce la responsabilità

di Stoppiglia Giuseppe

“… non so, non lo saprò mai,
ma bisogna continuare e io continuo…”.
[S. Beckett]

Mille schegge da stanare

La vita scorre così veloce che non si fa in tempo a raccontarla, così mi ritrovo sempre mille schegge di vissuto da stanare negli angoli e nei doppi fondi della memoria, mentre altre impressioni, pensieri e sentimenti premono e rimbalzano sullo specchio mobile della coscienza.
Vivere intensamente, con apertura e disponibilità totale, nuovi orizzonti e prospettive di conoscenza e di esperienza umana, e inseguire la durata dell’ascolto interno, per trascrivere poi tutto l’esprimibile che vorrei poter comunicare: questa è la necessità imperiosa che mi assottiglia i giorni e sfoltisce il campo dei bisogni per cui “normalmente” si vive e si interagisce.

La luce della memoria

L’aria di Bologna mi avvolge tiepida, voluttuosa, vibrante di sole. Ma il livello d’inquinamento è insopportabile: dopo poche ore di immersione nel traffico il malessere mi s’infiltra in ogni fibra. Ma è splendido, esaltante il primo abbraccio delle strade, delle piazze, dei monumenti che ravviso tutti come se li avessi lasciati ieri. Tappe della vita… la giovinezza colma e intatta… i giorni belli e disperati del lavoro in fabbrica…
Bologna, odore di casa, sapore di luce, valzer dei ritorni; ma non tutto è “cuore”, neppure in Romagna.

Non tutto
emerge alla superficie

Giuditta, compagna di studi, amica fedele di speranze giovanili, mi racconta tutta la sua tristezza. Bionda, graziosa, parla con voce dolcissima. “È difficile essere sinceri, trasparenti, Giuseppe, è difficile il dialogo, l’alternanza dell’ascolto necessario per capirsi ed esprimersi”. “Ma con quel viso d’angelo – protesto – e tutta la bontà che traspare dalle tue parole?”. “Non mi piace quello che vedo di dentro… non tutto emerge alla superficie, ci sono pulsioni, tensioni interne fortissime… la mia vita, ora, mi sembra inutile”.
Ascolta queste parole dell’Abbé Pierre (potrai trovarle nel suo “testamento”): “Anche se non puoi fare più nulla in servizio dei fratelli, basterà che tu regali un sorriso al tuo prossimo per essere utile, perché questo sorriso aiuterà gli altri a svolgere i loro compiti quotidiani”.

Non arrendersi all’angoscia

Ci sono giorni in cui ci formicola addosso una frizzante gioia di vivere e tutto il mondo ci viene offerto in dono: giorni di grazia piena, dai limpidi soli che mandano gli alberi folti degli ultimi rossi autunnali. Ma ci sono giorni tetri, grigi, dentro e fuori: e bisogna lasciarli passare, aspettare che scorrano, senza arrendersi all’angoscia. Un altro inverno, un’altra primavera.
Hai mai osservato le foglie cadute ai piedi di un albero? Fermati! Prova a raccoglierle con amore, a guardarle attentamente ad una ad una: ti sorprenderà la bellezza e l’intensità delle tinte, la varietà dei disegni, delle forme.
Ogni singola foglia è un microcosmo, e tutte insieme indugiano, con fragile grazia, ai bordi dei cammini o frusciano appena sotto i tuoi passi frettolosi.
Presto la nettezza urbana le spazzerà via e resterà nudo l’asfalto, la pietra, il viale, l’aiuola, il prato.

Raccogli nel cavo della mano

Fa meno rumore di una foglia una persona che muore e scompare ancora più presto alla vita distratta di questo mondo indaffarato. Fermati! Prova a raccogliere nel cavo della mano qualcuna delle vita che ti sfiorano, che ti passano accanto o che il tempo ammucchia con le altre ai piedi dell’oblio. Lascia che ti parli il suo silenzio, la sua apparizione, la sua finitezza, il suo mistero.
Nonostante l’attivismo febbrile e la promessa di grandi possibilità offerte dalle nuove tecnologie, oggi la società non è slanciata con fiducia verso il futuro. Anzi, tanti faticano a vivere. Molti stentano a trovare un senso all’esistenza. Altri non lo scoprono affatto. Le depressioni aumentano. I giovani, nome stesso della voglia di vivere e portatori di novità, sono invisibili, senza peso sulla storia. E il disagio e il nichilismo si diffondono.

L’esistenza è
un’avventura aperta

Se il desiderio di vivere è così fragile, minacciato, a volte corroso profondamente, se non quasi spento, non dobbiamo allinearci con i tanti moralizzatori, ma piuttosto incoraggiare a vivere, mostrando che l’esistenza è un’avventura aperta ed anche appassionante.
Vorremmo che ognuno fosse consapevole delle energie di cui è portatore per reggere meglio lo scontro quotidiano con una realtà che, nella forza smisurata della sua prepotenza, sembra svuotarci di ogni responsabilità.
La responsabilità è un vestito per tutte le stagioni, compreso l’inverno che gela precoci speranze o l’autunno che sembra consumare in un fuoco di colori ogni residua energia.

Alla radice della libertà
e della gioia: la responsabilità

Non la si assume all’improvviso perché acquisiamo un ruolo e qualcuno ci riconosce un compito. Esso sta di fronte a ciascuno di noi nel silenzio della coscienza individuale e costituisce la radice della nostra libertà. Uomini e donne lo siamo pienamente solo nella responsabilità di sé che diventa, non solo, la fonte della nostra identità, ma anche, e soprattutto, l’origine del dono di grazia in cui Dio si rende presente all’umanità attraverso l’umanità e immette nell’orizzonte storico l’utopia della liberazione.
La responsabilità può essere esercitata senza che essa diventi un compito da eseguire, ma una dimensione da vivere e che fa vivere. Non è collegata con un potere da esercitare, ma con un potere da accogliere perché la realtà sia veramente trasformata verso la piena misura di sé.
Una visione serena, aperta e gioiosa della responsabilità è oggi veramente necessaria, per poterla accogliere come indispensabile compagna di strada. Ad essa ci riconduce il filo di una “povertà” ritrovata, non nell’esercizio ascetico dell’astinenza, quanto nell’accogliere l’invito a inoltrarsi in questa vita senza le cinture di sicurezza di certezze, strategie vincenti e orizzonti risolutivi. La novità non sta nel tentare di raggiungere sui posti traguardi illuminati dal sole dell’avvenire, ma nell’inoltrarsi – nonostante la notte – passo dopo passo in una terra nuova che il sole, sorgendo, ci rivelerà.

Iniziare ai valori oggi

Oggi i cambiamenti sociali e culturali interessano una parte dei riferimenti etici e ci troviamo nella situazione di un esploratore che non dispone di un itinerario già tracciato, ma che deve contrariamente orientarsi lui stesso e darsi punti di riferimento. Lamentarsi sulla perdita dei valori non è pertinente, perché non si sono persi i valori, ma piuttosto il soggetto capace di elaborare valori. Iniziare ai valori, oggi, non consiste innanzitutto nel trasmettere un’eredità, anche se questa trasmissione è indispensabile. Si tratta invece di introdurre alla capacità di valutare, di percepire e produrre valori.
Colui che si impegna ad iniziare ai valori ha la responsabilità di costruire il soggetto: questo presuppone che egli eserciti la sua funzione di autorità; assumendo il suo stato di adulto. L’autorità che costruisce il soggetto, più che essere oppressiva, è quelle che “autorizza”, che traccia i limiti e circoscrive lo spazio all’interno del quale il soggetto si può “riferire”, spazio che rimane aperto, permettendo l’accesso all’autonomia.
Responsabili, ma non colpevoli, della marginalità giovanile sarebbero dunque i genitori, secondo il parere di un esperto, il dott. Olivenstein, intervistato da “Le Nouvel Observateur”. È un argomento che spero di affrontare in altra occasione: oggi vorrei riflettere brevemente sullo sradicamento di quanti lasciano la loro terra per emigrare.

Costretti a partire:
lo sradicamento

L’occasione mi è stata offerta da due viaggi, fatti recentemente nel Meridione d’Italia: in Puglia a dicembre, in Sicilia a gennaio. Sarà stata la gioia di ritrovare il sole, il mare, il calore umano del Sud; di certo c’è che son tornato con lo spirito ravvivato da una fresca ventata d’entusiasmo, ma anche col pensiero rivolto alle migliaia di persone costrette a partire, andare lontano, sradicandosi dalla propria terra. Sì, penso proprio allo sradicamento presente in casa nostra, a tutti i “meridionali” emigrati tra i “nordici”, alla parlata, all’accento nativo che li bolla, terroni, in terra italiana.

Le lingue tagliate

La patria di ognuno è la lingua materna. I dialetti, le parlate originarie, ciascuna col suo lessico, con la sua cadenza, col patrimonio comunitario di tradizioni, di usanze, di modi di rapportarsi agli altri e al mondo, sono le culture sommerse, le lingue tagliate del nostro tempo.
Una lingua è un modo di pensare, di sentire, di organizzarsi mentalmente, emotivamente. Recidendo, però, il legame con l’humus originario, la capacità stessa di esprimersi si isterilisce e con essa la possibilità di comunicare autenticamente, creativamente.

Un disprezzo inveterato
anche nel Veneto e nell’Emilia

Anche in Veneto ed in Emilia ho la percezione acuta e dolorosa della discriminazione, del pregiudizio, del disprezzo inveterato per i meridionali, quasi fossero tutti ignoranti, sottosviluppati, mafiosi, ecc… Una razza inferiore, insomma. Un’identità disprezzata, mortificata, che cerca di mimetizzarsi, vergognandosi di sé, per farsi accettare, per non sentirsi respinta, denigrata, derisa, offesa, o che si raddrizza e si ribella, confermandosi orgogliosamente nella consapevolezza della propria “diversità” (è il tentativo vincente di alcuni gruppi “negri” in Brasile). Così l’intolleranza genera chiusura, risentimento, incomprensione, incomunicabilità.
La territorialità di un linguaggio, di un accento ha sempre un carattere conservativo, autodifensivo: il gruppo umano che vi abita teme l’insediamento degli estranei, degli intrusi. Cerca di allontanarli. Chi tenta di assimilarsi, adottando la parlata locale, viene sbeffeggiato.

Contro il meridionale colto,
vincitore dei concorsi, specialmente

La sottile violenza del razzismo antimeridionale, così diffuso e ingeneroso, può scatenare un’indicibile sofferenza. Il soggetto che la subisce rischia di perdere anche la sicurezza dei propri diritti umani e civili e la percezione delle dinamiche sottostanti agli atteggiamenti aggressivi. È chiaro, infatti, che le varie “leghe” non reagiscono contro il meridionale analfabeta e miserabile, disposto a farsi sfruttare per un salario (ruolo ricoperto, oggi, dai nuovi immigrati di colore, più o meno clandestini, più o meno figli del Sud del Sud), ma contro il meridionale colto, vincitore di concorsi a livello nazionale, che li scalza, per merito, dai posti disponibili sul territorio e che quindi è un rivale indesiderato.
È allora – quando ci si avverte e si viene avvertiti come “diversi” in senso negativo e non su un piano di parità – che scatta internamente il malessere profondo, inguaribile dello sradicamento.
Ma indietro non si torna, non si può, spesso, tornare. Lo sradicamento è definitivo, totale, perché nei luoghi che si sono lasciati si ritorna in ogni caso, se si ritorna, stranieri.

Apolidi, babelici, cosmopoliti, ebrei erranti

Si diventa sradicati cronici, sradicati a vita, mancando il senso rassicurante e protettivo dell’appartenenza ad una comunità che ci accolga e ci riconosca. È un sentimento che io stesso vivo a Pove, il mio paese, la mia terra, dopo trent’anni passati in Emilia.
Eterni ebrei erranti, esuli, profughi, nomadi, disadattati e riciclati all’infinito, apolidi, babelici, cosmopoliti… SOLI.
Ma forse è questa la condizione migliore per l’incontro interpersonale da individuo a individuo, libero dagli impacci del clan, dallo spirito di corpo, dall’esclusività del recinto.
La solidarietà, la convivialità, possono forse nascere su nuove basi, tra viandanti consapevoli infine di appartenere, più che a questo o a quel campanile, all’unico villaggio terrestre, all’unica famiglia umana. Non più per un destino di divisione o di sottomissione, ma di comunione e rispetto reciproco, per cui alle lingue tagliate subentri, infine, la possibilità dell’intesa universale.

Pove del Grappa (Vi), febbraio 1996