Democrazia diretta e democrazia rappresentativa
(Pavani) «A che cosa ci si riferisce quando si parla di democrazia o «governo del popolo»? E soprattutto, come si è arrivati al concetto che noi abbiamo in mente quando parliamo di stato democratico, considerato che varie sono le forme di democrazia che si sono evolute nel tempo, a partire dalla democrazia partecipativa fino alla nostra rappresentativa?»
(Galli) Noi oggi conosciamo la democrazia nella sua veste moderna, cioè nella sua forma di democrazia liberale pluralistica rappresentativa e diamo per scontato che la democrazia abbia a che fare con l’uguaglianza dei cittadini, che tutti insieme concorrano con il voto alla formazione dell’organo che ha il potere legislativo, ossia il parlamento.
Se questo avviene realmente, con la libera scelta del voto che si esprime attraverso i soggetti che fanno da intermediari tra i cittadini e il parlamento, i partiti, noi diciamo che vi è democrazia.
All’origine, questa formazione nasce da una tradizione democratico-repubblicana che è partecipativa, e non è incentrata sul concetto di rappresentanza, come ci è stato tramandato dagli esempi delle città di Atene e di Roma, nell’antichità.
Tale democrazia sarà destinata a incrociarsi con la pratica della rappresentanza politica in Inghilterra, prima in forma molto centrale, poi sempre più libera nel suo mandato e che trova una fusione nella rivoluzione francese dove una teorica democrazia diretta e partecipativa della nazione si scontra con l’impossibilità pratica di esercitarla direttamente.
Noi dobbiamo stare molto attenti però alla logica dei nostri meccanismi: quando in una democrazia rappresentativa, come ad esempio quella italiana, i cittadini votano, in realtà non votano direttamente un governo e non possono deciderne direttamente i contenuti; quando un governo agisce, non è legato direttamente al popolo: deve chiedere la fiducia del parlamento, che il popolo ha concorso a formare con le elezioni, ma esso non è vincolato direttamente alla popolazione.
Questo significa che mai, in nessun modo, nemmeno in una monarchia costituzionale, il popolo elegge direttamente un sovrano o un primo ministro, e quindi non decide mai direttamente chi governa, ma concorre alla formazione di un governo: per cui la democrazia moderna non è un passaggio di volontà, bensì di autorità, nel senso che il popolo si spoglia della propria autorità e la delega.
Il problema è che in una società sempre più complessa, formata di tante parti, diventa sempre più difficile accontentarsi di una delega che non incida sui contenuti, ovvero il cittadino sente sempre più l’esigenza di controllare meglio anche i contenuti. E che cosa chiedono?
Chiedono più legalità: e la si può effettivamente ottenere anche dentro al modello di democrazia che noi abbiamo, anzi si potrebbe chiedere che una maggiore legalità fosse al centro degli obiettivi elettorali, e questo deriva dal fatto che il popolo vota per il parlamento, e il parlamento è l’organo che legifera.
Chiedono il superamento di discriminazioni, e quindi sostanzialmente chiediamo lo stato sociale.
Quando invece chiediamo che tutte le parti e/o le minoranze, i gruppi locali, i movimenti, le differenze di cultura, di religione che appartengono alla società attuale abbiano un peso politico, la situazione diventa molto difficile e dobbiamo stare molto attenti alla richiesta che stiamo facendo: perché in realtà si sta chiedendo di andare oltre il concetto di democrazia liberale.
Si può iniziare a pensare davvero a un’organizzazione della politica che non passi più attraverso la delega? Si può iniziare a pensare che anche i piccoli gruppi siano gruppi che esercitino una pressione? Questo è difficilissimo per l’impianto costituzionale che noi abbiamo voluto, e che ci ha comunque garantito la conquista di diritti che sono fondamentali e che abbiamo ottenuto attraverso la rappresentanza parlamentare.
La legge è uguale per tutti, se è sopra tutti
(Pavani) «Le chiedo di chiarire meglio un passaggio che le ho sentito descrivere durante una sua conferenza: e cioè il passaggio (sul concetto di governo) dalla domanda di «chi governa chi» a quello di universalità».
(Galli) Da sempre nella storia del pensiero occidentale ci si è posti la domanda del «chi governa chi», e soprattutto perché e verso quale fine. Questa domanda però presuppone la concezione che gli uomini non siano tutti uguali; infatti ci si chiedeva chi fossero coloro che avessero competenze maggiori: i più ricchi? i più saggi? i più anziani? cioè si presupponeva una diversità sostanziale che mettesse in rilievo abilità diverse. Questo modo di pensare la politica cade con l’inizio del pensiero politico razionale moderno. Se presumo che tutti i cittadini siano uguali, nessuno governa più nessuno. A chi devo obbedire? Alla legge. Che non è la volontà particolare di qualcuno diverso da noi, ma è la nostra stessa volontà che noi non trasferiamo a nessuno.
È ciò che continua ad accadere anche oggi; noi autorizziamo con una delega il parlamento che promuove le leggi ad agire come se fossimo noi, ed è il nostro modo di obbedire alle leggi. In questo senso possiamo parlare di popolo sovrano; ritornando alla complessità della società e alla coesistenza di parti che chiedono un peso politico maggiore, il concetto squisitamente moderno della sovranità popolare è molto astratto, occorre trovare forme di democrazia che tengano maggiormente conto del fatto che la società ha meno paura di se stessa di quanta non ne avesse quattro o cinque secoli fa, quando i gruppi sociali, assieme al sovrano, erano due o tre al massimo.
Lo stato assediato dal grande mercato
(Pavani) «L’ultima domanda prende spunto da «La società sotto assedio» di Bauman, il quale sostiene che in effetti è molto difficile concepire una democrazia senza un sano capitalismo; quando il sistema capitalistico di produzione viene sottoposto a controlli, a gestioni miste di compartecipazione, può, ed è un impulso alla democrazia, rappresentare energia che si mette in movimento, emancipazione femminile, benessere economico e via dicendo. Pare però che il capitalismo riesca a sfuggire a ogni maglia di controllo, soprattutto nell’era post moderna della globalizzazione, nella quale si assiste alla nascita di piccoli Stati, che entrano lentamente a far parte dei paesi dell’Unione Europea, senza una vera autonomia».
(Galli) Il capitalismo è un sistema di produrre merce attraverso le merci, la prima di queste è la «merce» chiamata lavoro umano, che ha molto a che fare con una mercificazione o schiavizzazione dell’umanità, ma che ha anche la capacità di liberare energia. Disinventare il capitalismo sarà molto difficile, e di fronte a questa potenza straordinaria, che non ha padroni, poiché il capitalismo ammette al massimo dei gestori che lo assecondano o che lo indirizzano, qualsiasi altra forma di organizzazione della vita umana è più debole, e dunque anche lo Stato è più debole.
La globalizzazione è, appunto, l’emergere della debolezza dello Stato di fronte al potere del capitale. Gli Stati Uniti hanno la presunzione e l’illusione di plasmare il mondo, attraverso la politica, quando è il capitale a plasmare le società attuali. L’altro continente che condivide questa illusione è la Cina. Come sopravviveremo e chi avrà ragione è difficile prevederlo, certo è che la nascita di nuovi piccoli Stati, appare in forma molto residuale sotto il profilo della costituzionalità e della democrazia interna, mentre si connotano fortemente come bacini o énclaves di narcotrafficanti, produttori di materie prime destinati al mercato globale o città-stato casinò dove i parametri sui dazi relativi alla esportazione delle merci e le modalità di produzione sfuggono a ogni forma di controllo.
Carlo Galli, intervistato da Elisabetta Pavani
Carlo Galli
ordinario di storia delle dottrine politiche,
dipartimento di discipline storiche,
facoltà di lettere e filosofia,
Università di Bologna