La conferenza di Copenaghen

di Milani Annalisa

“Per la prima volta nella storia, su invito delle Nazioni Unite, ci incontriamo come capi di Stato e di governo per riconoscere l’importanza dello sviluppo sociale e del benessere umano per tutti e dare a questi obiettivi la più alta priorità sin da ora e per tutto il XXI secolo”.
Così inizia enfaticamente il primo paragrafo della Dichiarazione finale di Copenaghen. Ed in effetti l’enfasi, mescolata al realismo ed al pessimismo, è stata l’emozione dominante le 138 delegazioni, i 121 capi di Stato e i rappresentanti di più di 2500 ONG (Organizzazioni non governative), ospitati per sei giorni al Bella Center ed al vecchio porto di Holmen di Copenaghen.

Perché un summit mondiale
sulla povertà e lo sviluppo sociale?

“Il mondo soffre di una crisi sociale e di una crisi morale” – dichiarava Boutros-Ghali, segretario generale delle Nazioni Unite – “ed il sintomo di queste malattie del mondo contemporaneo è l’atmosfera di incertezza crescente che penetra ormai in tutti i campi della vita collettiva”. Che fare quando ci si accorge che “l’espansione della prosperità in alcuni stati sfortunatamente è stata accompagnata da un’inspiegabile povertà in altri?” (art. 13, dichiarazione finale di Copenaghen).
Ma “la povertà non è una fatalità” (Mitterand, 11 marzo 1995) e le cause del nuovo darwinismo sociale (i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri) sono note. Prima fra tutte “un sistema che mette al primo posto la crescita economica sopra tutti gli altri obiettivi, compreso il benessere umano” (art 5, dichiarazione alternativa di Copenaghen).

Dati eloquenti
Quando con la risoluzione 47/92 l’assemblea generale dell’ONU decideva di convocare un Summit mondiale sullo sviluppo sociale, ben chiaro era a tutti, almeno a parole, che:
· nel mondo una persona su cinque, in totale più di un miliardo di esseri umani, vive al di sotto della soglia di povertà;
· il numero di persone più vulnerabili si quadruplicherà nello spazio di una vita umana se le tendenze demografiche ed economiche attuali persisteranno;
· la cifra totale dei debiti dei paesi in via di sviluppo è aumentata. Oggi si calcola in 1,4 miliardi di dollari, il doppio di dieci anni fa. I capitali del Sud si spostano verso il Nord e la riduzione brutale degli investimenti sociali ricasca sui più poveri;
· una persona su dieci in età economicamente attiva non può procurarsi un impiego remunerativo;
· il 20% dei salariati del mondo intero non riceve che il 2% del reddito mondiale;
· circa il 40% delle donne rurali lavora sfruttato, senza ricevere un salario.

Dopo la guerra fredda
Dopo la guerra fredda si assiste ad una maggiore disintegrazione della società, i cui sintomi sono:
· conflitti: tra il 1989 ed 1992 su 82 conflitti 79 erano conflitti armati ed il 90% delle vittime erano civili;
· migrazioni: ogni conflitto produce rifugiati e migrazioni forzate;
· aumento della criminalità, particolarmente nei paesi in via di sviluppo e nei paesi ad economia in transizione;
· il traffico illegale di droga, che realizza quasi 500 miliardi di dollari per anno;
· la violenza familiare – particolarmente su donne e bambini, come frutto di disintegrazione familiare – in aumento;
· la corruzione politica, ovunque aumentata.

Priorità
Consapevole di un’aumentata disintegrazione sociale, il Comitato preparatorio del summit sociale, tra il 1992 ed il marzo del 1995, raccoglieva le sue analisi in una piattaforma finale di 85 pagine, da approvare a Copenaghen, dove si riconoscevano tre questioni centrali:
1. ridurre la povertà;
2. innalzare il livello di integrazione sociale, in particolare dei gruppi più marginali e svantaggiati;
3. espandere l’occupazione produttiva;
con alcuni obiettivi da raggiungere, tra cui:
a) promuovere gli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite, dando attuazione all’art. 55;
b) porre i bisogni delle persone al centro dello sviluppo e della cooperazione internazionale;
c) formulare strategie politiche centrate sulla distribuzione, con particolare attenzione alle necessità dei paesi meno sviluppati;
d) cercare un bilanciamento tra efficienza economica e giustizia sociale;
e) promuovere, tramite politiche di welfare (educazione, salute, ecc.) l’integrazione dei gruppi sociali emarginati e svantaggiati della società;
f) mobilitare le risorse per lo sviluppo sociale a livello locale, nazionale, regionale ed internazionale.

La conferenza
Quando il 5 marzo 1995 si aprivano le porte della Conferenza, le critiche non mancavano. Al grido d’allarme e di sollecitazione di Boutros-Ghali verso la comunità internazionale: “Io mi auguro che la comunità mondiale possa dotarsi dei mezzi necessari per assicurare un seguito a questa conferenza, affinché le raccomandazioni adottate possano diventare realtà… poiché il progetto di sviluppo sociale che noi andremo a discutere qui a Copenaghen è un modo per la comunità internazionale nel suo insieme di dire no alla fatalità della crisi! no alla persistenza delle ineguaglianze! no alla frantumazione del mondo!”, rispondeva la voce critica e realista di molti rappresentanti di ONG, particolarmente di coloro che erano impegnati dentro il “Caucus dello sviluppo” nell’opera di “lobbying” alle spalle delle delegazioni ufficiali.

Voci critiche
· Lo sviluppo sociale non occupava un posto centrale nell’agenda dei lavori come sarebbe stato necessario;
· molto pochi erano i paragrafi che parlavano degli specifici obblighi degli Stati;
· la terminologia circa gli obiettivi, gli obblighi era troppo comprensiva. Troppo spesso nel documento apparivano questioni generali al centro della discussione. Che cosa significava “sviluppo sociale”?, che cosa significava “partecipazione”?, quanta e quale tipo di democrazia era necessaria?, come la povertà poteva essere misurata?
· i problemi che causano la povertà erano presi in considerazione, ma descritti in modo troppo estensivo e non si analizzavano i reali processi che deprivano le persone delle loro risorse;
· l’applicazione ed il monitoraggi erano vaghi e lasciati a commissioni nazionali senza alcun riferimento ai criteri per monitorare;
· c’era mescolanza e vaghezza sugli attori che dovevano realizzare gli obiettivi. Molto si focalizzava sullo Stato come attore più importante, ma sfortunatamente si usavano termini come “rafforzare”, “cambiare”, senza nominare chi avrebbe dovuto fare ciò.
Le critiche denunciavano quindi un documento preparatorio importante, ma debole. E nonostante questa denunciata genericità, la ricerca del consensus tra gli Stati non si presentò facile. Il Main Commettee si suddivise in quattro sottogruppi:
1) per ridefinire le questioni legate al diritto allo sviluppo;
2) per ridefinire le questioni legate ad un nuovo welfare per la famiglia (il Vaticano esercitò su questo gruppo forti pressioni per riaprire i concetti già definiti al Cairo su famiglia e salute riproduttiva);
3) per ridefinire nuovi impegni che permettessero un’educazione per tutti;
4) per ridefinire risorse finanziarie da mobilitare per dare attuazione agli impegni presi.

La conclusione della conferenza
Il vento freddo di domenica 12 marzo non impedì ai 116 capi di Stato di giungere a Copenaghen per chiudere il summit ed adottare una dichiarazione finale contenente dieci committement ed un piano d’azione. Come dopo Rio, Vienna, Il Cairo, c’era chi parlava di risultati positivi e chi, specialmente tra le ONG, di fallimenti. “È ben vero che la povertà è in aumento e che il summit non l’ha sradicata, ma è un fatto che questa è la prima volta che il mondo si è incontrato per dire “Basta”” (Richard Jolly, Unicef); “Dieci anni fa questa conferenza sarebbe stata impossibile, non ci sarebbero stati risultati perché avremmo perso tempo in questioni ideologiche” (Juan Somavia, chairman social summit).

Molti riconoscimenti,
pochi impegni concreti!

· Si riconosce la necessità di sradicare la povertà assoluta, ma si lascia ai singoli stati la scelta sui modi e limiti di tempo senza porre criteri precisi e monitoraggi;
· tutti riconoscono come priorità sulle quali investire l’educazione e la salute. E si parla di new and addicional resources. A questo riguardo Somavia così commentava: “È un passo più avanti perché ora non si parla più di solo aiuto, ma i paesi tornano a casa con l’idea di priorità da raggiungere e sanno che devono cercare denaro da sorgenti nazionali ed internazionali e darsi tempi precisi”;
· l’iniziativa “20/20”, presentata da Undp, Unicef, Unesco, Unfpa (il 20% del PIL dei paesi in via di sviluppo ed il 20% del denaro dai paesi donors per la cooperazione deve andare alle spese sociali) è stata lasciata “optional”;
· sulla cancellazione dei debiti ai paesi poveri non è stato preso nessun impegno, a parte la Danimarca e l’Austria che hanno cancellato rispettivamente 190 e 100 milioni di dollari;
· sugli aggiustamenti strutturali imposti da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, si è giunti a dei richiami alle due istituzioni di Bretton Woods perché “pongano la persona al centro dei loro impegni”, collaborino più in contatto con le Nazioni Unite, quindi lavorino in un maggior contesto di salvaguardia dei diritti umani e trovino il modo di ridurre il debito multilaterale, in particolare dell’Africa;
· riconoscendo che solo Danimarca, Svezia, Olanda e Norvegia hanno raggiungo lo 0,7% del PIL per l’aiuto ai paesi in via di sviluppo, si è richiesto fortemente che gli altri paesi si impegnino in questo obiettivo, ma senza fissare tempi precisi. È stata comunque rilanciata da Mitterand la Tobin Tax, dal nome dell’economista e premio Nobel statunitense J. Tobin, che ha proposto una tassa (0,1%) sui movimenti di scambi stranieri speculativi. Ciò farebbe guadagnare migliaia di dollari da reinvestire nel sociale;
· per quanto riguarda disoccupazione e lavoro si spingono gli Stati a ratificare ed a seguire le direttive delle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro;
· non è passata la proposta dei paesi del G7 di creare un fondo internazionale per lo sviluppo sociale.

La dichiarazione alternativa
Aprendo il forum delle ONG, l’ambasciatore cileno Juan Somavia (l’uomo che ha preparato il summit) aveva ringraziato le organizzazioni di base “per aver contribuito a migliorare, nella fase preparatoria, la dichiarazione ed il piano d’azione”. Migliore forse, ma molto lontana dal soddisfare molte ONG. Mercoledì sera 7 marzo, un gruppo di ONG molto consistenti (Forum ONG norvegesi, Novib, Third World Action, Fian, Dawn) passava all’azione concreta. Non si poteva “tornare a casa senza parlare con una voce comune che protestasse contro la dichiarazione ufficiale” (che nella fase di trattativa si andava fragilizzando). Venne proposta una dichiarazione alternativa che aveva le sue radici in precedenti documenti già firmati da 14 note ONG nel febbraio 1995 e chiamati Oslo Fjord Declaration.
La dichiarazione alternativa, ora diffusa in tutto il mondo, attacca il documento ufficiale “per l’eccessivo affidamento che il documento ripone nelle forze del libero mercato, che di fatto non rispondono a nessuno, come base per organizzare le economie nazionali ed internazionali, ed aggravano, invece di alleviare, la globale corrente crisi sociale. Queste false premesse mettono in pericolo la realizzazione dei fini dichiarati dal vertice sociale” (art. 3). No quindi alla cornice di libero mercato in cui si muove il documento ufficiale. Gorostiaga, rettore della Central American University in Nicaragua ed attivissimo nella preparazione della dichiarazione alternativa, sosteneva che “il documento ufficiale supporta una agenda neoliberista ed il sistema di Bretton Woods e non prende in considerazione le conseguenze sociali di queste politiche”. Conseguenze su chi? “Un sistema che mette al primo posto la crescita su tutti gli altri obiettivi… incentiva il capitale a scaricare su tutta la collettività i costi sociali ed ambientali e particolarmente sulle donne, le popolazioni indigene, i giovani… crea crescita senza lavoro…”.
Viene rifiutata l’idea di ridurre la politica sociale nei paesi in via di sviluppo a “rete di sicurezza sociale” presentata come “il volto umano della politica degli aggiustamenti strutturali”. Si attacca l’appoggio dato nei documenti ufficiali alle clausole dell’accordo per l’istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che creano molti più perdenti che vincitori. Rigettando il modello globale economico neoliberista, non si suggerisce l’imposizione di un altro modello universale, ma si propongono delle risposte che vengano più incontro ai bisogni del livello familiare, della comunità nazionale, internazionale. A quest’ultimo livello si propone, tra l’altro, l’introduzione della Tobin Tax, la cancellazione dei debiti dei paesi in via di sviluppo, la democratizzazione ed il monitoraggio delle Istituzioni di Bretton Woods.