Oriente express. Dal treno in corsa
In treno, 16 dicembre 1998
Ho appena assistito ad una scena di “razzismo latente quotidiano”.
No,
i protagonisti non erano bande avverse di gioventù metropolitana
emarginata (come direbbero gli esperti), ma da una parte due signori
arabi (forse marocchini, comunque maghreb) dall’altra un “distinto”
signore di quel Veneto bene che tanto tiene represso dietro l’immagine
di borghese distinto e socialdemocratico, così “a posto” tanto in
coscienza quanto nell’urna.
Ah, dimenticavo; ho intuito che il
signore di cui sopra è un docente universitario; in treno legge con
accortezza da intellettuale di ruolo il suo “Herald Tribune” e dice
“Pardon” quando ti urta col piede spinto dal movimento del vagone.
Tutto
comincia quando una signora (viso tirato da insegnante depressa perché i
consigli di classe le portano via troppo tempo) si alza all’improvviso,
va nello spazio che c’è fra un vagone e un altro e urla ad uno degli
immigrati: “Qui non si fuma!”.
Visto il tono aggressivo, il
marocchino le dice che non è nel vagone e che di lì non intende
muoversi. È vero che anche nel pianerottolo è vietato fumare se è
accanto ad un vagone per non fumatori, ma è altrettanto vero che tutti
lo fanno.
La scena più bella si è vista dopo; il compagno
dell’immigrato, che doveva essere un’autorità religiosa, si avvicina
all’altro per calmierare le acque. Mentre passa nel corridoio, il
professore socialdemocratico così a posto in coscienza quanto nell’urna,
dice ad alta voce, rivolgendosi a due ragazzi seduti di fronte (forse
alunni?): “Bisognerebbe andargli a pisciare nelle moschee!”.
Rimango
esterrefatta e lui contento prode della sua opinione finalmente liberata
davanti ad un intero vagone indifferente, ripropone il suo concetto
cercando il mio assenso. Il ribollire interiore è stato tale che lo
guardo con disprezzo e dico: “Guardi che i signori non erano in vagone,
ma poi cosa c’entra?”.
Il ragazzo straniero mi dice, senza scomporsi:
“Non preoccuparti, lui non è degno di entrare in una moschea, perché
nella moschea c’è Dio”.
Il prof. risponde: “Beato te che credi ancora
in Dio”, accentuando ancor più il suo tono da accademico. Poi il prof.
mi fa: “È vero che bisogna essere tolleranti, ma insomma!”.
La mia
soddisfazione è stata quella per cui, dopo avergli contrapposto
banalissime e ovvie obiezioni sull’accaduto, non mi ha più rivolto lo
sguardo.
Mi dispiace solo che il disgusto verso la cultura (anzi
kultura) e l’ambito sociale e politico di provenienza di quel soggetto
mi abbiano impedito di salutarlo all’arrivo a Bologna. Avrei avuto
occasione di esplorare il vuoto dietro quel viso, quel giornale, quella
cravatta, così giusti e politicamente corretti.