Sergio Quinzio, l’uomo che ha preso sul serio la parola di Dio

di Bertin Mario

Viviamo tempi ciechi. Camminiamo in un deserto senza strade, in cui il cammino può essere individuato soltanto in rapporto alla distanza che ci separa dagli altri. Avvertiamo la mancanza di profeti che sappiano leggere la storia e indicarne il senso. Abbiamo bisogno di intelligenza, di leggere dentro (intus legere) ciò che succede, e non sappiamo dove cercarla.
Di fronte agli eventi che sempre più frequentemente e con sempre maggiore forza paiono scardinare le certezze che pensavamo costituire le basi inattaccabili della nostra civiltà, le ragioni indiscutibili del nostro stare insieme, mi trovo spesso a chiedermi che cosa avrebbero da dire oggi gli uomini che hanno rappresentato per la mia generazione i punti di riferimento della nostra vita individuale e collettiva. Penso alle tante figure che nel dopoguerra e soprattutto negli anni caldi della contestazione giovanile e del concilio, nei confusi anni settanta del terrorismo, negli anni già percorsi dai prodromi di un collasso che sembra non risparmiare alcun aspetto della modernità occidentale, hanno saputo illuminare delle loro idee e della loro passione la politica e fornire spunti di comprensione e di orientamento nel dibattito tra ideologie ormai morenti.
Tra i tanti, nelle figure di primo piano metto Sergio Quinzio, di cui ricorre in questi giorni il decimo anniversario della morte. Sento la mancanza della sua voce, della sua parola quieta, ma nuova e folgorante, che affiorava dalle profondità della sua visione apocalittica della storia. E trovo scandaloso – anche se coerente con la povertà di pensiero dei nostri anni – che i giornali importanti con cui intratteneva una collaborazione regolare (La Stampa, il Corriere della Sera) non abbiamo sentito il bisogno di ricordarlo in questa ricorrenza neppure con una riga. Eppure mai come oggi il suo pensiero avrebbe la possibilità di produrre tanti echi.

Non prendere la vita da dilettante
Il pensiero di Sergio Quinzio è un pensiero complesso che si nutre della teologia biblica, della filosofia ebraica così feconda nel secolo passato, di autori che hanno compiuto scelte radicali come Keirkegaard, Kafka, Buber, Scholem e molti altri.
Non tenterò quindi di restituire questo pensiero nel suo sviluppo, ma, molto più modestamente, di raccontare qualcosa di lui, della sua persona, che apra su di esso piccoli spiragli.
Chi era, dunque, Sergio Quinzio? Sergio Quinzio per me è stato innanzitutto un uomo mite, che parlava con una inesauribile dolcezza, che ha preso sul serio fino in fondo la parola di Dio, alla quale ha ispirato tutta intera la sua vita. È stato un uomo che ha preso sul serio Dio e il suo Cristo. Che ha affrontato la vita non da dilettante. A lui si potrebbero ben applicare le parole di Nietzsche: «Da che cosa mi è venuto più disgusto? Dal vedere che nessuno ormai ha il coraggio di pensare fino in fondo. Il più coraggioso di noi non ha abbastanza coraggio per ciò che veramente sa» (Scritti postumi). Sergio Quinzio non era così. Quando parlava di Dio e della fede, egli non usava parole vuote, come spesso avviene a ciascuno di noi. Esse cadevano con tutto il loro peso nel lago della storia, turbandolo fino nelle profondità. Le sue erano parole vere ed esigenti. Ricordo un viaggio che feci con lui a Palermo pochi mesi prima che morisse. L’occasione era il dibattito organizzato attorno a un suo piccolo libro, che portava come titolo un inquietante interrogativo: Quando i miti conquisteranno la terra? Quando – si domandava Quinzio – si sarebbero avverate le profezie di Cristo? Quanto bisognerà ancora aspettare? Perché questo lunghissimo e insondabile silenzio di Dio, di cui si deve caricare la nostra speranza? Ma l’interrogativo che in quella occasione Quinzio si poneva, oltre a questo, era un altro: come conciliare i comandamenti di Cristo con la vita quotidiana? Per esempio – si chiedeva Quinzio -, come si dovrebbe comportare un direttore di banca di fronte all’imperativo di Gesù di prestare il denaro a chi non è in grado di restituirlo? Ci sono zone della nostra vita che possono essere sottratte all’insegnamento evangelico e comportamenti incompatibili con questo insegnamento che possono essere assolti dalla consuetudine e dal «buonsenso»? Ci possono essere terreni della nostra fede da sottoporre alla verifica della ragione? O non è piuttosto la fede a dover piegare alla sua luce la luce che viene dalla ragione? La risposta di Quinzio quella volta fu categorica: «Forse i cristiani non possono fare i direttori di banca». Nel cristianesimo dei primi tempi non c’erano delle professioni (come quelle che avevano a che fare con il sangue) precluse ai seguaci di Cristo?
La radicalità di Quinzio
Questa era la radicalità di Quinzio: af-fidarsi alla parola di Dio, lasciandosi sopraffare dallo stupore che essa introduce nella storia e abbandonando il «piano inferiore» della cultura, dove la religione viene relegata «nello speciale clima estetico della santità personale, dell’immobilità sacrale, della purezza esemplare». La religione invece ha a che fare con le sorti del mondo.
In uno dei suoi primi libri (Il Cristianesimo del principio e della fine), citando l’epilogo del Vangelo di Marco, laddove Gesù appare ai suoi discepoli e, dopo aver comandato loro di andare in tutto il mondo ad annunciare la buona novella a ogni creatura, elenca i segni che accompagneranno coloro che credono (scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti, guariranno i malati, ecc.), Quinzio conclude perentoriamente: «Noi non vediamo questi segni; sappiamo, quindi, che nessuno ha creduto».
L’orizzonte biblico in cui si muoveva, rendeva per lui anacronistica ogni separazione della parola divina dalla comprensione dell’azione.

Il fine apocalittico della storia
Tutto ciò pone un grande problema.
La concezione della parola di Dio come costitutiva di un ordine che non è confinabile al dominio del razionale e alla sfera interiore, ma che invade la totalità del reale, non può non avere implicazioni decisive nell’individuazione del fine della storia.
Il futuro per Quinzio non è nelle mani dell’uomo. L’uomo è padrone solo del passato, che è «promessa» del futuro.
L’interpretazione del passato diviene così una «profezia retrospettiva, che lo rappresenta come una «preparazione» significativa del futuro».
L’approdo della storia, di conseguenza, non è costituito dall’esito dell’azione umana guidata dall’idea ottimistica del progresso, ma dalla volontà di Dio che ha la forza di vederne l’esito e di compierlo. L’approdo della storia è la «redenzione messianica», l’instaurazione da parte di Dio di una realtà completamente nuova, per passare alla quale è indispensabile la distruzione dell’edificio attuale.
Il messianismo apocalittico di Quinzio, dunque, è ben lontano da qualcosa che assomigli a una soddisfatta certezza, «tutta coerente e positiva». Citando Scholem, Quinzio sottolinea che «l’idea messianica ha la debolezza di tutto ciò che è precursore, provvisorio, di ciò che non giunge mai al suo fine». Ogni tentativo di realizzazione non può che dischiudere abissi. Come si vede, l’idea messianica e l’idea di progresso si contrappongono l’un l’altra polarmente. Vivere nella speranza vuol dire «trovarsi senza potere, non potersi mai realizzare». L’attesa messianica fa della vita «una vita differita, in cui nulla è mai definitivamente acquisito, né inesorabilmente compiuto». È – dice Quinzio – essere sospesi a mezz’aria come il crocifisso.
Per il cristiano, la salvezza non consiste in un senso colmato, nello svelamento della realtà, ma nella distruzione del «mysterium iniquitatis», l’espressione paolina che Quinzio pone come titolo al suo ultimo libro. E in La Croce e il Nulla scrive: «Un mondo in cui un bambino agonizza e muore in un cunicolo sotterraneo non può essere che distrutto.
I cimiteri, gli ospedali, le carceri, gli ospizi, le fabbriche, i luoghi immondi, le orride megalopoli devono, se c’è una salvezza, essere distrutti».
Ma in questo disegno c’è tuttavia un elemento di incertezza, di tragicità ed è la libertà dell’uomo.
La libertà dell’uomo è il supremo rischio dell’opera di Dio. In questo senso, l’uomo tiene nelle sue mani le chiavi del suo destino.
La libertà dell’uomo è l’altro volto del silenzio di Dio, il lato oscuro della luna, rivelato dall’esclamazione di Cristo sulla croce: «Padre mio, perché mi hai abbandonato?». In questo grido si cela il senso di ogni morte.
La morte, nella sua assurdità, diventa per Quinzio il passo necessario verso la vita. La speranza umana è fondata in una Kènosis senza riserve, che non edulcora il problema della iniquità e della morte, ma che è la condizione indispensabile per ricevere la salvezza.
Vivere, per Sergio Quinzio, non è uno scherzo, come tenderebbero a farci credere il chiasso e la banalità di cui l’hanno rivestito le liturgie del consumismo e del benessere.
Quinzio alza alto un appello ad abbandonare l’atteggiamento dilettantesco con cui affrontiamo la vita, a prendere la vita sul serio. Ed è questa voce che oggi ci manca, che ci manca tremendamente.