Tra stato di diritto e costituzione: alla ricerca delle radici

di Cortese Fulvio

Una relazione complessa
Quale rapporto esiste tra lo «stato di diritto» e la «costituzione»? Se dovessimo esprimerci come sono soliti fare i matematici, potremmo tradurre un simile quesito nel modo seguente: qual è la funzione capace di rappresentare, in modo tendenzialmente invariabile, il complesso sistema di relazioni esistente tra i caratteri costitutivi dello «stato di diritto» e le trasformazioni della «costituzione»? La domanda, così formulata, può sembrare particolarmente astratta, oltre che sostanzialmente incomprensibile, senza soffermarsi, peraltro, sulla circostanza che questo medesimo quesito risulta a sua volta condizionato dalla terribile necessità di comprendere che cosa significhi «costituzione» e che cosa significhi «stato di diritto» (qualche cosa, sul punto, si è cercato di ipotizzare in altra occasione: vedi questa stessa rubrica in Madrugada, n. 62).
Ciò nonostante, è bene dire che, all’interno della tradizione occidentale, questa domanda è talmente importante da costituire uno degli snodi più significativi di ogni ordinamento giuridico, e ciò nel senso che ogni possibile risposta può comportare, di volta in volta, un diverso modo di concepire l’ordinamento stesso e la sua identità.
Un esempio assai recente può riuscire particolarmente emblematico: si pensi al caso delle riforme costituzionali.
Nel dibattito che ha preceduto lo svolgimento del noto referendum costituzionale di giugno, buona parte dei sostenitori del «no» ha concentrato le proprie argomentazioni critiche nell’evocazione di immagini assai allarmanti, vuoi paventando che l’approvazione delle modifiche costituzionali oggetto del referendum avrebbe cagionato la morte della Costituzione del 1948, vuoi agevolando l’opinione che la mutazione di una parte così consistente del testo originariamente voluto dai padri costituenti si sarebbe risolta in una gravissima ferita all’identità repubblicana e ai principi fondamentali che ne sorreggono l’equilibrio, con esplicita ed esiziale rottura del patto sociale sorto nell’immediato dopoguerra.
Una simile lettura, fosse o meno condivisibile, tradiva la chiara adesione dei suoi autori a un particolare modo di interpretare l’interrogativo sopra ricordato.
In quella prospettiva, infatti, il proposto cambiamento formale della Carta costituzionale veniva percepito come un’alterazione così forte da poter travolgere anche la concezione di «stato di diritto» a essa sottesa, nel presupposto, cioè, che ci siano più «stati di diritto» e che la «costituzione» (identificata, si badi, con la Carta costituzionale) sia veramente tale proprio in quanto capace di fissare inderogabilmente e invariabilmente il nucleo irrinunciabile dello «stato di diritto» in cui si vuole e si deve riconoscere la Repubblica italiana.

Le trasformazioni implicite della Carta costituzionale
Se è vero, però, che ci sono più «stati di diritto», è altrettanto vero che ci sono più «costituzioni», e che pertanto non è automatico sostenere che, tornando all’esempio da ultimo riferito, il cambiamento della Carta costituzionale (di quella, cioè, che si è soliti definire come «costituzione formale») si risolva in un cambiamento della «costituzione».
Non solo possono esserci trasformazioni costituzionali esplicite che non comportano alcuna trasformazione dello «stato di diritto»; possono anche esserci trasformazioni costituzionali implicite, con connesse trasformazioni altrettanto implicite dello «stato di diritto» e dei suoi principi caratterizzanti.
Dal primo punto di vista si può rammentare, ad esempio, la modifica dell’art. 51 della nostra Carta costituzionale, così come avvenuta nel 2003: l’inserimento dell’espressa previsione secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini si profila senz’altro come sviluppo specifico del principio generale espresso dall’art. 3, secondo cui tutti i cittadini sono uguali senza distinzioni di sesso.
Dal secondo punto di vista, invece, si deve ricordare che fino al 2001 la nostra Carta costituzionale non prevedeva un esplicito riconoscimento del diritto comunitario e della sua supremazia, intesa, quest’ultima, soprattutto come capacità di «superare» la forza degli atti normativi approvati nell’ambito del sistema repubblicano; ciò nonostante, non si può negare, sul punto, che la nostra «costituzione» fosse già da tempo cambiata, sicché è stato anche possibile sostenere che il recente riconoscimento formale, all’art. 117 della Carta, del carattere vincolante del diritto proveniente dall’ordinamento comunitario assume tutte le sembianze di un’affermazione di valore puramente ricognitivo.
Si noti che in quest’ultimo esempio la trasformazione implicita non è di poco momento: di fronte al diritto comunitario, le «leggi» italiane, approvate dal parlamento democraticamente eletto, rivestono una posizione potenzialmente recessiva; buona parte dello «stato di diritto» cui pensavano i nostri padri costituenti nel 1948 è stato radicalmente modificato, e ciò senza che i cittadini si siano realmente preoccupati della ferita che in tal modo la nostra «costituzione» ha sofferto.

Un quesito inestricabile?
A questo punto, la complessità del quesito iniziale rischia di apparire pressoché inestricabile, dal momento che la consapevolezza circa l’esistenza di trasformazioni costituzionali tanto implicite quanto radicali rende assai inesplicabile la struttura della formula capace di riassumere le relazioni tra «costituzione» e «stato di diritto».
Si ha peraltro l’impressione che questa formula non abbia un carattere necessariamente e invariabilmente sostanziale e immutabile, non solo per la mutevolezza intrinseca dei suoi termini, ma anche, probabilmente, per il loro valore essenzialmente metodologico e non esclusivamente sostanziale.
Stato di diritto e costituzione, cioè, non rappresentano soltanto l’idea che ci siano libertà e/o diritti da tutelare di fronte al potere pubblico e/o privato, né si sintetizzano soltanto nell’obiettivo di attribuire un carattere tendenzialmente immodificabile a quelle libertà e a quei diritti; stato di diritto e costituzione sono concetti che richiamano entrambi l’idea dell’individuazione di strumenti organizzativi e di metodi funzionali reciprocamente coerenti e coordinati, nell’obiettivo di meglio tutelare diritti e/o libertà che potenzialmente sono storicamente variabili e che, pertanto, richiedono risposte istituzionali intrinsecamente mutevoli.
La ricerca delle «radici» del rapporto tra «stato di diritto» e «costituzione» appare in tal modo tradursi nella ricerca di un’intenzione metodologica ben precisa, di uno scopo e di un mezzo adeguati all’identità dell’ordinamento giuridico in cui si vogliono realizzare; di una direzione, in altri termini, che nella nostra Carta costituzionale è ancora forte e viva, e che trova, per l’appunto, la sua efficacia propulsiva nell’art. 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Fulvio Cortese ricercatore, università di Trento