Ugo Attardi, artista corsaro
Nella notte tra il 20 e il 21 luglio, Ugo Attardi è morto. Ha superato le colonne d’Ercole della conoscenza. È passato dall’altro lato della realtà, compiendo il sogno di Ulisse, che aveva scolpito come un grande uccello rapace, nell’atto di prendere il volo, con il volto celato dietro una maschera, ignoto a se stesso. Si conclude così il cammino umano e artistico di uno dei maestri più poliedrici e rappresentativi dell’arte italiana del Novecento, che è stato scultore e pittore, incisore e scrittore. Una navigazione ricca d’incontri sotto molti cieli, ma irrimediabilmente solitaria, come è per ogni grande sognatore.
Attardi ha attraversato movimenti intellettuali e correnti artistiche, fedi politiche e mode culturali senza sposarne però alcuna, senza farsi ammaliare dal canto di nessuna sirena, fedele soltanto alle sue coerenze interiori, in un confronto con la storia privo di qualsiasi acquiescenza. È stato un uomo ostinato, che seguiva nella vita le stesse regole di quando, con lavoro audace e fragile, aggrediva la creta per darle la forma dei suoi sogni o impugnava il bulino dell’incisore come un pugnale.
Per lui, l’arte era costantemente in debito nei confronti della realtà. Ce lo raccontò lui stesso quando, nell’estate 1997, venne a portare la sua testimonianza al camposcuola di Macondo a Lorenzago. Allora la rotta di Macondo e la sua si intrecciarono e fu come l’incontro in oceano aperto di due navi corsare. E l’una e l’altra registrarono l’evento nei loro diari di bordo.
Creatore di essenze
«Attard» – ha fatto notare lo scrittore maghrebino Rachid Boudjedra – in arabo vuol dire fabbricante di profumi.
Attardi, come molti siciliani, forse, ha lontane ascendenze arabe. Come i suoi antenati, anche lui è stato fabbricante di essenze. Produttore di essenze inebrianti. Dell’essenza delle cose, del mondo e del suo destino. Di ciò che usiamo chiamare la storia.
Contrariamente a quanto avviene di solito, Attardi è stato, inizialmente, un pittore informale e solo in un secondo momento figurativo. Non si è verificato in lui un percorso di astrazione, ma un percorso che dall’astrazione andava verso la realtà; che dalle rarefatte atmosfere dell’astrattismo geometrico portava alla concretezza della figurazione; un percorso che, pur nella novità stilistica, si ancorava alla tradizione plastica.
Approdato a Roma nell’immediato dopoguerra con molti progetti e senza un soldo, condivise agli inizi una stanza con Consagra, il quale a sua volta era ospite di Guttuso.
Ricordava spesso il freddo e la fame di quel periodo, che spartiva con lui la meravigliosa Elena, conosciuta a tredici anni e che gli fu vicina fino al momento in cui spirò.
Nel 1948 fondò, assieme a Consagra, Dorazio, Turcato, Accardi, Sanfilippo (quasi tutti sono come lui siciliani) il movimento informale «Formal». L’esperienza astrattista però sarà breve. La sua «necessità interiore» lo spinge altrove, lo spinge a usare il linguaggio pittorico non alla ricerca di approdi meramente estetici, ma per narrare, per significare, per comunicare la sua particolare visione del mondo, dell’uomo, della storia. È dei primi anni Cinquanta la sua svolta in senso realistico. Niente più astrazioni geometriche, ma uomini e donne dentro contesti osservati con pathos, illuminati da una furente critica sociale.
Michaux ha scritto che funzione dell’arte è di rendere inoffensiva la realtà. Attardi, invece, dipinge e scolpisce – e sarà una costante del suo impegno artistico, per rendere il reale «offensivo», per portarlo alla misura – ha precisato Boudjedra – della «dismisura umana». Le preoccupazioni meramente estetiche lasciano il posto all’impegno per i fatti dell’uomo e per i misfatti della storia, spesso segnati da belluina violenza. È questo per Attardi un periodo di intensa militanza politica nel PCI e nella CGIL, che tuttavia non mortifica mai il suo lavoro a ruoli didascalici o illustrativi, come è avvenuto invece per Guttuso. D’altronde, questa lunga fase si esaurirà con l’esaurirsi del progetto innovatore e della tensione ideale della sinistra italiana.
Gli rimarrà dentro una amarezza quasi incredula, venata di malinconia. Ma egli eviterà ogni deriva, non rinuncerà al sogno di restituire all’uomo dignità e libertà attraverso la ricerca della bellezza.
Un Gran Teatro
A partire dagli ultimi anni Sessanta, Attardi si accinge a creare un «Grande Teatro» che riassuma i deliri della storia, all’interno del quale ritaglia per sé una più esplicita presenza.
Si tratta di un ciclo scultoreo aperto e possente, dedicato all’avventura della conoscenza, alla conquista del mondo da parte dell’uomo, alla sopraffazione dell’uomo sull’uomo, alla violenza intesa come motore della storia. Parabole e figure paradigmatiche dell’imponente racconto sono i conquistatori delle Americhe (Cortez, Pizzarro, Cristoforo Colombo). A queste si aggiunge la monumentale rievocazione della rivoluzione francese sotto forma di un grande vascello che racchiude molte stanze e molti percorsi. Anche la rivoluzione, dunque, viene immaginata come un’avventura che si snoda in labirintici itinerari per androni di palazzi, scale, stanze e misteri, navigazioni alla ricerca di un uomo nuovo.
Questi gruppi scultorei si compongono di molte statue diversamente componibili e vanno a formare un’unica movimentata rappresentazione della conquista, della sopraffazione, dello stupro. In mezzo alla selva di statue, l’artista si muove or spinto dalla pietas nei confronti degli assoggettati or da furore verso i conquistatori che portano sul volto la maschera deforme della ferocia. Sono i vinti, invece, i portatori della bellezza nella quale è riposta, se ci sarà, una possibilità di redenzione e di salvezza. La bellezza è intesa da Attardi come l’unica cosa capace di superare misteriosamente la violenza e la forza, di imporre una logica diversa rispetto a quella che ha governato finora la storia del mondo. Bellezza intesa come ricostruita armonia dell’uomo con l’altro uomo e con l’universo. Una bellezza, un’armonia che Attardi trova incarnata nel corpo della donna, in particolare nei corpi perfetti delle donne africane, nel loro fascino misterioso. E l’Africa rappresenta, per Attardi, il vero mondo nuovo, ancora ammantato di una non violata verginità.
Amori e predonerie
Attardi passava le notti nella selva delle sue statue, dormiva alla loro ombra, ne scrutava i sempre nuovi profili. E in mezzo a loro si è rappresentato sotto forma di un drammatico, intensissimo Cristo crocifisso, che ha il suo volto assorto e malinconico. In esso Attardi ha mostrato il suo animo non conciliato e sprofondato nel mistero. Una sospesa malinconia era il sentimento che gli segnava l’animo negli ultimi anni, assieme alla indignazione per la stupidità e per la volgarità che vedeva trionfare ovunque, che vedeva corrompere le nuove generazioni. Non poteva sopportare l’immagine svuotata dell’uomo che proponevano i media.
Non si rassegnava. L’idea che Attardi aveva dell’uomo era forte, come lui era un uomo forte: l’uomo condottiero che sapeva piegare il destino, perché credeva in una idea; un uomo capace di intraprendere l’avventura di amore e conoscenza. Un uomo capace di tutto per amore. E tuttavia non si faceva illusioni. Il dissidio non si poteva cancellare.
Il dissidio tra le due facce dell’uomo: quella mostruosa della violenza e quella divina della bellezza racchiusa nel corpo delle sue donne africane, anch’esse carnali e spirituali insieme, così solari e così tenebrose, dee della fecondità e dell’erranza.
La grandezza di Attardi è consistita proprio nel far convivere bellezza e terribilità, politezza greca e rapacità, classicità e corruzione, razionalità e passione, convinto, come ha detto Ragghianti, che l’opera d’arte è luogo e tempo della comprensione dei contrari di cui si compone la storia.
L’unità nella duplicità. Presenza ed estraneità, da cui sgorga una inedita passione per l’avventura umana.