Una possibile risposta al pensiero unico

di Crosti Massimo

È diffusa nella nostra cultura la convinzione che il liberalismo rappresenti, ormai, il pensiero unico dell’Occidente. Tale convinzione ha una sua apparente fondatezza perché negli ultimi vent’anni le teorie liberali hanno avuto una diffusione senza precedenti nelle società occidentali.
Ma, in realtà, è molto discutibile, perché, essendo tante e diverse le declinazioni del liberalismo, può considerarsi una forzatura parlare di pensiero unico anche solo in riferimento al liberalismo stesso. E non solo per questo.
A partire dagli anni Ottanta, ha preso le mosse la critica comunitarista al liberalismo. Comprende inizialmente numerosi autori, tra i quali M.J. Sandel, Ch. Taulor, R.N. Bellah. Essa si sviluppa ulteriormente negli anni novanta, con gli apporti di A. Etzioni, Ph. Selznick ed altri.
Come situare il comunitarismo teoricamente? Quali i suoi aspetti fondamentali? Il comunitarismo non costituisce una posizione illiberale e antidemocratica. Vi ritroviamo, invece, l’esigenza di valorizzare la società civile con le sue istituzioni, e di mantenere l’autonomia individuale senza dissolvere i tessuti comunitari che rendono possibile e sostengono la crescita e l’autonomia individuale stessa.
Il comunitarismo ha indubbie affinità teoriche con il personalismo comunitario di E. Mounier, per la sua attenzione alle comunità intermedie, alle istituzioni della società civile; e, considerando poi la storia del pensiero politico, con quelle elaborazioni che si fondano sulla naturale socialità dell’individuo.

Critica al liberalismo

Una riflessione, quella comunitarista, che si caratterizza sempre più per la sua critica al liberalismo. Ma a quale liberalismo? Al liberalismo tout court? Sicuramente no. L’unico a fare propria una posizione di totale rifiuto della tradizione liberale è A. MacIntyre, che viene considerato, da certa letteratura, impropriamente, nell’ambito teorico comunitarista. Dal suo punto di vista, “in nome della libertà, il liberalismo impone una forma di dominio silenzioso che nel tempo tende a dissolvere i legami umani tradizionali e a impoverire la rete dei rapporti culturali e sociali”.
Ma, se è vero che le analisi di MacIntyre possono aver contenuto, inizialmente, elementi di continuità con quelle comunitariste, nel tempo (più o meno dalla seconda metà degli anni ottanta), è apparsa chiara la loro discontinuità, che egli ha, d’altronde, ripetutamente affermato. E ciò per una serie di motivi. Prima di ogni altro, proprio il fatto che, nei comunitaristi, il rapporto con il liberalismo è molto più complesso. Certamente, essi prendono le distanze dal liberalismo individualista, che possiamo definire per convenzione neoliberismo, ma che sarebbe più appropriato dire libertarismo (anche se il libertarismo comprende posizione molto più estremiste), i cui punti teorici qualificanti sono: l’assolutezza dell’individuo, lo Stato minimo e la massima libertà possibile per il mercato.
Tuttavia, altrettanto certamente, non prendono le distanze dalle richieste fondamentali del liberalismo sociale, da quel liberalismo che fa proprie le ragioni della solidarietà pubblica e, quindi, della giustizia sociale e dello Stato sociale. Esemplare, in tal senso, è la riflessione di Ph. Selznick, filosofo e sociologo, professore a Berkeley: “Il movimento comunitarista contemporaneo è talvolta considerato antiliberale. In effetti il dibattito tra liberali e comunitaristi è il principale argomento della recente filosofia politica. Ma la contrapposizione è troppo netta e può risultare fortemente fuorviante. I comunitaristi di oggi non sono antiliberali, se per liberalismo intendiamo un forte impegno per la libertà politica, la giustizia sociale, i diritti costituzionali, l’autorità della legge, la piena cittadinanza e una speciale attenzione per i poveri e gli oppressi”.


Bene comune

Allora, che cosa del liberalismo non accettano i comunitaristi, oltre alla sua inclinazione individualistica, evidente nelle forme più estreme neoliberiste o libertarie? Del liberalismo i comunitaristi non accettano la sottovalutazione del bene comune. Tale sottovalutazione non significa che, almeno parte del liberalismo, non tenga conto del bene comune. Significa, invece, che tendenzialmente il liberalismo nutre una certa diffidenza verso tale nozione poiché essa sarebbe in contrasto con il pluralismo delle concezioni del bene e delle forme di vita.
Contrariamente ai liberali, i comunitaristi ritengono che una concezione del bene comune sia irrinunciabile in quanto costitutiva di una autentica comunità politica. Tanto per fare un solo esempio, secondo Bellah: “Qualsiasi istituzione, come un’Università, una città, in quanto è o tenta di essere una comunità, deve chiedersi che cosa sia una buona Università, città, società e via dicendo. Nella misura in cui raggiunge l’accordo sul bene che si suppone debba essere realizzato (che sarà sempre discusso e aperto ad un ulteriore dibattito), essa diventa una comunità con valori e fini condivisi”.
A tal fine occorre attivare una sensibilità per il bene comune. E ciò è possibile attraverso una politica che rafforzi le istituzioni della società civile nelle quali si acquisisce la capacità di lavorare per un bene che trascende se stessi, per il bene comune, appunto.
Critica all’individualismo, recupero del concetto di bene comune e rivitalizzazione delle istituzioni della società civile costituiscono i punti chiave della riflessione comunitarista, che rappresenta un tentativo di coniugare alcune istanze fondamentali del liberalismo sociale con le esigenze di una maggiore responsabilità sia personale che pubblica e di un riequilibrio del rapporto tra diritti e doveri, troppo sbilanciato, nel liberalismo, a favore dei diritti.

Bibliografia minima:
w G. Borradori, Intervista a MacIntyre, in G. Borradori (a cura di), Conversazioni americane, Laterza, Bari 1991.
w Philip Selznick, La comunità democratica, Edizioni Lavoro, Roma 1999.
w R.N. Bellah, Per una comunità democratica, in “Via Po”, supplemento di Conquiste del Lavoro, n. 126.