A proposito di diritti umani

di Barcellona Pietro

Per una dichiarazione degli obblighi

Il diritto cresce in una società democratica

«Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa»1…

Dopo cinquant’anni, il preludio di Simone Weil non perde la sua straordinaria attualità: «un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto», scriveva la pensatrice francese; un diritto che non ha alcuna effettualità sociale e politica non vale nulla, come nel caso dei cosiddetti «diritti umani».

L’idea stessa di una dichiarazione dei diritti dell’uomo, assumendo come presupposto l’esistenza di caratteristiche connaturate alla condizione umana che possano essere trasformate in aspettative giuridiche senza mediazione sociale, ripropone una visione «liberal-individualistica» che ignora volutamente il carattere costitutivamente sociale degli individui.

La vera garanzia dei diritti non può risiedere nella loro pura e semplice enunciazione, ma nel modo di essere di una società: in una società democratica, in cui il rispetto della dignità di ciascuno fa parte del modo di stare insieme, i diritti sono garantiti; una società autoritaria o teocratica non potrà mai garantire i diritti, perché il suo modo d’essere eteronomo, conforme ai principi fondanti di una presenza esterna, di una religione o di una discendenza, impedisce di concepire l’autonomia individuale. Non si può concepire l’autonomia degli individui senza autonomia collettiva, senza principi di autorità e autogoverno, per questo la questione dei diritti è strettamente legata a quella della sovranità.

Poiché nelle mie riflessioni ho costruito un’idea di istituzioni molto simile alla struttura del linguaggio, penso che anche le istituzioni siano un modo in cui gli esseri umani si rapportino reciprocamente e che abbiano una funzione comunicativa di codici comportamentali, immagini, regole e distinzioni. Come per il linguaggio, non si può semplicemente affermare che sia un prodotto di azioni umane: è un modo d’essere in cui gli esseri umani si trovano da sempre, producendo, attraverso il linguaggio, altro linguaggio.

Le radici sociali, garanzia della diversità e del diritto

Sono, quindi, convinto che gli esseri umani siano da sempre socializzati e che non si possa supporre un passaggio da uno stato di natura a uno civile: non si può immaginare, come diceva Cornelius Castoriadis, Atene senza gli ateniesi, né gli ateniesi senza Atene; non si può pensare una collettività senza un legame sociale, senza «radicamento», per usare ancora le suggestive parole di Simone Weil: «Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice»2.

Se la costruzione della modernità è stata un processo di sradicamento e omogeneizzazione, oggi assistiamo a una vera e propria apologia dello «sradicamento» che non può non destare preoccupazione, perché se le radici possono trasformarsi in una trappola ideologica, la loro mancanza è certo peggiore; la distruzione delle radici annulla le differenze e gli esseri umani precipitano in un universo indifferenziato. René Girard descriveva efficacemente gli effetti della cosiddetta crisi «mimetica», dovuta alla perdita dell’ordine delle differenze, da cui deriva una violenza reciproca indiscriminata; un fenomeno lucidamente descritto, ancora, da Simone Weil: «Lo sradicamento è di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane, perché si moltiplica da sola. Le persone realmente sradicate non hanno che due comportamenti possibili: o cadere in un’inerzia dell’anima quasi pari alla morte, o gettarsi in un’attività che tende sempre a sradicare, spesso con metodi violentissimi, coloro che non lo sono ancora o che lo sono solo in parte»3.

Nella modernità vi è un germe dissolutivo che può provocare impazzimenti collettivi, come la ricerca di principi di unificazione – razziali, religiosi, etnici – e separazione dall’altro da sé, che possono dispiegarsi in forme violente. Sostenere l’universalità formale dei «diritti umani» senza impegnarsi per garantire le autonomie culturali, la sovranità e l’autogoverno, l’effettualità dei diritti sociali, è solo un modo per tentare di affermare il primato della cultura occidentale.

Governo della politica e affermazione del diritto

Per questo bisognerebbe, al di là di ogni ipocrisia, chiedersi davvero come mai, nel processo storico di questi secoli, i diritti umani siano stati arricchiti dal punto di vista formale ma sostanzialmente negati, nella loro attuazione, a una gran parte dell’umanità. Se cerchiamo di leggere il processo di globalizzazione in rapporto a questa visione universalistica e astratta, ci accorgiamo che, mentre i «diritti umani» vengono proclamati a tutte le latitudini del mondo, la parte di popolazione mondiale che partecipa alla festa del benessere si riduce sempre più. Le promesse vengono reiterate e per di più aumentate nella loro fascinazione propositiva, per essere poi smentite nella pratica.

La desocializzazione del diritto è, dunque, evidentemente simmetrica a una globalizzazione in cui scompare il problema del governo politico. Il concetto di diritti che si autosviluppano sulla base di premesse intrinseche è alla base dell’affermarsi, anche al di là della sovranità statuale, di un sistema tecnocratico (authorities o governance) al posto di un governo politico imputabile a un centro, nonché di un sistema di gestione della conflittualità rappresentato dal primato crescente del potere giudiziario sul potere legislativo.

Come Marx aveva ben spiegato, l’astrazione indeterminata e priva di vincoli contenutistici funziona come effettivo principio di organizzazione della società, fino a essere reale. Proprio la vuotezza dell’astrazione giuridica ha consegnato al condizionamento totale dei rapporti economici il soggetto individuale, condannandolo all’assorbimento progressivo nel meccanismo di circolazione delle merci. Il compimento del progetto della modernità è, dunque, la negazione della sua premessa: la generale producibilità e appropriabilità dei beni economici si risolve in individualismo di massa senza qualità e l’individuo si trova a godere di una libertà senza contenuto, mera contingenza dell’accadere.

La forza deviante e distruttiva della astrazione

«Viviamo in mezzo a realtà mutevoli, diverse, determinate dal gioco instabile delle necessità esterne, che si trasformano in funzione di certe condizioni ed entro certi limiti; ma noi agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, che è impossibile mettere in rapporto tra loro o con fatti concreti. La nostra sedicente epoca tecnologica sa battersi soltanto contro i mulini a vento»4.

L’astrazione non è un modo per descrivere concettualmente la realtà, ma di costruire astrattamente la realtà. Per questo, nonostante la loro ineffettualità, qualsiasi rivendicazione oggi viene attuata in nome di astratti diritti. Per comprenderlo, basta accorgersi della crescente enfasi sulla tutela del consumatore, come categoria sostitutiva del conflitto tra capitale e lavoro. Il consumatore-cittadino è una figura fra le più astratte che si possano immaginare, poiché mette sullo stesso piano un nucleo familiare monoreddito e un manager della finanza, tuttavia l’uso costante di questo concetto ha modificato profondamente la percezione della realtà e persino l’autorappresentazione dei soggetti sociali: il lavoratore non è più l’antagonista del capitale, ma un qualsiasi cittadino che si trova a entrare nel mercato per soddisfare un proprio bisogno. Il mondo è ridotto a «consumo» e tutto il resto diventa antiquato.

Bisognerebbe riflettere davvero sulla potenza reale dell’astrazione, come principio effettivo di regolazione dei rapporti, per poter capire fino a che punto questi «concetti» conformino la realtà umana; più ciascuno di noi si percepisce astrattamente, più si esauriscono le relazioni vitali con gli altri individui e con il mondo. È ormai evidente come le categorie astratte dei «diritti» non abbiano alcuna effettualità e non possano produrre alcuna trasformazione sociale. La prospettiva di una diversa organizzazione della vita può passare soltanto da una presa di coscienza dell’ineffettualità dei «diritti», che produca la ricerca di altre strade per la costruzione di una società fondata sulla valorizzazione delle differenze e il riconoscimento dell’altro da sé.

Pietro Barcellona, docente di filosofia del diritto
facoltà di giurisprudenza, università di Catania

Fonti:
1 S. Weil, (1949), La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano.
2 Ibidem
3 Ibidem
4 S. Weil, (1937) Potere delle parole, in Scritti storici e politici.