L’inquietudine della politica

di Letta Enrico

La soppressione dei partiti

Il testo di Simone Weil, su cui mi è stato chiesto di fare una breve riflessione, è del 1940 e bene ha fatto l’editore Castelvecchi a rilanciarlo, perché, soprattutto di questi tempi, il pensiero di questa giovane grande donna può dirci ancora molto.

La collocazione storica

Il titolo del libretto è alquanto provocatorio, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, come lo è tutto il pensiero di Simone Weil, scomparsa prematuramente per malattia mentre era in esilio a Londra.

Simone Weil precorritrice dell’antipolitica contemporanea?

Non direi! Anzi, queste pagine intense ci forniscono spunti di pensiero, oserei dire «ontologici», sulla natura dei partiti politici e della politica.

Occorre però storicizzare questo testo nell’esperienza politica e culturale dell’autrice. L’obiettivo polemico della giovane filosofa è il Partito Comunista Francese, imbevuto di stalinismo.

La Weil, durante la sua breve esistenza, ha attraversato molte delle esperienze eretiche della sinistra francese ed europea: dal sindacalismo rivoluzionario al circolo dei comunisti democratici (il cui leader era Boris Souvarine, uno dei fondatori del PCF, divenuto poi il primo «eretico» del comunismo d’oltralpe), ai gruppi anarchici della guerra civile spagnola (quelli legati a Bonaventura Durruti).

Forte è la critica al potere nella sua visione politica: contro ogni forma di burocraticismo e di meccanicismo storico, ella contrappone lo spirito di rivolta che è connaturato alla natura umana. Questo «spirito» è sempre presente nell’uomo e lo rende protagonista della storia.

Uno spirito in rivolta

Per la Weil è la «sventura» (che è qualcosa di più della mera sofferenza fisica) che muove la ribellione allo stato di oppressione presente nella storia umana. «La sventura – scrive in Attesa di Dio – è uno sradicamento dalla vita, un equivalente più o meno attenuato della morte, che l’impatto con il dolore fisico o l’apprensione immediata che se ne ha, rendono irresistibilmente presente nell’anima».

Così, a esempio, nella condizione operaia (questo è uno dei temi più cari a Simone) la «sventura» è lo sradicamento della persona dell’operaio.

Come si vede, il suo pensiero è fortemente permeato di pensiero libertario (anarchico). Infatti le appare «come l’unica dottrina sociale capace di rivendicare l’importanza dell’autonomia dell’individuo nei confronti dei grandi apparati e quindi di porre in primo piano il valore morale della libertà individuale»1. Nel suo cammino interiore, Simone Weil incontrerà più tardi il Cristianesimo (ma non si battezzerà mai). Questo porterà la giovane ebrea a un maggior «radicalismo», nel senso dell’esperienza mistica, della condizione umana.

L’atteggiamento della Weil nei confronti della realtà a lei contemporanea è, dunque, quella dell’intellettuale in rivolta contro ogni manifestazione di potere che si appoggi su strutture istituzionali rigide e gerarchizzate.

Poste così le cose, si comprendono le radici profonde, ispiratrici dell’azione politica di Simone Weil. Ma lei ha sempre privilegiato l’impegno in gruppi non partitici.

Il partito totalitario

Ora, ritornando così al Manifesto2, le cui radici, tra le altre, si possono trovare nel pensiero politico di Alain (il filosofo francese, amico e maestro di Simone Weil, di estrazione radicale di sinistra), esso si pone come una dura requisitoria contro il «partito-chiesa» (ovvero quella forma particolare di formazione politica tipica dei totalitarismi del ‘900). Ma il discorso, come vedremo, andrà più in profondità.

Ecco le tre caratteristiche, e la Weil nell’elencare questi punti si pone come un’attenta «fenomenologa» del politico: «Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva. Un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte. Il fine primo e, in un’ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite».

Poste queste caratteristiche – afferma la Weil – «ogni partito è totalitario in nuce». Interessante è quando l’autrice scrive che la terza caratteristica rappresenta il rovesciamento tra fine e mezzo. Ovvero, il partito diventa fine di se stesso contro il bene comune e questo è l’idolatria del partito politico.

Il conformismo dei partiti

Ma vi è un altro punto, questo sì decisivo, contro cui Simone Weil scatena una dura requisitoria, ed è quasi un grido contro il «crimine» di abdicazione dello spirito (ovvero la rinuncia alle sue profonde prerogative) che provoca, secondo lei, il modo di funzionamento dei partiti. Ovvero che «il movente del pensiero» è «non più il desiderio incondizionato, indefinito, della verità ma il desiderio della conformità a un insegnamento prestabilito».

Insomma, per la Weil «i partiti sono organismi costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia». Per cui la «soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro».

Come si vede, una requisitoria senza scampo! Esagerazioni? Forse. Ma se si tiene conto del periodo storico in cui queste pagine sono state scritte, gli anni ’40 del secolo scorso, allora non si può non coglierne il senso profetico della dinamica storico-politico della degenerazione che la forma partito ha assunto nel Novecento europeo.

Il significato del libretto, oggi

Oggi quale messaggio ci consegnano queste pagine?

Non certo quelle dell’antipolitica gridata, che le cronache contemporanee enfatizzano oltre misura.

Mi pare di cogliere un duplice aspetto: da un lato sulla «forma» partito e dall’altro sul senso profondo del fare politica.

Sul primo punto le pagine di Simone Weil sono un monito contro ogni forma di partito carismatico, in quanto esso prefigura una dinamica interna non democratica, alla cui base c’è una «servilità» al pensiero unico del capo (tutti in competizione con chi è il più fedele nell’esporre la volontà suprema, con effetti talvolta anche tragicomici).

E, sempre restando sul primo punto, la riaffermazione del riequilibrio dei mezzi nei confronti del fine della politica. Ovvero, il partito non è un fine ma un mezzo.

Questo allora ci conduce ancora più in profondità. Cioè sul fine della politica.

La democrazia è responsabilità. In democrazia non esistono isole solipsistiche. Esistono obblighi nei confronti di ciascuna persona. Ciò che fa grande la politica è combattere contro la sventura della persona umana. Nei suoi limiti, guai se non fosse così, la politica può essere quella splendida avventura verso quella nuova civiltà sognata da Simone Weil: la civiltà che «rinnega la forza, che affida all’amore l’opera della giustizia e che si apre così al riconoscimento della verità»3.

Enrico Letta, deputato della Repubblica

Fonti

1 Maurizio Zani, introduzione a Simone Weil, Incontri Libertari, Ed. Eulethera, Milano 2001, pag.14.

2 Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Ed. Castelvecchi, Roma 2008, pagg. 70.

3 Domenico Canciani, Simone Weil. Il coraggio di pensare, Ed. Lavoro, Roma 1996, pag. 332.