Crisi nera

di Panebianco Fabrizio

Questa volta non parliamo di numeri. Parliamo di persone, vere, con una storia e una famiglia. Parliamo di un ragazzo che poco tempo fa, in marzo, a 27 anni, si è dato fuoco: non trovava lavoro. Con lui, nei giorni precedenti e successivi, una fila di persone ha scelto la propria fine, per motivi legati alla propria situazione economica.

Eppure erano i giorni in cui il peggio sembrava passato, in cui il fallimento dell’Italia sembrava ormai lontano, in cui «lo spread non è mai così basso da mesi», in cui di fatto sembrava ci si stesse normalizzando. I numeri ci assicurano che la banca centrale europea ha immesso tantissimo denaro a basso costo nel sistema. Con questo denaro abbiamo fortunatamente tamponato, temporaneamente, l’emergenza sui debiti pubblici. Però questo denaro non è andato nel posto in cui serviva: a finanziare le imprese. E senza denaro le imprese soffocano, muoiono. In sostanza, quando nel mercato finanziario qualcosa va storto, le imprese sono le prime a rimetterci: da una parte non trovano più istituti di credito disposti a prestare loro denaro per poter proseguire con l’attività di impresa, dall’altra hanno difficoltà a esigere i crediti che spettano loro da parte della pubblica amministrazione, che paga le imprese con ritardi anche di sei mesi. E questi ritardi possono facilmente comportare problemi di liquidità e anche il fallimento. Un imprenditore, pochi giorni fa si è ucciso: non riusciva a riscuotere dalla pubblica amministrazione 300 mila euro necessari per la sua impresa. Queste forti difficoltà economiche, unite al rapporto stretto tra impresa e imprenditore, rapporto peculiare delle piccole imprese, ha portato molti piccoli imprenditori a provare colpa e vergogna per dover licenziare alcuni lavoratori e a scegliere un gesto estremo.

Le conseguenze più gravi di tutta questa situazione sono però, ovviamente, pagate dai lavoratori. Molti sono stati i lavoratori che si sonoàtolti la vita per motivazioni economiche. Rispetto allo scorso anno si parla di incrementi percentuali a due cifre. La maggioranza di essi sono uomini ultra cinquantenni, che difficilmente riescono a trovare una differente collocazione dopo un licenziamento.

Ma quando a fare questo gesto è un ragazzo di 27 anni vuol dire che non è solo un progetto di vita individuale a collassare ma le prospettive future comuni a tutti. E uscire da una crisi senza una speranza collettiva è compito arduo.

Oggi ci troviamo di fronte a tante sfide legate al debito pubblico, alla disoccupazione, alla produttività. Ma occorre capire che la soluzione non può essere solamente numerica e quantitativa. Per uscire da tutto ciò occorre innanzitutto far rinascere, specie nelle generazioni giovani, la speranza e la fiducia nelle possibilità future. Se ci guardiamo indietro, ci accorgiamo che una delle principali eredità di questi anni, una delle più dannose, è quella di aver tolto ai giovani la certezza di contare e di essere centrali per lo sviluppo della società. I giovani sono stati usati dall’attuale generazione dirigente sempre più come «input produttivo» da sfruttare e da non valorizzare nel lungo periodo. Non si è scommesso sulla loro dinamicità, sulle loro capacità, non capendo che da sempre sono le menti fresche a offrire le soluzioni migliori a problemi nuovi.

Occorre rimettere al centro dell’agenda politica e soprattutto economica questa questione. Perché una nazione di giovani scoraggiati e messi all’angolo nelle imprese, nei partiti, nei sindacati, nelle università non può che trovare tamponi e non soluzioni.