Gente di Sarajevo
Sono arrivato a Sarajevo cinque anni fa, la guerra era già passata, ma le voci di quella guerra correvano ancora. Così ho ascoltato e cercato di capire, di farmi un’idea della situazione sociale, parlando con la gente comune. Ho partecipato a chiacchierate e discussioni, in cui il tema della guerra e del conflitto interetnico non si manifestavano direttamente, ma solo velatamente. Ho creduto così che la gente di Sarajevo volesse rimuovere un conflitto devastante e che il solo rammentarlo potesse scatenare uno tsunami psicologico, sociale. Credevo che la guerra fosse un tabù da rimuovere. In realtà, a tanta gente – non a tutta, ovviamente – non interessa molto il tema delle relazioni interetniche.
Primo perché, per tradizione, Sarajevo è sempre stata multietnica, fin dentro i nuclei familiari ed erede di una storia non troppo lontana (Tito) in cui la religione era prevalentemente confinata al privato. Secondo perché la gente di Sarajevo ha ben altre cose a cui pensare: il lavoro, la salute e l’educazione, queste ultime sempre più squalificate e costose.
Incontro al bar Adnan, a 17 anni ha combattuto nelle trincee attorno a Sarajevo per difenderla e mi presenta i suoi amici, il croato Pavle con cui ha difeso la città, gli amici bosgnacchi – i mussulmani di Bosnia-Erzegovina -, la cui proporzione maggioritaria rispecchia il profilo etnico della città, e gli amici serbi. Mi presenta il mussulmano Kemo, per qualche mese fido scudiero della Tigre Arkan (uno dei maggiori criminali di guerra nell’ultima guerra dei Balcani), ma al bar, dietro una cortina di fumo e al ritmo del nostalgico ex-yu rock, si ostenta grande indifferenza. Si ride e si scherza, poca voglia di rivangare note dolenti. Di notte, le tensioni etniche sembrano alle spalle; nei pensieri, invece, restano gli interrogativi del giorno dopo: il lavoro che non si trova o precario, a che scuola mandare i figli, le medicine che non si trovano. Adnan è mussulmano ma non ha nessun problema nel mettere il figlio alla scuola cattolica.
Tensioni e particolarismi
In realtà il futuro non appare roseo soprattutto perché i politici (è una tendenza…) si concentrano sul loro «clientelismo», un nazionalismo più o meno velato, «dimenticando» i problemi della gente. I giornali sono la loro cassa di risonanza: si parla di come i partiti «a vocazione etnica» coprano ognuno i «propri» criminali di guerra oppure della diatriba sull’ora di religione. Levata di scudi (condita da minaccia di morte) contro il povero ministro dell’educazione del cantone di Sarajevo, reo della proposta di dare agli alunni un’alternativa laica all’ora di religione. I conflitti politici sono spesso strumentali. Infatti, non si spiegherebbe il fatto che due politici che se le danno di santa ragione in pubblico, si ritrovano gomito a gomito alla «kafana» davanti a un caffè. Ognuno ha bisogno di far credere al proprio elettorato che il problema è l’altra etnia e che magari la sua religione è quella giusta. È la scorciatoia per (non) dare la risposta ai problemi concreti. Déjà vu…
Adnan, di cui parlavo poc’anzi, fa parte di quella gente di Sarajevo che stampa e politica preferiscono dimenticare, troppo pericolosa per l’«industria» che si nutre di odio etnico. Questa Sarajevo cosmopolita però, che tanto infastidiva i nazionalisti serbi, non sono riusciti a soffocarla nella morsa dell’assedio, ma il progetto è sempre in agguato, soprattutto se l’Europa continuerà a guardare il divenire con indifferenza. La chiusura di musei e il ridimensionamento di iniziative culturali e la parallela apertura di tanti e nuovi luoghi di culto non sono segnali positivi.
Però a Sarajevo, malgrado tutto, con una disoccupazione alle stelle, con i servizi pubblici per la salute e con un’istruzione sempre più tendenziosa e frammentata (sono famose le «due scuole sotto lo stesso tetto» ma con entrate rigorosamenteàdifferenziate per etnie…), sopravvive lo spirito cosmopolita, la «contaminazione» culturale. Resta la voglia di festeggiare tutte le feste religiose, come si faceva prima, la voglia di scambiarsi i regali a Natale ma anche durante Bajram. Forse cadono i significati religiosi, ma resta la voglia di stare assieme e di far comunità. Uno spirito d’apertura e d’accoglienza si ritrova nella gentilezza per la strada e nell’attenzione che il sarajevese dedica all’altro nel quotidiano, cosa oramai poco comune nelle grandi città d’Occidente. Molte persone, contro il diktat dell’establishment politico, si sono recate volontariamente sui luoghi del disastro per aiutare gli abitanti della Republika Srpska colpiti dalle disastrose alluvioni dell’ultima primavera.
Apre uno spiraglio di speranza il sussulto della gioventù che, in due occasioni negli ultimi due anni, è scesa per strada contro l’immobilismo dei politici. Resta però la sensazione che lo spirito di questa gente, il lato buono di Sarajevo – dobbiamo ricordare che la sua popolazione stremata dall’assedio non ha mai sconfinato in rappresaglie contro le chiese ortodosse della città – potrebbe essere travolto da nuove spinte di parte.
Luca Bonacini, fotografo