L’accoglienza come questione morale

di Bruni Alessandro

Ho letto lentamente, e talora faticosamente, il bel libro di Roberta De Monticelli La questione morale (Cortina Editore, 2010). È divenuto un caso letterario: ben 40.000 copie vendute per un libro di filosofia! Assistiamo a un ritorno dell’interesse per la filosofia, per la conoscenza, per le cose che succedono attorno a noi. È un risveglio all’interrogarsi senza giudicare (regola corrente ormai nei comportamenti di politici e di personaggi dei mass media), ma di chiedersi il senso delle cose. Vi è un vento di novità contro l’opportunismo imperante, vi è un ritorno all’etica e alla questione morale perché non è pensabile strappare, come correntemente oggi si fa, la propria dimensione morale all’esistenza umana.

Roberta De Monticelli insiste su un punto. «Per poter respirare è bene che si ragioni di morale: una società che non lo faccia non è degna di questo nome». Di fronte a questa frase tutti noi concordiamo, senza ombra di dubbio. È tanto apodittica da impedirci qualsiasi deviazione, ma è tanto generale da determinare solo un lieve coinvolgimento personale, quasi fosse in discussione solo la morale degli altri. L’autrice lega la questione morale all’etica, definendo la prima come un problema di libertà e la seconda come la disciplina dei diritti umani. In questa chiave di lettura, la democrazia diviene «chance» uguale per la libertà di ognuno, ovvero l’affermazione inalienabile di ogni individuo preso uno per uno. La questione morale la si deve praticare per darle corpo e consistenza. Nella sua sfera non c’è divorzio tra la parola e l’atto: non può essere solo parola, poiché per legittimarsi ha bisogno dell’atto, dell’azione concreta.

A fronte della questione morale e sociale dell’infanzia deprivata e di fronte a tutte le belle parole, sempre più sentiamo l’assenza sociale delle azioni. Stando alla Fondazione L’Albero della vita, dati 2010, in Italia ci sono 32mila minori che vivono al di fuori della famiglia di origine, vittime di incuria, abbandono, maltrattamenti e violenze. Di questi, oltre 15mila sono affidati a strutture diàaccoglienza. L’incidenza media è di circa 1 minore affidato ogni mille. Nell’80% dei casi l’affidamento è disposto dal Tribunale dei Minori. I minori stranieri rappresentano il 14% del totale di quelli affidati alle strutture di accoglienza. Il 51% dei minori dati in affidamento ha tra i 12 e i 17 anni, il 15,9% da 0 ai 5 anni e il 32% fra i 6 e gli 11 anni. Gli affidi sono aumentati del 60% rispetto agli anni precedenti.

Dal 2008 i volontari di Save the Children fanno base in Puglia e in Sicilia per occuparsi del progetto Praesiudium del Ministero dell’interno. Hanno seguito passo dopo passo l’aumento dei barconi alla deriva, a partire dalla primavera del 2011, quando raccolsero i primi migranti salpati dalla Libia. Da allora, insieme ai colleghi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, hanno contato, in soli 4 mesi, 14 mila disperati, il 10% dei quali piccolissimi o adolescenti. Lo conferma l’organizzazione umanitaria Save the Children secondo cui, da gennaio a maggio 2011, sono arrivati a Lampedusa circa 1.500 piccoli profughi. Molti, soprattutto giovani tunisini e libici, non s’imbarcano sulle orme dei genitori ma soli, sperando nel futuro di cui la primavera araba non è riuscita a fornire garanzie sufficienti. La legge italiana riconosce loro il diritto all’accoglienza in specifiche comunità alloggio e, successivamente, un permesso di soggiorno fino alla maggiore età. Ma, insiste Save the Children, la maggior parte resta «parcheggiata» a oltranza «in strutture inadeguate».

Dati impressionanti in continua crescita, dove l’attenzione al «chiunque bambino» è praticata a parole e stentatamente con i fatti. Non è nemmeno pensabile che a questo problema risponda lo Stato (un non luogo per indicare che ci deve pensare qualcun altro, non noi). È, e sarà, emergenza che deve coinvolgere le famiglie, molte famiglie, come scelta civile di presenza e con il passaggio dalla parola agli atti. Per una coerenza civile di scelta morale, più ancora che come volontariato etico o religioso che sia: purtroppo inteso sempre come azione «a perdere» fatta da chi «ha la vocazione» e che emenda così tutti gli altri dal farsene carico perché, per un assunto indiscutibile, «non hanno la vocazione». Un taglio di dualismo manicheo per non sentirsi in dovere di farsi carico.

Socialmente bisogna che le famiglie, tutte le famiglie, comincino a sentire il dovere civile dell’accoglienza, non solo come atto di volontariato sacrificale, ma come gesto di normale civile convivenza umana. La prima fase è accogliere il grido «Indignatevi!» da Hessel di fronte all’ingiustizia (Hessel S., Indignatevi!, ADD Editore, 2011). Grido agito per molte battaglie civili, molti cortei, molte mobilitazioni. Bisogna mobilitarsi anche nel privato e gridare «Indignatevi!» nella propria famiglia come primo motore di coscienza civile. È in questo modo che nasce, negli individui che vivono la famiglia, la questione morale come valore verso un’infanzia deprivata che si confronta con una famiglia colma di beni affettivi.

Bisogna partire dal diritto del bambino ad avere una famiglia che lo cresca, e questo significa un agire in parallelo tra Stato sociale, pubblico e intervento civile di accoglienza delle famiglie. Per le famiglie questo percorso diviene un cammino di distinzione tra verità e menzogna, tra ethos ed etica, dove l’ethos, ovvero il demone di ognuno, sta inàrapporto con quello degli altri grazie all’etica.

L’etica non si interessa più solo di questioni astratte, ma anche e soprattutto dei «nuovi» problemi del nostro tempo, che riguardano da vicino chiunque, per via della sua professione o del suo impegno, si confronti con scelte difficili. L’accoglienza è una scelta difficile, di confronto, ma è anche una scelta individuale e collettiva, coinvolgente familiarmente come poche e fortemente incidente sull’educazione civile e sulla capacità di relazione dei componenti. Per i figli naturali e per i figli d’anima è un’esperienza ad alto valore formativo al «problem solving» della vita, dove l’esperienza della famiglia si può trasformare nel figlio in assunzione di responsabilità civile.

In Italia si parla spesso di «etica minima come figlia del pensiero debole», espressione che ne mette in evidenza la vocazione pratica e l’esercizio critico. È il terreno «minimo» da salvaguardare contro ogni slittamento morale e contro ogni violenza quotidiana, quella violenza che si annida nel castello di false verità del nostro presente. Contro questo scetticismo etico, il rimedio è difendere la serietà della nostra esperienza morale, smentendo la convinzione che non esista verità o falsità in materia di giudizio pratico, cioè del giudizio che risponde alla domanda: «Cosa devo fare?». Tutto dipende dalla libertà. La vera libertà però è interiore, perché ciò che impedisce alla nostra vita di essere autentica sono le menzogne che diciamo a noi stessi, all’origine di quelle che diciamo agli altri. È la libertà da sé stessi a rendere la vita davvero libera, e dunque autentica.

Purtroppo nel crollo delle grandi utopie ideali e religiose del nostro tempo è difficile che le famiglie siano attratte da pensieri tanto «eversivi» e «controcorrente», ma ormai è tempo maturo perché questi semi possano essere gettati nella nostra società. La rinascita in termini filosofici dell’interesse verso la questione morale del vivere sta a noi, abitanti di questa città, civiltà, cultura, per cambiare il profilo di un mondo troppo sbagliato, troppo falso, troppo irreale. È il nostro debito contratto nell’età matura che ci troveremo a dover restituire nella vecchiezza, nella nostra resa dei conti interiore che risponda alla domanda «cosa ho fatto?».

Trovo di grande coerenza interiore quanto afferma Roberto Mancini nel suo libro La logica del dono. Meditazioni sulla società che credeva d’essere un mercato (Messaggero, Padova, 2011) quando focalizza l’attenzione della relazione tra accoglienza e dono. Dono inteso non tanto come regalo, bensì come «logica ispiratrice dello stile dell’esistenza». Che, tradotta a livello educativo, significa generare, anche attraverso l’accoglienza interiore e soprattutto praticata, una civiltà alternativa a quella della globalizzazione e del mercato e, a livello politico, contribuire alla rigenerazione della vita pubblica e della democrazia attraverso il servizio alla giustizia come fondamento della convivenza sociale.