Confini, frontiere e migrazioni

di Baroni Walter

I confini degli Stati non coincidono con le loro frontiere. È una differenza politicamente rilevante, soprattutto di fronte alle migrazioni che si muovono dal sud al nord del Mediterraneo. Alessandro Dal Lago distingue queste due idee con chiarezza in un libro, Le nostre guerre, scritto qualche anno fa. Il confine politico separa amministrativamente e convenzionalmente gli Stati, mentre la frontiera è la linea strategica dove si cristallizzano temporaneamente gli equilibri di potere tra potenze. Il primo si colloca nell’ordine del dato storico e del diritto, il secondo delle possibilità strategiche e della guerra. Queste due nozioni e il sistema di riferimento che portano con sé – diritto, strategia e guerra – sono di grande rilevanza per cercare di capire quali sono le poste politiche che si giocano attorno al movimento dei migranti verso l’Europa e verso un’Unione Europea sempre più malridotta.

Il modo in cui esse vengono associate o disassociate permette di comprendere il posizionamento degli attori politici, sia a livello nazionale che europeo. Le possibilità teoriche di combinazione tra confine e frontiera non sono molte e sono facilmente esplorabili.

Migrazioni: un frontiera da difendere

In primo luogo, si può procedere alla completa identificazione dell’idea di confine in quella di frontiere. Il confine è la frontiera. È la mossa che definisce l’identità politica del lepenismo, della Lega lepenizzata a sua volta da Maroni dopo l’infezione «romana» di Umberto Bossi, dei vari regimi fascistoidi che si vanno costituendo all’Est dell’Unione Europea, dall’Ungheria di Orban alla Polonia della Szydlo. Le conseguenze di una simile operazione politica sono chiare: il confine diventa una linea bellica da difendere a ogni costo, perché lungo di essa si giocano i destini della Nazione e la potenza dello Stato. Da questo punto di vista, ovviamente, i migranti non sono altro che nemici, da respingere con le buone – polizia e diritto – o con le cattive – trincee, esercito, armi.

: un confine da rispettare

La seconda possibilità è la negazione dell’idea di frontiera a favore di quella di confine. È il meccanismo di generazione dell’«essere-PD» continentale. L’espressione non è felice, ma non c’è altro modo di descrivere il fenomeno di cui parlo. L’essere-PD, infatti, si colloca al di là della linea tradizionale che distingue la destra dalla sinistra politica e che è ormai inadeguata a descrivere i sistemi partitici europei. Il PD, tuttavia, confermando la vocazione storica dell’Italia a essere il laboratorio di discutibili esperimenti politici, realizza in modo compiuto questa condizione. Un partito unico senza una vera opposizione che incorpora nel proprio governo tutto l’arco politico nazionale. Di cui, perciò, si può dire tutto e il contrario di tutto. La sua identità politica consiste nell’affermare che esistono i confini, ma nel negare che siano delle frontiere. I migranti, da questo punto di vista, non sono più nemici, dato che non attentano alle nostre frontiere, ma diventano criminali, visto che violano i nostri confini infrangendo i confini amministrativi, che garantiscono la legalità di passaporti e documenti di identità.

Questa posizione solo all’apparenza è più mite. L’esistenza della frontiera è negata, ma dato che la sua realtà non è cancellabile attraverso declamazioni politiche, essa ritorna a tormentare, come un fantasma, il confine. Confine e frontiera, insomma, sono dissociati in modo psicotico. Da ciò discende tutto ciò che è fastidioso dell’essere-PD. In particolare, nel caso dei migranti, fariseismo legalista e afflato internazionalista posticcio, cioè l’accoppiamento inconsapevole e compiaciuto della retorica dell’accoglienza con il rumore sinistro di manganelli e spranghe dei chiavistelli – cioè, «i migranti sono benvenuti», seguito dalla clausola «purché rispettino le nostre leggi». In breve, se il lepenismo e i suoi gemelli politici vivono in un regime di paranoia spinta, l’essere-PD, invece, si trova in una condizione di schizofrenia euforica – ovviamente, l’euforia nasce dalla strana idea che siamo in un mondo senza frontiere.

: dissociazione tra confine e frontiera

La terza possibilità, infine, consiste nella dissociazione della nozione di frontiera da quella di confine. Questo tipo di movimento non mi sembra abbia prodotto alcuna formazione politica pubblicamente riconoscibile, ma mi sembra molto interessante per gli effetti che può produrre. Innanzitutto, chiude definitivamente la strada che porta a identificare i migranti con criminali e nemici. Nel primo caso perché, privo del peso della frontiera, il confine non è più investito politicamente, ma esiste solo come forma legale. Di conseguenza, il crimine torna ad essere quello che è – un’infrazione legale – che chiunque può commettere, senza nessun sovratono politico. Nel secondo caso, perché la separazione della frontiera dal confine e dalla sua immobilità amministrativa permette di pensare il nemico non come chi attraversa un confine, ma come chi concentra potenza in sé ed esercita il potere che nasce da quella potenza. In questo modo, il nemico diventa una griglia di analisi politica attraverso la quale ricercare i focolai di guerra reali e quelli potenziali, dentro e fuori gli spazi statali.

Naturalmente, questo modo di impostare la relazione tra frontiera e confine ha dei costi. In primo luogo, porta in primo piano la guerra come funzione costitutiva della democrazia occidentale. Non si tratta solo di un orientamento storicoàdi lunga durata, ma, adesso, anche di una facile constatazione di cronaca. Negli ultimi anni la guerra, infatti, lentamente sta muovendosi verso l’Europa. Dalla Tunisia fino all’Ucraina, il continente è circondato da crisi belliche a diverso potenziale esplosivo. In secondo luogo, offre un’immagine triste della politica. Né semplice spazio amministrativo, né luogo dell’utopia, essa si impernia sull’inevitabilità della guerra e sulla scelta dei nemici. Da questo punto di vista, però, il suo carattere aspro e impastato di morte può essere attenuato cambiandone l’orientamento. Non più l’arte del rendere possibile l’impossibile, ma capacità di rendere impossibile il possibile, cioè la morte, la violenza, le guerre e lo sfruttamento. Una definizione negativa e debole, ma che almeno ha il vantaggio di mettere in luce la relazione essenziale che lega la politica al potere, anche quando la prima lavora alla riduzione del secondo.

Walter S. Baroni, Università di Manchester