Goel (parte prima)

di Autori Vari

Vedere le stelle

«Se le stelle sono inarrivabili questo non è motivo per non volerle…
Che tristi i sentieri se non fosse per la magica presenza delle stelle…».
Mario Quintana La speranza serve per dare allegria a coloro che sono tristi.
Essa è una stella. Le stelle non appaiono durante il giorno.
Brillano solo di notte. Solamente quelli che camminano di notte possono vederle.
«Ma le stelle sono molto lontane, in cielo. Come fanno a rendere felici gli afflitti in terra?».
È vero: le stelle sono molto lontane. Sono inarrivabili…
ed è addirittura probabile che molte di queste stelle non esistano più. Ma «che cosa sarebbe di noi senza l’aiuto delle cose che non esistono?» (Paul Valéry).
Quello che non esiste ci può aiutare? I sogni… i sogni non esistono. Eppure è con i sogni che quelli che hanno speranza si alimentano.
Quelli che vedono le stelle a volte sono chiamati poeti, altre profeti. È stato durante una notte molto scura che un profeta ha visto queste stelle inarrivabili: «Lupi e agnelli vivranno insieme e in pace, i leopardi si sdraieranno accanto ai capretti. Vitelli e leoncelli mangeranno insieme, basterà un bambino a guidarli. Mucche e orsi pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno gli uni accanto agli altri, i leoni mangeranno fieno come i buoi. I lattanti giocheranno presso nidi di serpenti e se un bambino metterà la mano nella tana di una vipera non correrà alcun pericolo…» (Is. 11, 5-8).
La speranza vede quello che non esiste nel presente. Esiste solamente nel futuro, nell’immaginazione. L’immaginazione è il luogo dove le cose che non esistono, esistono. Questo è il mistero dell’animo umano: siamo aiutati da quello che non esiste. Quando abbiamo speranza, il futuro si impossessa del nostro corpo. E danziamo. Il poeta che ha scritto questo poema era ubriaco di speranza. E chi è posseduto dalla speranza è gravido di futuro…
La cosa più sorprendente in tutto questo discorso è che la stella inaccessibile ha un volto di bambino… Quelli che sanno ascoltare la melodia del futuro piantano alberi alla cui ombra non si siederanno mai. Ma non importa. Essi si rallegrano pensando che i bambini legheranno altalene ai suoi rami…

Rubem Alves (1933-2014) educatore, teologo, psicanalista, poeta e scrittore di racconti per bambini .

La voce inascoltata della poesia.
L’umanità si divide da sempre in due gruppi: gli scettici e i fiduciosi, i falchi e le colombe. Ma spesso questa artificiosa suddivisione per linee di campo si rivela per quello che è, ovvero un eccesso di semplificazione e un atto di mistificazione. Se infatti dovessero valere davvero tali categorie, dopo aver levato la mano su Abele, Caino avrebbe dovuto avere il sopravvento assoluto su tutta la sua discendenza e sull’intera storia dell’uomo, ma così non è andata: ce lo confermano tutti coloro – e sono tanti – che hanno condotto la propria esistenza all’insegna del «già ma non ancora», uomini come Ernesto Cardenal, Eduardo Galeano, Arthur Miller, Erri De Luca, Giorgio Perlasca, o donne come Madre Teresa, Hannah Arendt, Edith Stein, ma anche interi popoli o etnie oppresse ed esposte sistematicamente al rischio dell’annientamento, dagli armeni agli ebrei, ai Rom del Kosovo.
Se dunque il Novecento, con la coda di questo inizio di millennio, è stata la stagione dei massacri e delle stragi più efferate, ciò nonostante mai l’angoscia è riuscita a innalzare trionfante il proprio nero vessillo sul principio che la nega, nemmeno al cospetto delle situazioni più disumane: basterà leggere i libri di Primo Levi per averne conferma.
La speranza è certamente una virtù preziosa, ma è anche un privilegio di pochi o di pochissimi, perché si tratta di una virtù esigente per chi debba testimoniarla. Pensando ai momenti più neri della storia recente, le guerre e i totalitarismi, credibili «paladini» di speranza li riconosco in un paio di poeti che hanno conosciuto un destino molto diverso: il fante Giuseppe Ungaretti, quando era ancora uno sconosciuto per tutti e scriveva versi d’amore mentre era al fronte, compiendo da soldato, prima ancora che da uomo, l’atto più rivoluzionario e alieno allo spirito della guerra; e il russo di origini ebraiche (benché nato in Polonia) Osip Mandel’štam, confinato da Stalin nell’inferno dei campi di lavoro, che opponeva alla meschinità dei lager l’arte assoluta del nostro Dante, recitando a memoria ad alta voce, in italiano, interi passi della Commedia.
E oggi? Oggi (ma era così anche in passato) sembra impossibile rinvenire barlumi di luce attorno a noi; eppure ci sono, bisogna solo saperli cogliere e coltivarli: è quello che da sempre fa la poesia, che leva la sua voce altissima anche ai nostri giorni, anche nel nostro Paese. Ma quanti vi prestano ascolto? Quanti in Italia hanno letto una raccolta qualsiasi di Pierluigi Cappello? Quanti si sono misurati fino in fondo con l’ustione della sua parola? Quanti hanno il coraggio di immergersi negli abissi illuminati dai suoi silenzi? Quanti hanno a cuore la poesia, e quindi sé stessi? Perché la strada è questa, ed è tutta in salita: solo se saremo disposti a metterci in gioco col rischio di perdere tutto, compresi noi stessi, solo allora avremo chiaro il senso della parola speranza, una parola che appartiene all’uomo per statuto ontologico, anche a prescindere dal radicamento a una fede.

Maurizio Casagrande è nato a Padova nel 1961, insegnante, poeta e critico letterario .

Speranza si nasconde.
Speranza si nasconde. Si nasconde sempre. Si nasconde in un vaso di coccio tra dolori, malattie, fatiche, povertà, ingiustizie. Si ripara più fragile dell’argilla, più debole della debolezza. Speranza si nasconde. Si nasconde sempre. Si nasconde nei volti offesi, patiti, rassegnati. Più diafana ancora degli occhi lucidi, dei corpi accasciati, violati, affamati.
Speranza si nasconde, si nasconde sempre. Si vela del pianto degli afflitti, della disperazione dei disperati. Speranza lacrima più delle lacrime, si angoscia più delle angosce. Grida più delle grida, urla più delle urla. Speranza. Più fragile di ogni fragilità. Più sofferente di ogni sofferenza. Speranza. Piange in ogni pianto. Dispera in ogni disperazione.
Eppure nel soffrire, nel gridare, nel piangere, nell’essere offesi speranza non è mai sola, non lascia mai soli. Speranza rinasce in eterno come il tizzone sotto la cenere quando il fuoco sembra spento. Speranza crede. Che tutto non sia solo dolore, grido, pianto, offesa. Che non sia solo violenza, ingiustizia, morte. Speranza crede una promessa, paga la fede con la smentita, l’inganno, l’illusione, la delusione, la derisione. Costi quel che costi, speranza che non si rassegna.
Speranza crede. Crede in te, spera sempre un noi. Speranza si affida, è tra noi. Forte per tutte le debolezze, giusta per tutte le ingiustizie, equa per tutte le iniquità. Speranza che non si nasconde. Non si nasconde più. Non si nasconde mai.

Franco Riva docente alla Università cattolica del Sacro Cuore, facoltà di lettere e filosofia .

Attesa e speranza tra presente e futuro.
Quanti sono i modi di vivere? In quanti modi siamo attori in un tempo che ci sfugge? Il nostro agire è strettamente connesso con esperienze che si proiettano nel futuro. Ciò che facciamo oggi ha in vista un obiettivo che, se sarà raggiunto constateremo solo domani. Pertanto il nostro agire è sempre incardinato nelle categorie temporali dell’attesa e della speranza.
L’attesa. Il tempo dell’attesa ha una risonanza interiore di fronte a un evento che riteniamo possibile nei suoi sviluppi sia in senso positivo che negativo, l’attesa è motivo di ansia a volte di angoscia che non si placa. La speranza è invece «confidenza» che richiama a sé il passato e il futuro, si inscrive in un tempo che fa dell’essere umano colui che desidera.
Eppure, rifacendoci alle riflessioni di S. Agostino che considerava il genere umano una massa perditionis, pare che la categoria della speranza non sia alla portata degli uomini, ma piuttosto un’illusione, una disposizione d’animo che ricerca modi e tempi di consolazione dalle sue pene, prima fra tutte la sua radicale imperfezione perché segnato irreparabilmente dal peccato originale.
La speranza consegnata agli uomini non consente di fondare la vita con le sue alterne vicissitudini su fondamenta solide, ma fragili, incerte, pronte al naufragio. La voglia di vivere ci spinge a sperare, ma spesso più del consentito. La speranza è davvero l’ultimo bene, l’ultima dea, come dice un detto popolare, per fronteggiare paure, dolori e riempire di senso il nostro vivere? O al contrario è il male più sofisticato, il modo più ingannevole di affrontare il presente? Salvatore Natoli afferma: «Per liberarci in modo adeguato dalle strette del dolore non dobbiamo prendere linee di fuga, non dobbiamo seguire fallaci speranze, ma dominare nel presente la sofferenza. La fedeltà al presente non coincide con l’accettazione dello stato di cose né esclude la possibilità del mutamento. Al contrario lo promuove. È nel dominio del presente che sono custodite le più autentiche possibilità dell’oltre. Questo il terreno ove possono fiorire fondate speranze e non vaghe consolazioni».
Il cristiano, invece, in senso stretto non spera, perché crede. L’uomo di fede non è travagliato da queste inquietudini.
Il vangelo di S. Matteo (7,24-25) in proposito è illuminante: «Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà paragonato a un uomo prudente che ha fondato la sua casa sulla roccia: cadde la pioggia, vennero le inondazioni, soffiarono i venti e imperversarono contro quella casa ma essa non rovinò perché era fondata sulla roccia».
I vangeli annunciano l’avvento del Regno di Dio, annunciano che quel che doveva compiersi si è già compiuto; la speranza cristiana non è pertanto segnata dall’incertezza propria di ogni umano e naturale sperare, ma è tempo dell’attesa del già avvenuto.
Poniamoci dunque l’interrogativo dov’è finita la speranza, non senza però aver risposto alla domanda che cos’è la speranza. Ci soccorre ancora S. Agostino la cui risposta riferita al concetto di tempo ben si accorda anche con la speranza: «Se nessuno me lo chiede lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più».

Giuseppe Cavalieri, sociologo

La rivoluzione della speranza.
La speranza non può essere altro che un atto rivoluzionario ed è un atto radicalmente umano. Potremmo dire che essa sia una responsabilità consegnata all’essere umano, ricevuta da Dio per i credenti o assunta in piena autonomia dai non credenti, ma pur sempre un’azione irrinunciabile.
Erich Fromm lo ha dichiarato proprio in questi termini quando ha scritto il suo libro intitolato La rivoluzione della speranza.
Paradossalmente la speranza oltrepassa gli interrogativi e sublima le forme più umane di indignazione. Essa è, in fin dei conti, il nostro legame con la vita e il nostro contratto con la bellezza dell’esistenza: atto etico e finanche estetico.
Atto di umanità piena.
Dunque, che cosa significa oggi sperare?
Credo che voglia dire innanzitutto recuperare il senso dell’esistenza dalle sue radici più profonde.
Gli esseri umani sono fatti per amare, per essere amati e per generare alla vita. E questo è solo possibile in un contesto che è al tempo stesso laico e religioso. Speranza significa aprirsi alla relazione più significativa, visceralmente più intensa, emotivamente più profonda.
Il resto discende da questa motivazione intensamente amorevole verso la vita, schiudendo e motivando gli orizzonti della giustizia sociale, dell’affermazione della libertà,
della costruzione della pace, dell’ansia profonda di rovesciare tutte le strutture ingiuste del mondo. Davvero essa è apertura alle cose più dolci e contestualmente alle responsabilità più aspre.
C’è una paradossale fratellanza tra l’atto attraverso il quale si genera una vita e quello per cui si apre una battaglia per un mondo «altro», più giusto e degno. In entrambe le opzioni c’è una bellissima e viscerale passione per la vita:
quella piena, quella intera, quella a cui attaccarsi come a una madre infinita, quella per la quale si è anche disposti a correre ogni rischio.
Se Georges Bernanos ha avuto l’intuizione di dire che «la speranza è un rischio da correre», possiamo credere davvero che si tratta comunque di un rischio eternamente vincente.

Egidio Cardini insegnante al liceo scientifico G. Torno di Castano Primo (Mi),

Speranzismo versus speranza laica.
Spero di non morire giovane, ma neppure tanto vecchio e decerebrato da non essere più padrone del mio corpo; spero di essere accompagnato, sino al momento di spirare, dalla comprensione affettuosa di una compagna; spero di non dover mai sperimentare in prima persona l’assurdità della guerra, ma neppure di finire i miei giorni in condizioni di passiva schiavitù; spero di poter assistere, prima di lasciare questo strano mondo, alla scomparsa – o quasi – di carestie ed epidemie dalla faccia della Terra… La lista delle cose sperate è virtualmente indefinita, eppure comprende un pugno di desideri comuni alla maggior parte – se non proprio alla totalità – dei mortali.
Un motto avverte, cinicamente, che «chi di speranza vive, disperato muore»: solo un’esplosione irragionevole di pessimismo? Ritengo di no. Ci sono molti modi di sperare che ci introducono, sia pur cortesemente, nelle braccia della disperazione. Tra queste modalità autolesionistiche della speranza evidenzierei, se mi è concesso un neologismo, lo speranzismo: l’assolutizzazione, decontestualizzante, della speranza. Lo speranzismo sta alla speranza come il fideismo sta alla fede. Proprio come il fideismo, è cieco; non si chiede,
preliminarmente, in che direzione e su quali indizi orientare il proprio slancio; non si interroga sulle implicazioni e sulle conseguenze del proprio atteggiamento. Rischia, a ogni passo, di scambiare l’originale con le copie contraffatte. E, proprio perché si nutre di illusioni, si condanna alla delusione.
Come funzionerebbe, invece, una speranza autentica,
adulta, consapevole? Sarebbe molto attenta a smascherare gli spacciatori di false speranze (i quali, spesso, sono riconoscibili perché vivono esattamente come se non sperassero in ciò che suggeriscono o predicano agli altri). Inoltre accetterebbe volentieri il supporto del buon senso, dell’esperienza,
della competenza scientifica, della rettitudine etica, senza la pretesa di bastare a sé stessa. Dunque suggerirebbe a chi non vuol morire giovane di curare un po’ la salute psico-fisica; a chi non vuol morire solo, di curare un po’ le relazioni affettive e amicali; a chi non vuol più assistere a guerre né vedere morire gente di fame e di malattie, di impegnarsi un po’
in politica. Una simile forma laica di speranza non esclude nessun’altra modalità ulteriore, teologico-confessionale;
anzi, è la sola che può offrirle un fertile terreno dove fiorire.

Augusto Cavadi, insegnante, www.augustocavadi.com

La speranza non è gratis.
Gli dei inflissero una dolorosa punizione a Prometeo per il furto del fuoco da lui compiuto. Che punizione meriterebbero i nostri governanti per aver rubato la speranza del futuro ai giovani? Quale speranza ha mosso i piedi di quel migrante che ha attraversato a piedi il tunnel sotto La Manica, al buio, tra cavi elettrici ad alta tensione e treni ad alta velocità? Da dove nasce il sorriso di un bambino se non dalla speranza di un mondo che lo accoglie con affetto?
La speranza muove il mondo, muove masse di umani verso la ricerca di un mondo migliore; essa si insinua in tutte le manifestazioni umane. Un mondo senza speranza è come un sistema termodinamico in equilibrio, un sistema morto dove non c’è più alcuno scambio tra le diverse parti:
la morte entropica, la morte del sole. Ma la speranza non è gratis, bisogna coltivarla e bisogna contenerla nei vincoli del tempo presente, altrimenti diventa illusione e inganno. Da giovane, era il Sessantotto: credendo nella quasi immortalità del corpo, abbiamo pensato che potevamo prendere a calci la luna o che sarebbe bastata una risata per spazzare via i governi corrotti. Quella è stata vacua onnipotenza, non speranza.
La speranza non è il premio di consolazione dei poveri per le disgrazie e i torti subiti, ma piuttosto un vedere il mondo e pensare che possa cambiare. Questo era anche il senso della politica: progettare insieme il futuro. Ma la politica ha perso la speranza o l’ha ridotta a pura ragioneria contabile: si spera che si abbassi lo spread o che aumenti il Pil, che crescano i consumi, mentre si costruiscono muri.
I muri segnano la fine della speranza: voi di là, noi di qua,
nessuna speranza è consentita, anzi essa è pericolosa.
Senza speranza non c’è ragione che tenga, niente più tiene;
senza ragione la speranza sarebbe cieca. La speranza bisogna difenderla, sostenerla perché le donne e gli uomini non sono mossi dal puro calcolo utilitaristico e neppure pensano di vivere in un mondo privo di senso, dove la pura vitalità amorfa guida l’agire delle nostre esistenze.
Ernst Bloch, nel suo enciclopedico lavoro dedicato alla speranza (Il principio speranza), riporta un’immagine scolpita sulla porta del Battistero di Firenze che simboleggia la Spes, la speranza. Un angelo tende le mani verso l’alto come Tantalo che cerca di afferrare qualcosa: perché la speranza non è certezza, ma un tendere, un andare verso l’alto che non possiamo affidare solo alla ragione, al nostro imperfetto intelletto.
Termino questo breve scritto con una poesia.
E dopotutto ci sono tante consolazioni!
C’è l’alto cielo azzurro, limpido e sereno,
in cui fluttuano sempre nuvole imperfette.
E la brezza lieve […]
E alla fine, arrivano sempre i ricordi,
con le loro nostalgie e la loro speranza,
e un sorriso di magia alla finestra del mondo,
quello che vorremmo,
bussando alla porta di ciò che siamo.
(Fernando Pessoa, da Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares).

Enzo Scandurra, professore ordinario presso la facoltà di ingegneria, università La Sapienza, Roma

Nascere e vivere nel cerchio del sentimento e nella socialità.
Gli umani sono animali comunitari. Gli antichi dicevano che l’uomo era un animale razionale, ma imputavano questa razionalità all’uso del linguaggio. Penso però che noi umani siamo contraddistinti dal vivere insieme «in un modo umano»: è proprio il nostro modo di vivere insieme che contraddistingue la nostra umanità. Anche altri animali vivono insieme, ma noi stiamo insieme in un modo che è umano, diverso da quello di ogni altro organismo vivente.
È per vivere insieme che abbiamo sviluppato linguaggi,
lavori e città, ovvero comunicazione, collaborazione e convivenza. Ma tutto questo emerge da un sentimento profondamente umano che accompagna il nostro comunicare, collaborare e convivere: un sentimento che intreccia amore, fiducia e speranza. È quindi difficile districare da questo sentimento complesso del sentire l’altro,
la speranza, poiché essa rimanda subito alla fede e all’amore.
Noi sentiamo umanità nel sentire noi stessi, la nostra identità, oggetto di amore, fiducia e speranza. Ci amano,
sperano in noi e si fidano. Veniamo al mondo in questo spazio affettivo inondato dal sentimento di qualcuno che ci ama, che si fida di noi e che spera in noi. È questo che soffia in noi l’umanità, un sentimento che impariamo appena nati e che costituisce la nostra prima relazione. Apprendiamo così a nostra volta a rispondere, a fidarci, a sperare, ad amare.
Non possiamo perdere questa relazione sentimentale senza diventare inconsapevoli, irresponsabili.
Viviamo in tempi difficili, disperati. Stiamo perdendo la comunicazione, la città e la collaborazione. O meglio,
stiamo perdendo il gusto del comunicare, della prossimità civica e del lavorare insieme. L’individualismo metodologico e la meccanizzazione ci chiedono di sacrificare i sentimenti:
è la razionalità il loro alimento preferito, e il sentimento diventa solo un disturbo. Per questo siamo disperati, privi di empatia, sempre più incapaci di sentire l’altro, che ci ama,
si fida di noi e spera in quello che siamo. Distinguiamo solo i cattivi: quelli che hanno perduto l’empatia diventano il centro di tutte le nostre conversazioni. Quasi a confermare che l’umanità sta scomparendo.
Chi come Madrugada spera di animare una riflessione,
in qualche modo attiva l’umanità che ancora vive in me e riannoda alla speranza, la fiducia e l’amore. È giusto parlare di speranza, ma essa da sola con ce la fa. Vuole amore e fiducia. È come se la speranza avesse la capacità di attrarre le altre componenti del sentimento.
Grazie allora di avere sperato in me.

Sergio Los architetto, vive e lavora a Bassano del Grappa

Aylan Kurdi senza nessuna Fata Turchina.
A vedere la foto di Aylan Kurdi, appena tre anni, prono e annegato sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, verrebbe da concludere che la speranza è finita, morta con lui.
Eppure, con la potenza evocativa di un’immagine così straziante e quasi intollerabile alla vista e al pensiero, quel bambino è assomigliato nella memoria di molti a un altro,
di pura fantasia e di rimando iconico affatto diverso. È il Pinocchio della versione disneyana del 1940, che dopo aver salvato Geppetto dalla balena giace riverso sulla battigia,
in attesa della fata turchina che lo trasformerà da burattino in ragazzino in carne e ossa.
I cristiani credono che da un corpo inchiodato su due assi di legno sia risorta la speranza per l’umanità intera.
Così come, nell’Antico Testamento, è anticipazione della Resurrezione di Cristo la permanenza per tre giorni e tre notti di Giona nel ventre della balena.
Ma credenti e non credenti, comunque umani, non possono che essere interpellati al cuore della loro anima da un’immagine così potente e dall’enorme numero di donne,
uomini, bambini che si ammassano alle porte dell’Europa.
E, come ci ha insegnato Dietrich Bonhoeffer nelle sue lettere dal carcere di Tegel, un mondo adulto dovrebbe avere la coscienza e il coraggio di operare «come se Dio non ci fosse» e di non aspettare un «Dio tappabuchi» che ci risolva ciò che non siamo capaci di affrontare da noi.
Non arriverà nessuna fata dai capelli turchini a trasformarci, lo sappiamo bene. Quindi, se vogliamo scegliere di non essere più burattini, la speranza diventa un dovere, un imperativo categorico.
Ne intravediamo semi in germoglio e intrecci più saldi in molte occasioni e incontri ed esperienze. In piccoli gesti,
come un pane e dell’acqua offerti in accoglienza a chi arriva dal mare o nascosto dentro la pancia di un camion. In corrispondenze e libri inviati da una scuola italiana a una di Gaza. In preghiere comuni tra appartenenti a religioni diverse e, insieme, in appuntamenti conviviali dove ognuno conosce il cibo dell’altro. Nelle parole e nei fatti di un papa di nome Francesco e nella vita concreta di donne e uomini che non si lasciano travolgere dalla paura, che è sempre consigliera fraudolenta.
È necessaria, ma è già in viaggio da tempo e mai si ferma, una carovana di pacifici che, più spesso in silenzio,
talvolta alzando la voce per richiamar giustizia, proceda nel quotidiano a sanar ferite con la forza della fede nell’umano e gli strumenti del dono, dell’esser generosi, della carità.
La speranza è una strada di molte strade, sulla quale si cammina insieme.

Carlo Ridolfi coordinatore C’è speranza se accade @ rete di cooperazione educativa

Il tempo della speranza.

Dov’è finita la speranza? La speranza oggi è subordinata alla paura. Entrambe, speranza e paura, sono modi in cui ci rapportiamo al futuro. Anche con paura, infatti,
guardiamo al di là dell’orizzonte. Ma vi guardiamo con sospetto, pieni d’inquietudine, considerando un male ciò che può venirci da altrove. Per chi nutre speranze, invece,
il male che temiamo e che dobbiamo temere non ha mai l’ultima parola.
Insomma: la paura, rispetto al futuro, ha un atteggiamento negativo; la speranza, invece, al futuro si apre. Entrambe si rapportano a qualcosa di estraneo. È dell’altro, dell’estraneo che abbiamo infatti paura; è all’altro, all’estraneo che dobbiamo rapportarci con speranza.
Il rapporto con l’altro, però, disturba. Mi mette alla prova,
mi costringe a cambiare idea. Ogni relazione, anche quella più piacevole, ha dunque un lato che importuna. L’ospite,
dopo un po’, mette a disagio. Eppure questo disagio è ciò che mi costringe a confrontarmi con ciò che è nuovo, e che mi fa essere vivo. Solo nella relazione con l’altro, infatti, io posso crescere.
Ma oggi, cosa accade? Accade che molto spesso rifiutiamo l’irruzione del diverso. Vogliamo controllare tutto. L’uso della tecnica e, soprattutto, gli sviluppi delle nuove tecnologie in buona parte ce lo consentono. In tal modo cerchiamo di eliminare ogni imprevisto e di governare le esperienze nostre e altrui. Perciò non c’è nulla di cui avere paura:
ma anche nulla da sperare. E così tutto sembra insapore,
uniforme, vano.
Se andiamo ancora più a fondo ci accorgiamo che, alla base di tutto questo, c’è una particolare esperienza del tempo, che oggi ha preso il sopravvento specialmente fra i più giovani. E questo grazie alle nuove tecnologie, che ci fanno vivere ogni cosa in «tempo reale». Viviamo una sorta d’indifferenza temporale, in cui tutto pare sospeso e concentrato nell’attimo da godere. Non vale la pena, dunque,
impegnarsi per cambiare, per costruire.
Insomma: se ci rifacciamo alla classica tripartizione della temporalità, oggi sembra che il presente prenda il sopravvento su passato e futuro, e li riassorba in sé. Senza futuro,
infatti, non c’è da aver paura. Ma senza futuro non c’è neppure speranza.
Che fare, allora? Bisogna ripensare il nostro rapporto con il tempo. Bisogna ripartire dalla nostra esperienza concreta. Bisogna recuperare quel senso di tempo che si fa in e attraverso quest’esperienza: un tempo come orizzonte di apertura. Solo così è possibile riattivare la speranza perduta.
Solo così possiamo riacquistare il nostro futuro.
È un tempo però non astratto. È un tempo concreto,
che ha un volto ben preciso. È quello dei nostri figli, dei bambini, dell’estraneo che bussa alla mia porta: di tutti coloro che, certamente, c’impegnano oggi, ma che ci consentono di aprirci al futuro. E che ci offrono, così, il dono della speranza.

Adriano Fabris, professore ordinario di filosofia morale dipartimento di civiltà e forme del sapere Università di Pisa

In diversitate coniuncti.
La speranza, con i suoi occhi di un azzurro infinito, non ci ha abbandonato. Altrimenti questa terra si sarebbe già trasformata in landa desolata e tutti noi batteremmo i denti dal gelo. Il mondo non merita ancora la fine proprio perché la speranza continua a pulsare. Dove, di preciso?
Nel «tra-noi»!
Il mondo è un sistema di vasi comunicanti e per quanto ci si preoccupi di sigillare confini e cuori, di mettere fili spinati o innalzare muri, alla fine tutto riguarda tutti. Quando si parla di globalizzazione, molti ancora pensano a un mercato generale, a uno scambio eccitato di prodotti e denari, molti si sentono cittadini del mondo perché hanno un po’ di azioni americane sul conto, un ristorante cinese sotto casa e sulle spalle una maglia di cotone fatta a Taiwan. Ma è ormai chiarissimo, specie di fronte alle migrazioni in corso da un continente all’altro e che ci arrivano in casa, che la globalizzazione comporta il mettere in comune la nostra umanità, di mescolare fortune e sfortune, di riconoscerci tutti abitanti dello stesso minuscolo pianeta.
Le differenze culturali, religiose ed economiche sono impressionanti, ma le somiglianze lo sono ancora di più. E dà stupore scoprire identità e appartenenze ricche e diverse,
in tensione e in dialogo tra loro. In diversitate coniuncti recita il motto dell’Europa ed è una prospettiva di speranza,
l’assunzione della fatica e della bellezza di scoprirsi vicini,
legati, affidati gli uni agli altri. Tutti siamo nati e moriremo,
abbiamo una bocca e due occhi, gli stessi sogni di felicità e tante paure simili, lo stesso sangue che circola e che può fermarsi in un momento.
Siamo tutti sotto lo stesso cielo, non è giusto che gli dei se lo contendano: è il nostro povero cielo. E quando la pena viaggia e il dolore si sparge in ogni vita, il balsamo sta tutto in quell’energia segreta che parte da ognuno di noi,
si somma a quella degli altri, e sposta l’ordine delle cose.
La speranza ci spinge a vivere l’arte dell’incontro: l’Io scende in strada e incontra il Tu, e l’Io e il Tu si sfregano come due legnetti e fanno un fuoco contro la notte, e prendono una tavola e l’apparecchiano, e spezzano il pane e versano il vino…
La speranza è nella fraternità senza terrore!

Giovanni Ambrogio Colombo esponente della «Rosa Bianca», già consigliere comunale a Milano, politico per passione

Speriamo bene!
Dopo aver cenato, le bambine vanno a lavarsi i denti.
Attraverso la porta del bagno filtrano le loro vocine e le buffonerie. Noi restiamo seduti a tavola, gomiti poggiati accanto al piatto, un mozzicone di pane in mano, un acino d’uva in bocca.
«Qual è il programma per domani?» – chiedo io.
Lei inizia un elenco di faccende da sbrigare, bolli da pagare, luoghi dove andare, lavori da completare. Tutto, domani.
Una fiaba alle bambine e, per noi, la tivvù, che ci ricorda a cosa siamo sopravvissuti e cosa potrebbe accaderci. Intorpiditi ci laviamo i denti e ci abbandoniamo al sonno.
In quelle ore al buio, dove i nostri corpi sono inermi,
vulnerabili, dove la nostra coscienza è libera di generare mondi e situazioni, epiloghi assurdi, trame illogiche e vecchi ricordi, ci affidiamo alla speranza. Il sogno e la speranza lavorano insieme per noi, il tutto avviene in segreto, sotto le lenzuola, di notte. Furtivamente il sogno e la speranza ci preparano al domani: il sogno ammorbidisce l’anima e la rende pronta a sperare, ad attendere, il domani. Qualcosa di misterioso ci fa credere che il domani sarà migliore,
noi saremo più gagliardi, dopo aver dormito ci sentiremo più forti, pronti a comandare la nave, a dirigere la banda,
poi la vita ci schernisce, il domani si prende gioco di noi,
ci manipola, ci deride, ci sfianca, ci sorprende, e la sera come dei vecchi pugili ci buttiamo nel nostro angolo, a sputare saliva e sangue, mentre la speranza ci strofina una spugna sugli zigomi e ci istruisce sul dopo, ci ricorda che più andiamo avanti più conosciamo il nostro avversario e dunque abbiamo l’esperienza, l’esperienza ci fortifica, ci rende grandi, forti, più capaci, a volte addirittura saggi,
quindi non abbiamo nulla da temere. Ecco improvvisamente il gong! Uno spintone fiducioso della vecchia speranza e siamo di nuovo sul ring.
Mentre ci difendiamo e attacchiamo, mentre portiamo le bambine a scuola, mentre ci organizziamo la mattinata intensa di lavoro, mentre ci interrompe una telefonata delle bidella che ci invita a tornare a scuola perché la bambina ha vomitato, mentre ci rendiamo conto che anche stavolta nessun programma sarà rispettato e aprendo il portoncino notiamo una busta dell’Agenzia delle Entrate che giace inquietante nella cassetta, un pensiero si fa largo fra le ingarbugliate sinapsi: non è che la speranza ci prende per il culo?
Lei sta lì, buona buona e ci spinge ad alzarci la mattina,
ci porta a vivere nonostante tutto, a immaginare il futuro migliore di quel che è, addirittura ci invita a prendere le distanze dai crimini, dall’odio, dalle guerre e dalla fame,
dai morti, dalla povertà, dal dolore, insomma ci manipola,
un vero e proprio lavaggio del cervello pur di farsi valere pur di potersi fregiare dell’orgoglio di vederci crescere, di spingerci ancora più in là, verso il futuro.
Mentre sbatto il termometro, osservo mia figlia ammaccata dalla febbre; influenza, mi dico, senz’altro è una banale influenza, ed eccola ancora strisciante, la speranza che mi induce a minimizzare, nella prospettiva che tutto presto migliorerà, che la febbre passerà e presto tornerà la tanto attesa routine, la vita insomma. Eppure esistono centinaia di malattie devastanti capaci di distruggere il nostro organismo, di annientare il nostro sistema immunitario, lo so,
l’ho sentito più volte al TG2, tutto inizia con un’innocente febbre, ma poi… niente, la mia cultura, il mio sapere non serve a nulla, la speranza è più forte e contro ogni logica mi fa sorridere, mentre infilo il termometro nell’ascella di mia figlia.
Sogno, speranza e follia. Ora capisco! È questo che mi spinge a sorridere e fa sorridere la piccola.

Stringilo bene e non muoverti.
Ho la febbre?
Forse, oppure ti ha fatto male qualcosa che hai mangiato.
Non è niente, gioia, speriamo bene!

Riccardo Francaviglia, educatore, autore di libri per l’infanzia

C’è un po’ di luce anche qui: per una speranza operosa.
Ma è proprio finita la speranza? Speriamo ancora in qualcosa? Altri cercheranno punti d’appoggio per sperare oggi. Io provo a tentoni a cercare che cosa è in noi l’atto di sperare.
Tutti speriamo. Chi ancora vive è perché spera; se ancora diamo il prossimo respiro, è perché speriamo. Speriamo nel prossimo minuto. Speriamo nell’ignoto. In ciò che è previsto-calcolato-progettato c’è un prendere, un fare,
un raccogliere il risultato; invece sperare è ricevere il non calcolato, l’ignoto, il nuovo. Se ci lamentiamo che non c’è speranza è proprio perché vogliamo sperare. Vivere è sperare.
Speranza vuol dire: c’è una luce laggiù, che fa un po’ di luce anche qui. Un chiarore lontano mi dice che forse c’è una risposta al perché del mio esistere al mondo. Più che una virtù, una forza, la speranza è uno spiraglio nelle nubi,
o un tratto limpido di orizzonte, o un volto amico. Non li ho fatti io, sono venuti. Ma devo coglierli per coltivare il campo della vita.
Sì, la speranza guarda l’ignoto. E dunque, come possiamo dire che non c’è speranza? La speranza è un’intelligenza umile e povera. Sa di non sapere. Tiene aperto e attento lo sguardo, come la mano tesa del povero. Non negate la speranza: potreste perdere un bene. Il naufrago sventola il suo straccio, anche se all’orizzonte non vede nulla. Ma se qualcosa venisse da lontano e lui non agitasse lo straccio,
non verrebbe a lui salvezza. Anche se è uno straccio, è speranza.
Ma quando l’ignoto è più terrificante del presente noto?
O rifiuti il futuro e chiudi qui il tuo tempo, oppure affronti il terrore con le riserve nascoste della vita. Non sapevi di avere qualche scorta di speranza nella bisaccia. È il momento di tirarla fuori.
Sperare è attendere (il verbo spagnolo significa sia sperare che aspettare). Vuol dire anche pregare? Chi attende vive in avanti. Si chiama u-topia, ciò che non ha (ancora) un luogo, aleggia come un parapendio in attesa di atterrare,
se c’è uno spazio sulla terra. Chi guarda in aria in attesa,
ammirando quel volo leggero, è deriso da chi possiede uno spazio in terra, lo recinge, e magari lo arma.
Ma sperare non è solo attendere. Solo se è speranza attiva, è vera speranza. È quella che lavora sulla terra per fare spazio all’idea colorata che vuole orientarci nel nostro cammino.
È proprio finita la speranza? False speranze sono finite:
l’illusione del grande progresso, della libertà facile per tutti, della tecnologia che risolve tutti i problemi, della pace garantita dalla forza. Sono cresciute le paure. La natura diventa una madre insicura, abbiamo guastato i suoi equilibri, i suoi ritmi. Le leggi migliori, frutto della ragione illuminata, non assicurano ordine e giustizia, e pace. La libertà cantata nelle bandiere e negli inni, cercata per secoli nelle lotte di intere generazioni, si risolve nell’astuzia di libere volpi fra libere galline.
Allora, dove è finita la speranza? Che cosa è sperare? È semplicemente vivere, non lasciarmi morire, non rinunciare ad attendere, non rassegnarmi. È quello che stiamo facendo,
amici. In questo brusio di domande alla vita, quel ruscello che scorre nel mondo sotto i fragori delle violenze, c’è il lavoro artigianale della speranza operosa.

Enrico Peyretti, intellettuale, saggista, impegnato nella ricerca per la pace e nel movimento per la nonviolenza

Sperare, speranza.
Sperare è attendere e camminare, guardare e andare incontro. Pensare e progettare. Leggere e scrivere. Inerzia e azione. Agire e riflettere. Sognare e svegliarsi e continuare a sognare assieme a compagni di viaggio che aspirano in grande.
Parlare del presente senza lasciarsi ingannare dal buon senso e dalle cose che si fanno così, che sono così e basta,
definitive. Affrontare i problemi senza forzare la volontà altrui, ma assieme agli altri. Se arrivano a migliaia gli emigranti, la speranza non pensa solo ai problemi, non pensa solo alle opportunità, ma pensa, assieme agli altri che sono protetti, al futuro di chi è senza alcun diritto.
Sperare è parlare del futuro sapendo che non è nelle nostre mani, ma che possiamo renderlo migliore se puntiamo a essere a disposizione di nuove soluzioni, collaborare in progetti comuni, essere concreti, senza smettere di sognare. Se Gino, licenziato, guarda le percentuali della disoccupazione e spera solo in una raccomandazione o nella nuova politica di governo che aprirà nuove opportunità, nutre una piccola speranza; se invece va da Luigi, lui pure disoccupato, e cercano insieme nuove opportunità di lavoro, percorribile anche da altri, senza intasare la società di attività superflue,
nutrono una speranza ben maggiore.
Sperare non è un fatto individuale, ma una presa di coscienza collettiva. Non è una pratica per risolvere il proprio problema, ma per allargare la vista e cercare nuovi compagni che vogliano sostenere il mondo degli uomini, oggi e per il futuro. Il popolo italiano è depresso perché spera che passi la crisi, senza cambiare vita e sistema di vita, confidando nella competizione e non nella condivisione. Poi se la prende con il tempo, le stagioni, con il sud e con i gommoni, quelli che arrivano, non quelli che affondano.

Gaetano Farinelli, presidente Associazione Macondo

La poliedrica e magica ambiguità della parola speranza.
La speranza è inscindibile dalla relazione che, di per sé, è apertura alla solidarietà. Il bene, nelle sue infinite declinazioni, non si vive da soli, né da soli si può pensare, sperare,
realizzare.
«Se insegui la felicità per te stesso non la troverai. Se la cerchi per gli altri la troverai anche per te» recita un poster americano, trovato in una casa povera dalla sociologa Barbara Ehrenreich, autrice del libro Una paga da fame.
Il che dice che la relazione è anche la chiave di una dimensione esistenziale aperta alla felicità.
Nello sviluppo della cosiddetta «economia di relazione»,
si è aperto un nuovo capitolo con il dibattito, molto attuale e intenso oggi in Inghilterra, dove è stato accertato che il 60% dei nuovi lavori nasce dalla relazione e non dal capitale.
Ma bisogna sapere che la speranza si trova più nell’agire che nei desideri. E così ne viene che è anche legata al coraggio (il cui etimo è cor), dove la ragione è spinta dalla passione, in quel dialogo/scontro continuo fra il bisogno di osare e il freno della paura. E quando prevale questa, è inevitabile la rinuncia e la rassegnazione. Un atteggiamento che, per quanto comprensibile in tante realtà, anche giovanili, oggi, va comunque respinto con decisione.

Benito Boschetto, già direttore della Borsa Valori di Milano

La palla vola anche dopo la sirena.
Per me la domanda è sbagliata.
Non «dove» è finita la speranza, ma «se» è finita la speranza.
Che a me fa pensare che la speranza per definizione non può finire. Se finisce, se è finita, non era speranza.
La fede può finire. Eccome.
La carità può finire. Sicuro.
Ma la speranza no.
La speranza è – per definizione, ma non è un fatto di parole, e se lo fosse niente di male, anzi, le parole sono (quasi)
tutto – la speranza dunque è per definizione qualcosa che dura fin che dura la vita. «Un soffio di fiato / un attimo ancora» (i Pooh, che festeggiano i loro cinquant’anni di carriera, mentre io iniziavo la mia, intervistandoli).
Non è la stessa cosa del proverbio che dice «la speranza è l’ultima a morire». Sembra la stessa cosa, ma non è. Un proverbio ottimistico, a differenza della maggior parte dei proverbi, ma non abbastanza. Non abbastanza ottimistico,
no.
La speranza è la penultima a morire. Gli ultimi siamo noi.
Solo quando siamo morti la nostra speranza può morire.
Non so bene dove sia finita dunque la mia, so però che non è finita. Non vi parrà poco, spero.
E qui dovrei dire ancora del basket, dello sport che più di tutti insegna, anzi costringe, ad apprendere la speranza,
i tempi della speranza.
Nel basket, se sto perdendo, posso ancora ribaltare la partita in un milionesimo di secondo. Non solo c’è tempo – e speranza quindi – fino al suono dell’ultima sirena, ma perfino oltre. Se lascio la palla prima della sirena e la sirena suona prima che la palla si sia infilata nel canestro, la palla è buona lo stesso, il canestro vale, la partita è mia, ribaltata, vinta.
Forse, dunque, c’è perfino spazio per la speranza dopo la fine: in quell’attimo sospeso tra la palla in aria, la sirena della fine e la palla che entra nel cesto.
Vuoi vedere che il basket ci insegna a sperare per l’eternità?

Piergiorgio Paterlini, poeta, scrittore, giornalista

Tra le pieghe.
«Finché c’è vita, c’è speranza»: banale, quanto vero.
La speranza si annida, instancabile, fra le pieghe della vita.
Fra le pieghe infinitamente volubili e colorate della vita dei bambini; nella vitalità degli occhi di mia figlia, assetati di conoscere, curiosare, scoprire, sperimentarsi, mettersi
«in gioco».
Fra le pieghe dei sorrisi e degli sguardi dei miei alunni preadolescenti che iniziano a sentire la vita che pulsa, che si innamora, che scoppia; ma anche, e ancor di più, nelle loro pieghe (più rarefatte e affaticate) dove intravedi nascere il gusto di assaporare il «sapere».
Dentro le pieghe, dolorose e addolorate, degli amici la cui vita sbatte contro la malattia, ma poi si trascina e poi si rialza e poi torna a muovere i primi passi, perché c’è ancora della strada da percorrere, in qualche modo.
Fra le pieghe dei pensieri, lenti, di un anziano che si guarda indietro: e capisce, e ancora sorride.
Fra le grigie pieghe del cemento di un marciapiede o di un muro scrostato, dove riesce ad attecchire e ad attaccarsi la colorata vita di erbe e fiori, banali e comuni.

Nicola Currao, insegnante

La barca e la chiave.
Ci sono parole per le quali le parole non bastano. Ci sono parole che hanno bisogno di un’immagine per essere comprese. Una di queste è la parola speranza. L’immagine si trova nel padiglione giapponese della 56 a Biennale di Venezia e porta il nome dell’artista Chiharu Shiota: due barche di legno occupano il centro dell’installazione, mentre migliaia di chiavi pendono da una fitta rete di filo rosso, tesa dalle barche fino al soffitto.
È un’estetica di speranza quella che Chiharu Shiota risolve nella barca e nella chiave, nel loro insolito, inconsapevole ialogo.
La barca parte e torna, la barca brama: è la per-versione del salpare, l’av-versione del mareggiare, la con-versione del riapprodare.
La chiave apre e chiude, la chiave custodisce: è la perversione del serrare, l’av-versione del sorvegliare, la conversione dello svincolare.
La speranza parte e torna, apre e chiude, brama e custodisce: la speranza è la perversione di un futuro irrealizzato,
l’avversione di un presente sospeso, la conversione a un passato redento. La speranza che brama il futuro senza curare il presente è perversa; la speranza che custodisce il passato per offrirlo al presente è capace di conversione.
È una dialettica di speranza. Non più estetica, non più immagine, nemmeno parola. Vita, forse. Ma la vita, del resto, non è qui.

Pietro Tondello, studente di filosofia a Monaco di Baviera e collaboratore al museo per l’infanzia della città (Kinder- und Jugendmuseum)

Il presente illuminato dal futuro.
Quale potere possiede la speranza!
La speranza è il presente illuminato dal futuro.
È ciò che riceve luce dal futuro.
Il domani serve all’oggi e non l’oggi al domani.
Il domani serve per sapere che cosa si deve fare dell’oggi
(Pecoraro).
Nella speranza c’è sempre un po’ di tremore,
un po’ di inquietudine, un po’ di disperazione.
È la sua natura. Vive d’attesa.
È un presente che si capisce alla luce di qualcosa che non c’è ancora.
Non è detto anche di Abramo – si chiede Turoldo – che
«nella speranza contro speranza ebbe fede?».
«La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza» (Péguy).
La speranza è una virtù del presente.
È il futuro che già vive nel presente, l’ultimo che vive nel penultimo.
È la redenzione del presente.
È il presente salvato dal futuro.
È il futuro che ci fa accettare e amare il presente perché,
in qualche misura, già dentro il presente.
È il Nuovo Testamento presente nell’Antico Testamento.
La speranza è la virtù dei profeti.
Nella speranza io sono, in qualche misura, quello che sarò.
La speranza è sempre in un oltre, ma non staccato dal presente.
L’ultima speranza, la grande speranza, è oltre la storia, ma non separata dalla storia.
Muove la storia dal di dentro.
La speranza è la virtù del contadino che esce nel campo,
che ara e spacca la terra dura.
E che semina.
La speranza è anche il seme che affonda nel presente per sbocciare nel futuro.
Che per sbocciare deve essere accudito e mantenuto vivo.
L’avvenire precede sempre il presente. L’intenzione precede l’azione.
Il cammino del tempo avviene da avanti all’indietro.
«È un avvenire che si temporalizza in presenza» (Rizzi).
La speranza è una intenzionalità immersa nel tempo.
È una forma di riconciliazione con il tempo.
La speranza si fonda su una promessa.
Una promessa come lo sono i figli per i genitori.
I figli sono la speranza dei loro genitori.
I genitori costruiscono il loro futuro costruendo il futuro dei figli.
Affidando a loro i propri sogni, la loro ansia di eternità.
Il presente dei genitori è illuminato dal futuro dei figli.
I genitori alimentano la loro speranza alimentando il futuro dei figli.
Tirando su i figli, come si usa dire.
E così gli adulti diventano giovani nella speranza.
Diventano giovani di speranza.
E nella speranza vanno oltre la morte. La loro morte. E semplicemente la morte.
Vincono la morte.
Ipotecano,
prendono in ostaggio l’eternità.
Quale potere possiede la speranza!

Mario Bertin, intellettuale, editore, saggista

Al rifugio Papa.
Al rifugio Papa, alle porte del Pasubio, quest’anno, ci sono andato con due ragazzini e due bambini. I più grandi di retroguardia a parlare dei videogames e i due piccoli, di sette anni, alle mie calcagna, a far domande. Siamo saliti dalla Strada degli Eroi: – Perché sono eroi? – Hanno combattuto su queste montagne contro gli austro-ungarici. – Mia mamma è ungherese… allora sono miei nemici! – No, sono già morti e poi sono passati cento anni. Siamo immersi nelle nuvole; camminiamo cercando qualche frammento di scheggia di granata. Troviamo una pallina di ferro nella terra smossa; ce la passiamo di mano in mano e quando arriva tra le dita di Alì, la lascia cadere e irrigidito dice che al suo paese, in Afghanistan, la gente muore colpita da bombe che sparano palline come questa. Ci racconta della guerra con i talebani e della fuga della sua famiglia in Pakistan. ” Anche mio papà ha camminato su sentieri come questo per venire qui in Italia. Ogni tanto mi racconta che ha tanto camminato e sofferto la fame e il freddo. Io penso che sia stato un eroe!
Continuiamo a camminare e Mattia vuole vedere a tutti i costi una trincea perché ne ha sentito parlare a scuola dalla maestra, che raccontava di una grande guerra di cento anni fa. All’improvviso, uno squarcio di sole e poi le nuvole scompaiono sopra e sotto di noi. Il cielo blu e i precipizi che si perdono nella verdissima vallata ci sorprendono. Ci sediamo sul muretto di un tornante e guardiamo lontano.
L’ossario è sotto di noi e lo indico. ” Ma veramente ci sono tutte le ossa dei soldati morti? Solo degli italiani o anche dei nemici? chiede Alessandro. ” Ma tanto che importa, le ossa sono tutte uguali… risponde Aisha, la sorellina di Alì,
che finora stava sempre zitta. Continuiamo a camminare e si intravede il rifugio poco sopra di noi, i fiori sono un tappeto e cominciano i rintocchi delle campane di mezzogiorno dai paesi vicini e più lontani. Mattia, guardando lontano, quasi ispirato: ” Io la guerra in un posto così bello non la farei mai! Speranza è anche ascoltare i bambini.

Domenico Bedin, sacerdote, presidente Associazione Viale K

La gioia incostante.
La speranza «è una gioia incostante, originata dall’idea d’una cosa futura di cui in qualche misura si dubiti se accadrà».
Questa è la definizione che ci consegna Baruch Spinoza, nella sua Ethica. Se dal punto di vista comune, vivere con speranza appare una cosa bella e buona, per il filosofo olandese non lo è. Si tratta comunque di un’emozione, che può avere il sopravvento sulla nostra parte razionale. La speranza è infatti legata a doppio filo con l’incostanza della gioia ” diremmo, l’insoddisfazione ” e con il dubbio; essa si accompagna sempre alla paura del fallimento. Nulla di male, perché perplessità e dubbi, timori e assenza di certezze fanno parte delle cose non evitabili. Se però, in nome del tentativo di evitare questa precarietà, la morsa di quest’ansia,
ci gettiamo a programmare il futuro come noi lo desideriamo, a predisporre la vita altrui e nostra così da realizzare il nostro sogno, per buono che ci appaia, otterremo un effetto distruttivo. La speranza-senza-dubbi ha preso il nome, nella storia, di razza, nazione, uguaglianza, fraternità universale,
identità, giustizia, felicità, diritto, libertà di mercato. In nome di quelle speranze disincarnate, fossilizzate in dogmi e ideologie, l’uomo elimina uomini, donne, bambini che si frappongono alla completa realizzazione del Programma.
Se questa è la speranza, allora si fa necessario credere nella disperazione; se il futuro è quello programmato da altri,
Color-che-sanno, allora meglio scegliere il solo presente.
Qui e ora, io e te.

Giovanni Realdi, insegnante

Aspettando e sperando un pezzo di carta.
In cosa dobbiamo sperare, dove riporre, trovare, la nostra speranza in un mondo migliore?
La maggior parte degli esseri umani ha paura della morte, dell’abbandono, della solitudine: le azioni conseguenti cercano di dare risposte a questi stati. Attraverso azioni scomposte, inadeguate (vedi l’uso sporco del denaro), o al contrario «riempitive» del vuoto cosmico individuale o sociale, d’amore. E si potrebbe aggiungere altro. La politica, svuotata di senso morale ed etico, è diventata liquida,
tecnologica, ma stupida, inafferrabile, o addirittura comodo strumento per le stesse organizzazioni criminali.
Intanto molti esseri umani – come coloro che sono catturati nel Sinai durante la fuga – sono torturati a scopo di riscatto. Gli aguzzini, per ottenere il riscatto dalle famiglie,
durante la tortura telefonano ai familiari dei loro torturati mettendo in viva voce le urla di dolore atroce.
Oltre a questo dolore, raccontano le vittime, si aggiunge quello di non riuscire a non urlare per cercare di risparmiare i propri familiari da tanta sofferenza, senza contare ciò che significherà riuscire ad avere tanti soldi in termini di sacrifici e ulteriori ricatti. Se alla fine il riscatto viene pagato,
per queste persone si profila un’altra fuga.
I traumi li inseguiranno per tutta la vita.
Quando arrivano in un paese dell’Europa, come l’Italia, possono chiedere la protezione internazionale.
Così può succedere che io abbia la fortuna di incontrare qualcuno di loro.
I rifugiati politici, per legge, quando chiedono «l’autorizzazione all’Italia per ricongiungersi con un proprio familiare» non devono dimostrare, come gli altri stranieri, i famosi «requisiti di reddito e alloggio»: per loro esistono delle facilitazioni. Quindi, per i rifugiati è più facile, o almeno così dovrebbe essere.
In realtà, per mogli, figli, genitori eritrei, afghani eccetera,
ottenere un passaporto necessario per espatriare è un’impresa quasi impossibile, anche quando il figlio ha seguito le vie legali per arrivare in Italia.
Il passaporto, o il titolo equipollente, sembra essere indispensabile.
Così succede che il rifugiato non riuscirà a ricongiungersi con i propri cari, se questi non avranno un passaporto o,
quando va meglio, i soldi per pagarlo a caro prezzo.
La speranza, oggi, per quest’uomo che ho di fronte, sono io. Io che, incredula nonostante tutto, ascolterò ancora una volta dalle autorità italiane la follia che sta dietro e muove certe leggi e certa politica. E solo per questo, oggi, in questo momento, la mia speranza è riuscire a trovare una soluzione ragionevole che non comporti per queste persone un altro viaggio della morte o della tortura.

Miriam Cariani, responsabile politiche per l’immigrazione CGIL Ferrara

Bologna, Michelino, gennaio 2015, ore 22:30.
Mi fai accendere?
Mi spiace ma non fumo; hai freddo?
Sì, molto, non ti andrebbe un po’ di compagnia?
No, ti ringrazio, ti posso invece offrire un caffè?
Lo prenderei ma poi perdo la postazione; ma sì dai, mi stai simpatico e ho voglia di un buon caffè.

Appena entrati nel bar tutti ci guardano, un vecchio e una puttana.

Mi dice: Ci guardano, ti vergogni?
No, non credo. Fai una vita dura?
Ma no, risponde lei, resto sulla strada quanto basta per fare un po’ di soldi, poi ho il mio mondo lontano da questo e là cerco di vivere, e tu?
Mah, sono pieno di acciacchi e di rimpianti per quel che potevo fare e non ho fatto.
Anch’io, ma bisogna pur vivere, e poi non farmi questi discorsi perché una puttana triste non la vuole nessuno. Hai dei figli?
Sì, ma sono grandi, e tu?
Ho lasciato mia figlia da mia mamma in Ucraina, ha due anni e lavoro perché lei non abbia la mia vita. È la sola cosa che mi dà speranza e mi fa andare avanti.
E in cosa speri?
Di farcela ad abbandonare questa vita, di trovare un padre per mia figlia, di ricominciare a vivere diversamente.
È tanto difficile farlo?
Sì, è difficilissimo perché ti abitui al denaro facile, perché non credi più in nessuno, perché perdi la speranza che per te ci sia qualcosa di meglio.

Ci lasciamo dove ci eravamo incontrati. Io penso alle ragioni misteriose della sua scelta e alle parole della vecchia psicologa tanti anni fa «Se queste ragazze non le recuperiamo giovani, imboccano una strada di non ritorno senza speranza. Non bisogna lasciarle sole senza una ipotesi di domani».
Sono i tanti piccoli scivolamenti del cuore che portano inconsapevolmente in una terra arida di mille lucciole e di deboli libertà. Anch’io ho seguito mille lucciole e deboli
libertà. Solo ora vedo i pochi lampioni accesi nella notte della strada percorsa. Davanti ho solo una tenue luce che non illumina abbastanza la strada. Vorrei anch’io non rimanere solo. Tornerò a Michelino, magari per un altro caffè, a parlare del suo domani, per rivedere nei suoi occhi la luce della sua speranza che attenui il mio buio.

Alessandro Bruni, già docente e preside alla facoltà di farmacia università di Ferrara

Speranza è rinominare.
Sono un insegnante di scuola elementare e un poeta. Qualcuno mi ha detto che, prima di essere un poeta che scrive, bisogna esserlo nella vita; fare qualcosa, fare azione, e questa è l’essenza dell’arte e della poesia.
La poesia, allora, di per sé, è un atto di speranza perché rompe il silenzio e prepara nuovi paesaggi. Non sono paesaggi tranquilli, ma quelli devastati dopo il passaggio della marea. Mi piace camminarci con i bambini al fianco. Loro sanno costruirci segni minimi, come dopo il passaggio delle bestie: piccole costruzioni con i legnetti, con le pietre, terra rappresa. Loro non pensano. Fanno. Questo ricreare, dopo la devastazione delle forze oscure – ricreare, sempre, non si sa se per speranza o per scommessa – è un gesto che si ripete fin dagli albori dell’umanità e che spetta agli ultimi arrivati: gli ultimi, nel senso dei diseredati; gli ultimi, nel senso dei bambini che sfidano l’inimmaginabile, che rinominano le cose con lo sguardo degli innocenti.
Forse non dovremmo insegnare le parole ai bambini. Dovremmo indicare solo le cose.
Rinominare: è una parola capace di azzerare tutte le nostre certezze, di ripartire senza pregiudizi. Non credo a una speranza pensata, progettata. Credo a un imperativo che ci fa incontrare in nome di ciò che di più utile e di più bello la razza degli uomini è stata capace di preservare. Tutto il resto è il superfluo del male, la corruzione del mondo che si manifesta nella corruzione delle nostre parole.

Sebastiano Aglieco, insegnante di scuola primaria, critico e poeta, collabora con le riviste: Quilibri, Il segnale, Gradiva, La clessidra, Puntoacapo

Coriandoli di speranza.
Capita a tutti d’inciampare nel futuro, che si presenta inaspettato, sbaragliando progetti, aspettative, sogni.
Le cose accadono e, in fondo, è meglio credere che succedano per un motivo, magari a noi del tutto incomprensibile in quel momento.
Ma il senso si farà strada, mano a mano che si elabora un’esperienza di dolore come un lutto, una perdita, un aborto spontaneo, un fallimento, un’ingiustizia e, forse, questa ci renderà più forti, o più empatici verso gli altri.
Appartiene alla natura delle canne di bambù l’essere incredibilmente alte nonostante il fusto flebile e, se le osservo piegarsi nel vento, le vedo abbandonarsi fiere e fiduciose alle intemperie della natura.
Il segreto della loro altezza che supera i quindici metri sta nei nodi; senza di quelli, quel misero fusto si spezzerebbe al primo colpo di vento.
L’esperienza del dolore è parte integrante della vita dell’uomo, fortifica, mette a dura prova; essa è un nodo che può fare evolvere l’anima arricchendola di consapevolezza, ci ricorda la preziosità della vita, del tempo di cui disponiamo, ricalcola le priorità.
L’ultima volta che ho visto dei coriandoli erano a terra, in una sera di settembre, passeggiando per le vie del centro di Bologna e mi sono chiesta cosa ci facessero lì; certamente c’era stata una festa, poco prima, magari una laurea, un 2122 compleanno, o magari erano lo strascico dello spettacolo di un artista di strada che, senza il suo pubblico, non sarebbe di certo stato nulla.
Ogni rito, ogni festa, ogni discorso, ogni esperienza ha bisogno di essere ascoltata, contenuta e condivisa da quei coriandoli che, presi singolarmente, non avrebbero alcun significato e neppure si vedrebbero.
Anche il dolore, seppur solitario, deve trovare lo spazio per essere dolcemente condiviso, non urlato e sbandierato, ma elaborato attraverso la narrazione della vita che ci riguarda tutti e ci avvicina gli uni agli altri.
E la speranza? Non si è persa per strada. Circola in tutti gli spazi condivisi, in un dialogo a due sincero e accolto, negli spazi pubblici dove i bambini giocano tra loro e si rincorrono, attorno a un fuoco in cui gli adolescenti parlano di sé con franchezza e sincerità.
La speranza è che tutti vengano accolti da un nuovo tempo legato ai cicli naturali e lunari più che alle scadenze e alla fiscalità e che si sciolgano i nodi della società occidentale che ci ha educati tutti a trascurare noi stessi nell’interesse non tanto del prossimo ma della società stessa, dei suoi equilibri, dei suoi consumi e dei suoi interessi.
La speranza parla di un azzeramento del nostro tempo che abbandona la frenesia e la corsa costante senza meta della nostra società consumistica occidentale.
La speranza ci fa guardare negli occhi della gente e dritto nella nostra anima, finalmente libera di seguire la propria natura, nel rispetto del pianeta che ci ospita, degli altri, un’anima consapevole che s’illumina d’entusiasmo quando segue la direzione giusta e riconosce il suo bene e quello comune.
Come può un’anima depressa effondere soluzioni per la felicità? Come è possibile cercare la pace nel mondo se non l’abbiamo intimamente provata facendo la pace con noi stessi, integrando le esperienze di dolore come motivo di crescita, come fanno le canne di bambù? I coriandoli lanciati in aria da un bambino sono il ritratto della semplicità, del vivere la vita godendo il presente, proprio come fanno i bambini, che sono semplici, saggi, trasparenti, che ci sarebbero grati di trovare, dopo di noi, un mondo più consapevole, che non dimentica ma evolve, che crea soluzioni e non si crogiola nel lamento e nel disfattismo.

Lisa Frassi, psicologa, psicoterapeuta, artista

Resurrezione.
Tre giorni di travaglio, e il piccolo non voleva uscire: «È serrato. Il negretto è serrato», diceva l’uomo.
Veniva da un villaggio sperduto nelle campagne.
E il medico andò con lui.
Valigetta in mano, sotto il sole di mezzogiorno, andava il dottore verso le lontananze, verso le solitudini dove tutto sembra in balìa del fottuto destino. E arrivò e vide.
Lo raccontava tempo dopo a Gloria Galvàn: «La donna era già allo stremo, eppure ansimava ancora e sudava e aveva gli occhi ben aperti. Non aveva esperienza di casi del genere. Tremavo senza sapere da che parte rifarmi. Quando, scostata la coperta, vidi un braccio minuscolo spuntare tra le gambe aperte della donna».
Il medico si rese conto di quanto l’uomo avesse tirato.
Il braccino era scorticato e senza vita, uno straccio sporco di sangue secco. E il medico pensò: «Non c’è più niente da fare».
E poi, chissà perché, lo accarezzò. Sfiorò col dito indice quella cosa inerte, e arrivato alla manina, d’un tratto la manina gli si chiuse sul dito e lo strinse con tutta la forza dell’anima.
Allora il dottore chiese acqua calda e si rimboccò le maniche.

Eduardo Galeano (1940-2015), scrittore e saggista uruguaiano
(tratto da Il libro degli abbracci, Milano, Sperling & Kupfer, 2005)

Tre sorelle.
La fede non mi meraviglia, non è sorprendente.
Risplende talmente nella mia creazione.
Nel sole nella luna e nelle stelle.
In tutte le mie creature.
Negli astri del firmamento e nei pesci del mare.
Nell’universo delle mie creature.
Sulla faccia della terra e sulla faccia delle acque.
Nei movimenti degli astri che sono nel cielo.
Nel vento che soffia sul mare e nel vento che soffia nella valle.
Nella calma valle.
Nella valle tranquilla.
Nelle piante e nelle bestie delle foreste.
E nell’uomo.
La mia creatura.
[… ] La carità, dice Dio, non mi stupisce.
Non è stupefacente.
Queste povere creature sono così infelici che a meno di avere un cuore di pietra, come non avrebbero carità le une verso le altre? Come non avrebbero carità verso i loro fratelli? Come non si toglierebbero il pane di bocca, il pane di ogni giorno, per darlo a infelici bambini che passano?

E mio figlio per loro ha avuto una tal carità.
Mio figlio il loro fratello, una sì grande carità.
Ma la speranza, dice Dio, questa sì che mi stupisce.
Me stesso. Mi stupisce.
Che dei poveri figli vedano come tutto avviene e credano che domani andrà meglio.
Che vedano quel che accade oggi e credano che andrà meglio domani mattina.
Questo stupisce, ed è la più grande meraviglia della nostra grazia.
E ne sono stupefatto io stesso.
[… ] Ciò che mi stupisce, dice Dio, è la speranza.
E ne rimango scombussolato.
Questa piccola speranza che ha tutta l’aria d’un nulla.
Questa bambina speranza. Immortale.
Perché le mie tre virtù, dice Dio.
Le tre virtù mie creature. Le mie figlie, le mie bambine.
Sono anch’esse come le altre mie creature Della razza degli uomini.
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
Una madre ardente piena di coraggio O una sorella maggiore che è come una madre.
La Speranza è una bambina quasi invisibile Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno passato.
La fede è facile, il non credere sarebbe difficile.
La carità è facile, il non amare sarebbe impossibile.
Ma lo sperare è difficile.
La piccola speranza procede tra le sue due grandi sorelle, solo non si fa attenzione a lei.
Sul cammino della salvezza, sul cammino carnale, sul cammino scabroso della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada tra le sue due sorelle, la piccola speranza.
Procede.
Tra le sue due grandi sorelle.
Quella che è sposata.
E quella che è madre. E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due grandi sorelle.
La prima e l’ultima.
Che vanno molto in fretta.
Quella che è a destra e quella che a sinistra.
E quasi non vede quella che è in mezzo.
La piccola, quella che va ancora a scuola.
E che cammina Spedita tra le sottane delle sue sorelle.
E il popolo crede volentieri che sono le due grandi a trascinare la piccola per mano.
In mezzo.
Tra loro due.
Per farle fare questo cammino scabroso della salvezza.
I ciechi che non vedono il contrario.
Che è quella in mezzo a trascinare le sue grandi sorelle.
E che senza di lei loro non sarebbero niente.
Se non due donne già avanzate in età.
Due donne di una certa età, sciupate dalla vita.
E lei, la piccola che trascina tutto.
Perché la fede vede solo quello che è.
E lei vede ciò che sarà.
La carità non ama se non ciò che è.
E lei, lei ama ciò che sarà.

Charles Péguy (1873-1914) scrittore, poeta e saggista francese
(tratto da Il portico del mistero della seconda virtù, 1911)

Il congegno speranza: istruzioni per l’uso.
Speranza ha un suono musicale in tutte le lingue: espoir, hope, Hoffnung… È una parola così bella ed esigente da avere persino ispirato una lingua tutta per sé, l’esperanto, come se gli idiomi esistenti fossero inadeguati a coglierne il senso più profondo e sfuggente: la condivisione. L’utopia dell’esperanto sembra dirci che le aree semantiche della speranza, quelle elencate nei vocabolari, non bastano a definirla con esattezza. Non si tratta, insomma, solo di fiducia, virtù, diritto, statistica, preghiera e gioco di dadi.
La spes è la massima risorsa biologica della specie umana: non l’ultima dea ma la prima, quella che ci tiene in piedi e ci sprona a decidere e agire. È l’essenza di ogni mutamento, la molla che spinge al futuro.
L’esperantismo suggerisce un aspetto cruciale ma trascurato della speranza: essa è incompatibile con l’isolamento, rifiuta le barriere. E che altro sono le lingue degli uomini se non barriere evocanti, a loro volta, barriere ulteriori? Certo puoi sperare anche da solo, ma l’esperienza insegna che si ottiene di più sperando in compagnia: con qualcuno, meglio se con tanti.
Guardati dalla retorica, però. Niente poesia. La speranza è un dispositivo pratico, che presta i suoi favori a condizione che lo si usi in modo appropriato. È come il tostapane, l’auto e lo sciacquone: se non sai come maneggiarli, non funzionano. La preghiera? Consolante, ma prova a pregare gli spaghetti di cucinarsi da sé. La speranza è un congegno che esige di essere attivato con cognizione di causa.
La sua efficacia dipende innanzitutto dall’umore: non del suo, ma dell’utente. La speranza non sopporta la rassegnazione, la passività. Ama l’azione, freme come un turbo.
Il suo principio attivo è di natura etica e sociale. In quanto tale, coinvolge non solo lo sperante ma anche il contesto in cui spera.
Sperare in un terno a lotto è una banale sfida alla statistica.
Uscire dalla fame è speranza più pressante e concreta: non te la cavi grattando una casella o affidandoti alla Smorfia.
Senza una strategia e senza autocritica, la speranza rischia di scadere nell’autoinganno sentimentale, talvolta nella superstizione. E una strategia che si rispetti non può prescindere dalle relazioni col prossimo. Se speri nel raccolto e la stagione ti tradisce, prova a organizzarti con coloro che hanno subìto la medesima delusione: l’unione fa la forza.
Se speri nella guarigione da un malanno, non soffrire da solo ma confida in chi ti è vicino. Se speri di essere amato e collezioni uno smacco dopo l’altro, prova a fare una severa autodiagnosi e ad aggiustare le parti di te che inducono i corteggiati a respingerti.
Se speri di diventare il re di Scozia, non fidarti delle streghe né di Lady Macbeth; ma nemmeno di te stesso, giacché lo scopo che ti sei prefisso, e la strategia con cui intendi raggiungerlo, collidono con l’etica della convivenza, e dunque della speranza.
La speranza è scambio. Se agli altri non concedi speranza, con che faccia oseresti sperare in proprio? Se ti mostri duro e inflessibile con chi ha bisogno di te, vuol dire che nella speranza non credi, e la tua negazione vale anche per il tuo personale diritto a sperare.
La speranza è favorevole all’amore universale, anche se l’amore universale è un’astrazione retorica, un cliché. Ma se invece di pensare all’amore universale ti concentri sulla sopravvivenza della specie, che è un concetto analogo ma decisamente più concreto, capisci che lo scambio di speranze produce più futuro di quanto possano prometterne la solitudine, l’egoismo, l’ostilità e la guerra.
Il traffico di speranze è sempre intenso. Ci sono momenti d’ingorgo incontrollabile. Momenti in cui l’addensarsi di aspettative supera di gran lunga la disponibilità di traguardi.
Opporsi alle speranze altrui, in tali circostanze, espone l’intera collettività a sanzioni pesanti. Sanzioni decretate non dai governi, ma dalle leggi che regolano la stabilità della specie umana nel suo insieme. La xenofobia, per esempio, non aiuta né lo xenofobo né i suoi bersagli; non sostiene nemmeno l’economia e le borse del mondo, se è in quelle che riponi la tua brama di felicità.
Chi spera di più vince su chi spera di meno, anche se molte sono le vittime dei grandi sogni di riscatto. Chi spera nei diritti fondamentali, per esempio il diritto di esistere, vince su chi spera di farsi uno yacht.
È solo questione di tempo.

Pasquale Barbella, copywriter e blogger

La strada di campagna.
Alla proposta dell’amico per una riflessione sulla speranza ho ricordato gli appunti del mio Odiario, vecchio di oltre venti anni: «Se tutto sembra mancarti ti resta pur sempre la disperazione… La speranza inganna è l’apparenza l’ultima a morire… La poca utilità di aver mangiato un frutto che fa distinguere il bene dal male, mentre la sola capacità utile nella pratica è quella di distinguere il male dal male minore…». Non ci sono parsi adatti.
Cinque anni fa a una sorta di dovere della speranza mi aveva richiamato uno scritto di Francesco Ciafaloni: «Per consentire ai giovani di avere una speranza, qualche idea generale, per un futuro che non sia una corsa di topi, bisogna averla. Sono i giovani a pagare il prezzo più pesante oggi. I precari non sono qualche migliaio, ma qualche milione; la formazione, la tenuta morale, la libertà di questi milioni di ragazze e ragazzi sono un dovere per loro e per noi vecchi».
E il pensiero dei giovani, a cominciare da mia nipote, mi ha fatto sentire insufficiente ripetere con Guglielmo d’Orange che «Non c’è alcun bisogno di speranza per intraprendere, né di successo per perseverare».
Ho ripescato allora, parlando ad amici della nonviolenza, un proverbio indiano: «La speranza è come una strada di campagna, che si forma perché la gente inizia a percorrerla».
E a percorrere Il cammino della speranza (titolo di un vecchio film di Pietro Germi in argomento) sono tanti migranti, intere popolazioni che fatichiamo a vedere.
Una donna ha detto, alla Germania e all’Europa, che a questa speranza bisogna dare un risposta. Automobili hanno attraversato il centro del vecchio continente per recare soccorso ai migranti in cammino. Perfino il nostro teatrino politico, come l’ha definito un noto burattinaio, è parso – ma non è durato molto – abbandonare il repertorio Grand-Guignol: rappresentazioni, come si sa, di fatti terrorizzanti per suscitare angoscia e orrore, ovvero, da farse di un’esasperata comicità. A destra, una collaudata compagnia di giovani scellerati e vecchi malvissuti propone, con successo, migranti – mutanti, mostri orrifici per tutti i gusti; a sinistra, giovani, un po’ meno scellerati, sono intenti a rottamare vecchi un po’ meno malvissuti.
Non forse la disperazione, ma la disperanza sembra dunque restarci: l’idea ormai assuefatta della sottrazione di futuro, scrive Mario Calzigna, e contro questa resa propone Rivolte del pensiero. Bisogna provarci.
A me, proprio ora, è giunta la richiesta di scrivere un intervento per una pubblicazione, rivolta soprattutto ai giovani, ispirandomi a un discorso, proprio ai giovani, di Alex Langer, sei mesi prima del suo brusco congedo: Quattro consigli per un futuro amico. Non mi posso sottrarre e propongo il medesimo esercizio agli amici di Madrugada.

Daniele Lugli, avvocato, già difensore civico alla Regione Emilia Romagna impegnato nel Movimento Nonviolento

Quattro consigli per un futuro amico.
Parlando di un possibile futuro amico vorrei sottoporvi soprattutto due aspetti che penso siano importanti per renderci più amichevole, meno ostile, più vivibile il futuro e forse anche il presente.
Dei grandi impegni, delle grandi cause, credo che quella per la riconciliazione con la natura, sicuramente abbia oggi un posto importantissimo.
Mi sembra che oggi ci sia bisogno che tra coloro che non cercano un impegno semplicemente effimero, che gridano libertà quando tutti gridano libertà, che gridano giustizia nel momento in cui tutti gridano giustizia, che gridano magari anche pace nel momento in cui tutti gridano pace o democrazia o solidarietà, che un’attenzione particolare e anche controcorrente, anche al di fuori della moda, vada all’integrità del creato, se volete, alla reintegrazione della biosfera.
Una vita semplice.
Molti possono chiedersi: ma reintegrazione, riconciliazione con la natura, cosa vuol dire? quali precetti devo seguire? Chi mi dà le indicazioni affidabili su che cosa fare, per quali animali in pericolo di estinzione bisogna battersi? Quali alberi preservare? Io credo che il messaggio di fondo della riconciliazione con la natura che noi oggi dobbiamo proporci e possiamo proporre, senza tema di essere smentiti, è sostanzialmente uno, cioè quello della vita più semplice. Quando quasi duecento anni fa Kant si preoccupava che tipo di messaggio morale trovare per tutti, credenti o non credenti, cioè che tipo di regola dare o formulare perché fosse valida per tutti, fosse indiscutibile, ha trovato alla fine questa regola: cerca di comportarti in modo tale che i criteri che ispirano la tua azione possano essere gli stessi criteri che ispirano chiunque altro. Questa è stata alla fine la formulazione più laica e più universale che ha trovato. Se noi guardiamo oggi la situazione del mondo, un mondo popolato da più di 5 miliardi di persone, dovremmo per lo meno dire che i criteri che ispirano il nostro agire, siano moltiplicabili per 5 miliardi; cioè cercate di sporcare quanto 5 miliardi di persone potrebbero permettersi di sporcare; cercate di consumare energia quanto 5 miliardi di persone possono consumare; cercate di deforestare quanto 5 miliardi di persone possono permettersi di deforestare.

Diversi noi
Credo che il primo e fondamentale messaggio ecologico che oggi si possa dare è semplicemente quello di una vita semplice, di una vita che consumi poco, di una vita che abbia grande rispetto di tutto quello con cui abbiamo a che fare, compresi gli animali, comprese le piante, comprese le pietre, compreso il paesaggio, cioè tutto quello che ci è stato dato in prestito e che dobbiamo dare agli altri.
Parlando di un possibile futuro amico vorrei sottoporvi soprattutto due aspetti che penso siano importanti per renderci più amichevole, meno ostile, più vivibile il futuro e forse anche il presente.
Un primo aspetto che mi permetto di offrirvi come possibile contributo a un futuro amico ha a che fare con la conciliazione o con la convivenza. Ed è non la convivenza con la natura ma la convivenza tra culture, la convivenza tra diversi noi, cioè tra gruppi di persone che non si identificano, pur vivendo nello stesso territorio.
Oggi in Europa, e in particolare nelle grandi città, la compresenza di persone, di lingua, di cultura e di religione, spesso di colore della pelle, diversi, sarà sempre meno l’eccezione e sarà sempre più la regola.
Io credo che, semplificando, abbiamo due scelte: una è quella che ultimamente è diventata famosa col termine epurazione etnica, cioè ripulire ogni territorio dagli altri, rendere omogeneo, rendere esclusivo, etnicamente esclusivo un territorio, e quindi dire che chi lì non diventa uguale agli altri, perché vuole coltivare la sua diversità o chi semplicemente viene cacciato da lì, cioè non gli viene neanche permesso di integrarsi, se ne vada, con le buone o le cattive, fino allo sterminio.
L’altra possibilità è quella che ci attrezziamo alla convivenza, che sviluppiamo una cultura, una politica, un’attitudine alla convivenza, cioè alla pluralità, al parlarsi, all’ascoltarsi.
Ora credo che finché non costava, finché era una moda, il plurietnico, il pluriculturale, era anche bello, faceva chic. Per esempio l’Italia era un paese in cui tutti i grandi giornali erano pieni di sdegno sulla xenofobia altrui: gli svizzeri hanno fatto un altro referendum xenofobo, in Germania ci sono stati episodi di intolleranza xenofoba, in Francia ecc. Oggi ci accorgiamo che questo diventa tragicamente realtà anche da noi; forse per la semplice ragione che prima gli altri non li avevamo tra noi e quindi era facile sopportarli finché stavano lontani. Una volta che ci sono, diventa meno facile. Allora credo che promuovere una cultura, una legislazione, un’organizzazione sociale, per la convivenza pluriculturale, plurietnica, diventa, oggi, uno dei segni distintivi della qualità della vita, una delle condizioni per poter avere un futuro vivibile.
Credo che la comunicazione interculturale non debba avvenire in modo volontaristico e quasi a denti stretti come un obbligo, ma diventare anche un piacere. Penso che nella convivenza tra diversi noi, sia molto importante che ognuno di questi noi non si senta in pericolo, cioè non si senta minacciato. Quando si sente minacciato è vicina la tentazione della violenza e non c’è conflitto più coinvolgente di quello etnico o razziale o religioso, che subito forma fronti, schieramenti difficilissimi poi da riconciliare. Quindi credo che oggi uno dei grandi compiti di chiunque abbia voglia di un futuro amico sia proprio quello di diventare in qualche modo, nel suo piccolo, pontiere, costruttore di ponti del dialogo, della comunicazione interculturale o interetnica.

Modalità per un futuro amico
Questi sono due aspetti che io volevo sottoporvi per un futuro amico. Vorrei adesso indicarvi brevemente quattro piccole modalità che possono aiutare in questo.
La prima riguarda la credibilità delle parole. Io credo che oggi ci sia pochissima fede, giustamente, nelle parole, perché è difficile distinguere la notizia dalla pubblicità, la realtà dalla fandonia, che se ripetuta autorevolmente e televisivamente diventa realtà essa stessa.
È credibile chi può dire «Vieni e vedi»; è credibile chi ha un’esperienza da offrire alla quale ognuno può partecipare, che ognuno può condividere. Dove non c’è un «vieni e vedi» io sarei molto diffidente. In questo senso la televisione, è n vedi sì, ma è un vedi mediato, tanto che non ha nessuna verifica possibile.
Un secondo criterio, lo chiamerei il criterio dei cinque giusti e si rifà alla trattativa sulla distruzione di Sodoma e Gomorra. Vi ricorderete che Abramo tentava di non far distruggere Sodoma e Gomorra sostenendo che tanti giusti sarebbero morti nella catastrofe insieme ai malvagi. Allora comincia una lunga trattativa perché gli angeli dicono: forniscici un elenco credibile dei giusti, almeno cinque tirali fuori, fuori i nomi perché altrimenti non ci crediamo.
Penso che se noi non vogliamo diventare prigionieri delle nostre illusioni, almeno una minima verifica sui cinque giusti dovremmo farla; una verifica se anche altri ritengono importanti le cose che a ognuno di noi sembrano importanti e mettersi insieme con altri che le condividano, prima di andare a urlare in televisione.
Un’altra modalità per costruire un futuro amico e paritario è quello di concludere anche magari molto formalmente dei patti. Io credo che oggi ci siano molte forme di patto, molte forme di alleanza che possono essere concluse e che restituiscono anche dignità e giustizia a chi apparentemente è il ricevente. Pensate alla grandiosa esperienza di Emmaus, dove dei cosiddetti scarti umani delle comunità di Emmaus, considerati tali da molti hanno imparato a restituire prima dignità agli scarti, ai rifiuti, raccogliendoli, separandoli, riutilizzandoli, mettendoli in circolo, e quindi riguadagnando dignità anche loro. Credo che oggi il modello dell’alleanza del patto di una reciprocità, sia non solo una condizione molto importante ma possa essere perseguita molto concretamente perché siamo a un livello della comunicazione facilitata.
L’ultimo aspetto che oggi vedo molto sottovalutato riguarda la relazione tra Nord del mondo rispettivamente col Sud e con l’Est. Oggi chi è di sinistra è molto tifoso del Terzo Mondo; chi viceversa viene da una tradizione più di destra, è invece più attento all’Est, perché è stato a lungo educato alla solidarietà con chi era oppresso dal comunismo.
Quindi oggi rischiamo di riprodurre, anche dopo la caduta del comunismo, queste solidarietà su binari differenziati o col Sud o con l’Est. Parlando di alleanze, di patti, credo che sarebbe una buona strada da seguire che noi, nelle cose che facciamo, cercassimo di avere partner all’Est e al Sud e che li facessimo anche conoscere tra di loro, anche perché spesso sono in competizione, perché entrambi ci corteggiano.
Sono arrivato alla chiusura e vorrei tentare il riassunto, con una variazione su un motto molto conosciuto. Voi conoscete il motto che il barone De Coubertain ha riattivato per le moderne Olimpiadi, prendendolo dall’antichità: il motto del citius, più veloce, altius, più alto, fortius, più forte, più possente. Citius altius e fortius era un motto giocoso di per sé, era un motto appunto per le Olimpiadi che erano certo competitive, ma erano in qualche modo un gioco. Oggi queste tre parole potrebbero essere assunte bene come quinta essenza della nostra civiltà e della competizione della nostra civiltà: sforzatevi di essere più veloci, di arrivare più in alto e di essere più forti. Questo è un po’ il messaggio cardine che oggi ci viene dato. Io vi propongo il contrario, io vi propongo il lentius, profundius e soavius, cioè di capovolgere ognuno di questi termini, più lenti invece che più veloci, più in profondità, invece che più in alto e più dolcemente o più soavemente invece che più forte, con più energia, con più muscoli, insomma più roboanti. Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo.

Alexander Langer (1946-1995) tra i fondatori del partito dei Verdi italiani, leader del movimento verde europeo, promotore di numerosissime iniziative per la pace, la convivenza, i diritti umani, contro la manipolazione genetica e per la difesa dell’ambiente (tratto da Convegno giovanile di Assisi, Natale 1994)

La ginestra.
Faccio fatica a credere nella Speranza come virtù cristiana o somma conquista laica materialista. La Speranza scolpita sulle lapidi degli «uomini illustri», quella che – insieme alla fede – accende l’animo dei Forti e rasserena gli ultimi istanti dei Martiri. Quella che pare una premessa indispensabile alle grandi azioni e alle epiche vittorie. Perché, mi chiedo, siamo affezionati a una speranza così astratta e retorica che forse neppure esiste? Se appena ci pensi, se provi a rintracciarla, a misurarla nella tua vita concreta, ti accorgi come la speranza sia fatta di tutta un’altra pasta. Non è facile indovinarne gli ingredienti, darne una definizione precisa. Troppo variabile e ventosa la speranza; troppo statica, marmorea, qualsiasi definizione.
La natura matrigna la nega agli uomini (Leopardi: «a te anche la speme nego, mi disse, anche la speme…»), ciò nonostante, dopo ogni crisi profonda, ogni sconfitta, ogni notte scura, e a volte contro ogni evidenza, gli uomini (compreso l’ultimo Leopardi, quello della Ginestra, il fiore del deserto) hanno la straordinaria capacità di reagire e «ricominciare da capo», di riprovare, di tornare a sperare.
Secondo Camus è il tormento di Sisifo, destinato a provare e a fallire in eterno, ma né lui né altri sono riusciti a spiegare da dove arrivi quella molla, quella riserva di energia, quel «resto di volontà» che ci fanno riprendere il cammino.
Improvviso, inatteso, spunta il fiore nel deserto; perché la speranza – quella concreta di cui facciamo quotidianamente esperienza, non quella astratta dei martiri e degli eroi – è incerta, tentennante, intermittente, imperfetta, spesso impaurita. Perché sperare non significa mettere a tacere la paura – speranza non è spensieratezza – ma convivere con le nostra ansia e la nostra paura, ingaggiando una battaglia continua e dall’esito sempre incerto.
Non esiste, perlomeno nessuno l’ha ancora trovata, una formula per far spuntare il fiore della speranza nel deserto della disperazione. Sarebbe bello. Sappiamo però che la speranza è una malattia contagiosa. Misteriosamente, la mia speranza aiuta a nascere la tua, la tua speranza impollina la mia come un’ape operosa. Contro questo contagio che minaccia l’ordine internazionale e la disciplina del mercato, i poteri forti, i potenti del mondo, e anche la nostra pigrizia, hanno messo in campo armi pesanti: stati di polizia e gas soporiferi.
La ginestra della speranza, contro ogni violenza, continua ad attecchire.

Francesco Monini giornalista, lettore, scrittore.

La spiranza di Caliddu.
Veni spiranza mia,

veni spiranza,

‘nfasciami ‘stu curuzzu

ccu ‘na lenza;

firutu l’haju ccu ‘na puntuta lanza

e nuddu a midicarilu ci penza.
Cu ama a donni, duluri n’accanza

, peni e duluri e mala spirienza;

sulu ni teni ‘m pedi

la spiranza quann’idda manca,

la morti cumenza.
Vieni speranza mia, vieni speranza, fasciami questo cuore con un filo sottile; è stato ferito da una lancia puntuta e nessuno pensa a medicarlo.
Chi ama le donne si procura dolore, pene e dolori e brutte esperienze; solo la speranza ci tiene in piedi quando essa manca comincia la morte Caliddu cantava al ritmo della mula caricata di fascine e il rumore degli zoccoli sui ciottoli del tratturo era l’unico accompagnamento.
Caliddu era un uomo posato, amava ragionare sulle cose; qualcuno certo pensava che era un po’ tardo, lento di comprendonio, ma non era vero: con lui ci voleva il tempo che ci voleva. In verità era molto saggio per la sua età: a neanche vent’anni aveva rifiutato di accasarsi troppo giovane e troppo povero. Ora aveva una mula, riusciva a sopravvivere meglio di tanti altri, poveri come lui, ma più affamati. Certo, nutrirsi quasi unicamente di fave poteva anche ridurre un pover’uomo a sognare maccheroni a occhi aperti; ma se suo padre gli aveva lasciato la mula, sua madre gli aveva lasciato la bravura di imbrogliare il palato e lo stomaco con tutti gli odori che la campagna era capace di donare. E una volta col finocchietto selvatico, un’altra con la cicoria, un’altra ancora con la cipolla, le fave diventavano prelibate carni che lui non aveva mai assaggiato.
Ora Caliddu doveva prendere una grave decisione: al suo paese avevano fondato il Fascio dei lavoratori; quel 1893 era stato fino a quel momento pieno di novità e non era ancora finito; novità forse positive per quelli come lui. Cosa fare, gettarsi nella mischia, come il cuore e una parte del cervello lo esortavano a fare, o stare a guardare e aspettare? Era stato nella nuova sede, una stanza grande e pulita, aveva visto i ritratti sul muro: Garibaldi, che lui riconosceva, Mazzini, amico intimo di Garibaldi gli dissero, altri sconosciuti; e su tutti Gesù, rassicurante, come se con la Sua presenza potesse garantire per tutti gli altri. E aveva ascoltato parole nuove, lette da chi leggere sapeva: le parole dello Statuto, piene di diritti, di lavoro, di giustizia, di pane; le parole dei Patti di Corleone, semplici, giuste, cose di cristiani per Caliddu.
Cose che lui in qualche modo aveva sempre pensato, aveva avuto dentro senza mai riuscire a farle venire fuori, a farle diventare pensiero compiuto e parole.
Caliddu pagò la sua quota e la sua vita un poco cambiò; niente di decisivo, ma adesso la sera al ritorno dai campi, sistemata la mula, spesso aveva voglia di andare alla sede del Fascio, di parlare con qualcuno. E certe volte riusciva a intravedere qualcosa che per lui era completamente nuova: il futuro, un futuro più lontano dell’arrivare alla sera o alla fine della stagione. Caliddu decise di aderire a un’altra iniziativa: tre volte alla settimana sarebbe andato alla sede dove un maestro avrebbe insegnato a leggere e scrivere a tutti quelli che volevano. Anche lui sarebbe riuscito a leggere, a firmare, e chissà!, a scrivere una lettera.
E il 1893 arrivò pian piano al suo ultimo mese; e fu la follia.
Avevano sparato a Giardinello, forse i campieri, o forse il Regio Esercito. Ma chiunque avesse sparato, i morti erano lì per terra, gente come lui, come i suoi compagni della sede.
Neanche il tempo di ragionare, di capire, di fare qualcosa, che a Lercara Friddi i soldati spararono di nuovo, lasciando sulla strada minatori e contadini. Era il giorno del Santo Natale. E pochi giorni dopo il barbiere lesse a Caliddu – ancora lui non era capace, troppo poche le lezioni – un manifesto mai sentito, mai visto prima. Il re – un re lontano, che ne sapeva lui delle nostre cose? – decretava lo stato d’assedio.
Caliddu pian piano capì cos’era questo stato d’assedio: i soldati, mai visti tanti, erano dappertutto, potevano fare quello che volevano, potevano rubare, sparare, incarcerare…
Caliddu la scampò, da poco tempo era entrato nel Fascio, non era molto conosciuto. Seguì in qualche modo i processi: tutti i capi dei Fasci condannati, diciotto anni al capo di quello di Catania, poco meno della vita vissuta finora da Caliddu, i contadini mandati al confino senza neanche un processo, ingabbiati come le bestie e imbarcati su grosse navi. Chi li avrebbe più rivisti? Nell’estate del 1894 Caliddu vendette la mula, quattro sedie, i treppiedi del letto, la falce, la zappa, l’aratro a chiodo che era stato del padre, e si imbarcò per l’America. Non è che avesse più fame del solito, fave ne aveva sempre e sapeva ancora cucinarle in mille modi, e la giornata riusciva a farla. Non era cambiato molto della sua vita di sempre; ma sentiva in qualche modo che gli mancava qualcosa: gli avevano rubato la speranza.

L’ottava iniziale è la n. 121 da Salvatore Salomone-Marino, Canti popolari siciliani, Palermo, 1867).
Ciccio Giuffrida, studioso del canto popolare e sociale

Sperare in compagnia.
La parola speranza, di per sé, si riferisce a oggetti e concetti particolarmente astratti e generici.
Moltissimi sono i desideri di ciascuno di noi e riguardano le sfere più svariate: si può sperare di conservarsi in una buona salute, o di vincere il primo premio alla lotteria, che la squadra del cuore vinca il campionato, o che per il weekend faccia bel tempo, o che il mal di denti passi al più presto.
È importante allora individuare le speranze che più ci stanno a cuore. La mia idea di speranza, ad esempio, è strettamente legata all’aspirazione a un mondo improntato alla solidarietà, o per dirla in modo più laico, alla condivisione. Nei casi emotivamente più coinvolgenti, alla com-passione.
Forse, se ci pensiamo un attimo, la malattia peggiore che può colpire un essere vivente, dall’uomo all’animale, alla pianta, è proprio la solitudine, che è il penultimo gradino prima dell’estinzione. Ma, pur preservando e coltivando la nostra personale intimità, è possibile condividere praticamente tutto: lo sgomento o la meraviglia che ci coglie guardando un cielo stellato o il mare in tempesta, la bellezza di un fiore che sboccia o la bellezza di un tramonto.
E ancora: la scomparsa di una persona cara o la paura che può prenderci pensando alla nostra morte, il piacere di una passeggiata in compagnia del nostro cane, la partecipazione a una società più giusta e solidale.
Credo che la condivisione nasca dall’elaborazione di un linguaggio comune, e non solo verbale, ma tutto questo è necessariamente il frutto di un lavoro di apprendistato e di educazione su noi stessi e nel rapporto con gli altri.
Dovrebbe essere questa una delle funzioni prioritarie sia della famiglia che della scuola, ma spetta in primo luogo a noi stessi vigilare sulle nostre azioni e sui nostri pensieri.
La politica dovrebbe avere la responsabilità di lasciar sperare, non vanamente, in un futuro migliore i cittadini che rappresenta; ma la politica non è altra cosa da noi, essa, nel bene e nel male, è l’espressione di noi stessi e ci rappresenta per quello che siamo, sia nel privato che nel pubblico. Per far questo è necessario non abbandonare il campo, individuare i compagni di strada con cui condividere il nostro cammino.
Nell’estate del 1894 Caliddu vendette la mula, quattro sedie, i treppiedi del letto, la falce, la zappa, l’aratro a chiodo che era stato del padre, e si imbarcò per l’America. Non è che avesse più fame del solito, fave ne aveva sempre e sapeva ancora cucinarle in mille modi, e la giornata riusciva a farla. Non era cambiato molto della sua vita di sempre; ma sentiva in qualche modo che gli mancava qualcosa: gli avevano rubato la speranza.

Sergio Reyes, operatore editoriale, direttore della collana «Per passione»