Abbandono e solitudine

di Stoppiglia Giuseppe

«Anche se non puoi fare più nulla
in servizio dei fratelli,
basterà che tu regali un sorriso
al tuo prossimo per
essere utile, perché questo sorriso
aiuterà gli altri
a svolgere i loro compiti».
Abbé Pierre

Una notte, un uomo fece un sogno. Passeggiava per una grande spiaggia e a mano a mano che camminava, vedeva mentalmente le immagini della sua vita. Si rese conto, all’improvviso, che si formavano due paia di orme sulla sabbia: le sue e quelle di Dio. Quando gli apparve davanti l’ultima scena della sua vita, si girò a guardare in retrospettiva le orme. Notò che molte volte, nei momenti più difficili della sua esistenza, c’erano solo un paio di orme. Preoccupato chiese a Dio: «Signore, mi dicesti che se avessi deciso di seguirti, avresti sempre camminato accanto a me. Non capisco perché quando ne avevo più bisogno tu mi abbandonavi». Dio, sorridendo gli rispose: «Figlio mio, io non ti ho mai abbandonato. Ti amo tanto che nei momenti di angustia e di sofferenza, quando hai visto solo un paio di orme, erano i momenti in cui ti trasportavo con le mie braccia» (leggenda brasiliana).

Il viaggio di Maìra

Rio de Janeiro, Brasile, Parque Nacional da Serra da Bocaina. Ogni sera, nel piccolo porto di Paraty, tornano le barche cariche di pesce. I pescatori, scalzi, riempiono le cassette di plastica e svelti le portano a riva. C’è, là vicino, una vecchia bilancia, dove il pesce fresco viene pesato e rapidamente diviso, una parte per l’uso del villaggio, una parte per la grande città. Un frigocar, fermo all’angolo della piazza, funge da deposito. Le donne del paese, intanto, si affrettano a pulire il pesce appena pescato, sulla piccola spiaggia, tra uno starnazzare festoso di gabbiani.

Il silenzio è quasi sovrano, interrotto solo da qualche autocarro, che torna dal lavoro. A Paraty non c’è traffico, non asfalto, non motori, non giornali, né radio con il loro stupidario quotidiano, neppure i televisori strizzacervelli sono incombenti, sebbene molte antenne si drizzino implacabili sulle case basse.

Marea che va e marea che viene. Tutto è calmo qui, misurato sul respiro lento del mare. Il mare, infatti, non è inchiodato a nessun luogo. Mentre le montagne e gli alberi hanno il destino nella radice, il mare è come noi, condannato alla vita del vagabondo. Frotte di bambini sono intenti a giocare con scatole di cartone vuote, mentre cani irsuti, buffi e carezzevoli, familiarizzano con gatti magri e timidi.

Quando, io, Denise e Maìra arriviamo, sono le 17:30 del pomeriggio. Partiti alle 14 dalla stazione Central do Brasil, dove fanno capo tutti i treni dell’area suburbana di Rio de Janeiro, dopo un’ora abbondante su una carrozza, stracarica di passeggeri e senza vetri, abbiamo viaggiato in autobus, per un’altra ora e mezzo, su una strada polverosa e sconnessa. Alla fine, per evitare i tre km a piedi, che ci separavano dal porticciolo di Paraty, abbiamo chiamato un taxi. La conducente, Maria, sembrava patita della velocità, ma sicura al volante. Con calma ci ha proposto: «Casa mia è grande, c’è spazio per poter dormire e abbastanza da mangiare per tutti. Non è un problema, se non avete denaro». Lavorava dalle sei del mattino alle 11 di sera, per mantenere i figli da sola: due maschietti e una ragazza più grande, che in sua assenza li accudiva.

Incontro con la madre

Denise è l’assistente sociale dell’Associazione Amar e cura le relazioni dei bambini di strada (i rapporti con la madre o i parenti più prossimi e in particolare gli stati permanenti di abbandono).

Maìra è una bambina di strada di otto anni, nata a Paraty. Dopo quasi un anno passato in strada, in un mattino piovoso arriva al centro di São Cristóvão a Rio de Janeiro. È sporca e spettinata, spaesata, taciturna, triste. Denise, dopo vent’anni di esperienza, temeàche dietro alla sua persona ci sia un brutale abbandono, visto il mutismo della bambina. Lei teme che Maìra sia stata cacciata di casa dalla stessa madre, per favorire la permanenza del compagno. Grazie alla sua caparbietà, Denise è, oggi, riuscita a convincere Maìra ad accompagnarla dalla madre.

Appena ci ha visti entrare, la madre ha cominciato a gridare e insultare Maìra, la quale, spaventata e tremante, è corsa a ripararsi sotto il tavolo. Quando, poi, ha visto che la madre, inviperita, la voleva stanare con un bastone, è fuggita a nascondersi sotto le sottane di Denise. Una scena drammatica e terribile, indescrivibile. Allora, senza perdere un attimo di tempo, mi sono messo tra la madre e Denise. Fissandola duro e a lungo negli occhi, le ho gridato in faccia che solo Dio poteva perdonarla della sua crudeltà e della sua grande malvagità. In quel momento ho sentito tirarmi i pantaloni. Istintivamente ho allungato la mano sinistra ed era la piccola mano tremante di Maìra che cercava la mia.

Lo sguardo profondo e dolce di Denise non esprimeva altro che una compassione universale, quasi divina, per tutti i bambini di strada e per ciascuno di essi, per le loro sofferenze, la loro disperazione. Una compassione senza debolezza la sua, ma umana: perché quelle scene miserabili, le aveva provate e vissute, anche lei, quando era bambina.

Denise sa che non bisogna arrendersi mai e occorre vivere il presente: è questo il suo schema pedagogico. È anche possibile che il messaggio non giunga a destinazione, ma per lei non significa che sia inutile inoltrarlo. Prima o poi produrrà attimi di pace, liberi da ansie, che renderanno fertile questa nostra terra.

Cara Denise, oggi, mentre il sole sta tramontando, anche se ti abbatteranno con una montagna di odio e di violenza, promettimi che ricorderai che nessun uomo o nessuna donna è nostro nemico.

Con l’odio non si potrà mai affrontare il male che può nascere in una creatura umana. E tu, piccola Maìra, quando affronterai, da sola, questo demone, col tuo coraggio intatto, il tuo sguardo gentile, vedrai un fiore sbocciare dal tuo sorriso.

La scienza mondana ti dirà di difenderti, perché le vie, i tracciati del mondo sono incompatibili con la nonviolenza. «Difenditi! Reagisci!», ti diranno i nuovi stregoni della tribù e tu ti sentirai perduta.

Psicologi, avvocati, assistenti sociali ti convinceranno a rientrare nella logica «clinica», in quella «politica», o in quella «civile», che non è quella del perdono disarmato, dell’amore che non arretra ed è allora che ti perderai. Ma perdere dal punto di vista del mondo, è la vittoria dell’amore.

La vecchiaia non è un tempo di riserva

Nella scorsa estate, in agosto, sono tornato in Brasile, come avrete potuto capire. Viaggio preparato per riaffermare la mia libertà di movimento, magari mentale e interiore, ma soprattutto perché in quella terra, ho scoperto che, se esce, il sole si porta via i resti di ombra che ha lasciato la notte.

Sto lasciando lentamente gli impegni di lavoro, sia con Macondo, sia con la formazione collettiva. Vi assicuro che sto provando la gioia di essere disarmato, ma sto scoprendo, pure, la solitudine: «Dov’è il tuo Dio» (Salmo 41).

La solitudine è una parola che fa paura. Apre davanti uno spazio sterminato, senza una pietra dove appoggiarsi, un albero alla cui ombra riposare. Intorno, lontanissimo e irraggiungibile, l’orizzonte sfocato, abbacinante: il deserto…

Ognuno di noi sente questa sabbia riarsa penetrare negli angoli più riposti del cuore, a disseccare la speranza, a bruciare l’erba verde della fiducia e consumare l’ultima acqua del coraggio. Solitudine nascosta, silenziosa.

Il giudizio che si ha nei confronti della solitudine è generalmente negativo: la sciagura, forse, più amara che possa capitare a una persona, uomo o donna che sia… eppure vorrei affermare che fra le molte realtà da valorizzare, la solitudine possiede una dignità disattesa.

Una realtà connaturata all’anima, che il nostro tempo vuole riempire con il bisogno consumistico del vivere insieme, con la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, con la facilità meccanizzata di muoversi, riscoprendone i valori e sfruttandone la creatività, ed è invece un tempo gratuito come la vita tutta.

Non mi resta, invece, che ripartire da me stesso. Questa decisione, però, mi appare in una luce folle. Il lavoro che ho da fare richiede energie, che diminuiscono ogni giorno di più, ma devo riconoscere che mi danno molto. Molto di più di quanto io investa. Ci sto bene dentro a questo lavoro, che non cerca appoggi.

Porto, quindi, con me la perplessità di una specie di lucida pazzia, che mi spinge ad abbandonare ambizioni e relazioni, pure con ottime persone. Alla mia età bisogna cominciare a diffidare di sogni giovanili, dettati più da un’inutile resistenza all’idea di invecchiare che da vera vitalità e desiderio di ricerca.

Oggi, penso, che la dimensione personale possa costituire una vera risorsa per cercare di aprire strade nuove, non asfittiche, sia nella dimensione sociale come in quella pubblica. Mi sembra di avere perso troppo tempo, negli anni spesi a una puntigliosa distinzione fra il ruolo di prete e quello di lavoratore. Oggi credo di potermi muovere trasversalmente, senza curarmi troppo dei panni con cui la gente mi veste…

Non penso, certo, a un mio rientro nel privato, ma di mettere al centro le differenze, a partire da quelle personali, affinché non accada quello che è avvenuto nella scoperta/conquista dell’America, quando nessuno, di fronte all’uomo, riconobbe l’uomo.

Signore, tu sai meglio di me che sto invecchiando. Guardami dalla letale abitudine di credere che io debba dare il mio parere su tutti gli argomenti, in qualsiasi circostanza. Fammi riflessivo, ma non musone, pronto ad aiutare, ma senza impormi. Chiudi le mie labbra sui miei guai e sulle mie pene. Conservami ragionevolmente dolce. Rendimi capace di scoprire il bene in luoghi inattesi e qualità da chi non le aspetto e concedimi la grazia di riconoscerle apertamente.