L’altra faccia della Luna

di Stoppiglia Giuseppe

Riscoprire l’umano che c’è in noi

Visse come un granello di sabbia incolore
sulla riva del mare, confuso, tra mille suoi simili.
E quando il vento sollevò il grano di sabbia,
lo trasportò all’altra riva del mare e nessuno
se ne accorse».
Yitzhak Leib Peretz

«La nonviolenza della mitezza evangelica
è uscire dal regno della competizione,
della concorrenzialità, della promozione facile,
cioè della corruzione e delle mafie,
comunque sempre dissimulate come stampelle
del potere».
Emmanuel Mounier

Una metafora

Un uomo, vissuto nei paesi che fanno parte della cintura bassanese – una terra, ultimamente, dominata dalla barbarie culturale della Lega e segnata dal perbenismo ipocrita di un moralismo cattolico di facciata -, dopo aver speso la sua vita nella ricerca del bello e del giusto, deluso e amareggiato dagli scarsi risultati della sua scelta esistenziale, si è comperato un fondo molto arido, nel desolato abbandono della Valsugana e ci ha realizzato un meraviglioso giardino.

Gli ha dato pure un nome: Pomona. Nome che richiama la dea romana, patrona di tutti i frutti, ma anche un suono, che fa piacere tenere tra le labbra e il palato, in quel giardino poco più grande dell’antico Eden.

Il giardino di Pomona è un luogo di molte meraviglie, da cui i vicini attingono i frutti di stagione, gratuitamente. Ora che l’uomo si è spento, anche il giardino è scomparso sotto le erbacce. E il nome di lui si perde nella memoria dei vecchi.

La sua è la storia di tanti uomini e donne. Passano accanto a noi, ignorati, non osano stendere la mano, non implorano un conforto. Forse solo Dio si accorge di loro.

Vivere o sopravvivere

Il nichilismo è ormai diventato, nel nostro Occidente, uno stato di esistenza generalizzato. Mentre prima il suo principio era «nulla è vero, quindi tutto è lecito» adesso «tutto è lecito, quindi nulla è vero».

È il nostro modo di vivere, di esistere e rivela una situazione profondamente drammatica. Basta vedere il nostro rapporto con il tempo: l’accelerazione del quotidiano, l’immediatezza del repentino, il dissolversi della durata del tempo nel delirio degli eventi, esaltano l’istantaneo senza ragione e svuotano il presente.

Solo se insieme si riattiva il senso del vivere, si può riemergere dalla palude del vuoto. Il problema non è trovare la verità, ma costruirla assieme, costruire una moralità, che è intreccio di relazioni. Contro il dissenso totalitario e l’inimicizia assoluta, contro la guerra come malattia dell’esistere, va riattivata la volontà di verità, formata inseparabilmente di eros e di grazia.

Interrogativi e risposte

Quali valori uniscono la nostra società per renderla umana? O prevale soltanto la paura, la volontà di potenza, il bisogno irrazionale? Tra le tante tensioni e conflitti, offese e violenze, ingiustizie che ci dividono, c’è qualcosa che ci unisce?

Forse un valore largamente condiviso, speriamo crescente, anche se con tante contraddizioni, pratiche negazioni, c’è ed è la coscienza di una dignità umana comune. Tale concezione ha da essere prima di tutto fondamento della nostra coscienza personale e sociale, oltre che formale convenzione di civiltà e di diritto. Su tale convinzione, ciascuno di noi merita rispetto non per quel che abbiamo o facciamo, ma per ciò che siamo.

Il cattivo non è un essere senza dignità, un nemico da eliminare: questo l’ha insegnato Gesù amando i peccatori, la loro umanità è riscattabile. Il samaritano, che si sente umano come il ferito e lo soccorre, non premia un merito del ferito, semplicemente sente nelle proprie viscere che l’umanità dell’altro è uguale alla sua e peràquesto deve soccorrerlo. E oggi, come persone e come popoli, abbiamo tutti il bisogno di condividere questa coscienza. Ogni essere è degno, ha diritto a essere rispettato, indipendentemente dal merito.

Un modo diverso di rapportarsi

Questa presa di coscienza coinvolge l’intelligenza, gli affetti; non è solo un fatto razionale o morale, è una nuova condizione esistenziale. Qualcuno la potrebbe chiamare il lato femminile che c’è in noi, una difesa contro la violenza che permea il nostro modo di vivere, lo sguardo della madre che guarda i suoi figli crescere.

Forse nasce anche, in negativo, dal timore di essere sopraffatti da sentimenti irrazionali, che ci mettono gli uni contro gli altri, in una guerra senza fine. La possiamo chiamare con un termine che fa scandalo in un mondo violento ed è la tenerezza. La tenerezza non è facilmente definibile, è un sentimento, un gesto. Anche papa Francesco ha parlato della necessità della tenerezza, un gesto di libertà, che ci serve per scacciare l’ansia, l’angoscia in un mondo fatto di trappole e inganni, dove siamo prigionieri dell’inatteso.àLa tenerezza è una chiave d’accesso nel faticoso rapporto tra padri e figli, dove una specie di rifiuto dell’età che avanza si manifesta anche nella nell’insofferenza verso le persone che ci amano e si preoccupano per noi.

La tenerezza è la medicina dell’amore, ma ci vuole una gran forza perché siamo soli e dobbiamo trovare il coraggio di rivolgerci a quella parte di noi che abbiamo sotterrato e che oggi cinismo e competizione rifiutano. La tenerezza, perciò, non è solo destinata alla persona che amiamo, ma alla vita stessa, e la esprimiamo nelàmodo in cui parliamo agli altri o nel rapporto con le cose. La mano che ti tocca è una mano che guarisce, ma è un gesto molto difficile da compiere.

Se parliamo di dignità umana comune anche a chi sbaglia, di tenerezza nelle relazioni, è perché cerchiamo valori condivisi, necessari per scampare alla paura di vivere sempre dentro una minaccia e una violenza reciproca.

Dal vangelo una parola nuova

Al capitolo 6 (27-36) del vangelo di Luca è scritto: «A chi ti percuote su una guancia, porgi anche l’altra, a chi ti toglie il mantello, tu dagli pure la tunica. Dai a chiunque chiede e a chi prende del tuo non richiederlo. Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro».

Quando si vuol parlare di tenerezza occorre partire da qui o si perde la direzione, il senso della realtà. La generosa impazienza dei «patrioti», quelli del messaggio di legalità, fraternità e libertà, credeva di bruciare i tempi, ma la natura non fa salti e si è così inginocchiata a un nuovo imperatore, come spesso è avvenuto nelle grandi rivoluzioni.

Il vangelo non è un manuale di pietà individuale, ma tratteggia l’etica che deve ispirare la comunità dei discepoli, una comunità storicamente collocata nelle tensioni di un paese occupato, giustamente insofferente della tirannide, dell’arbitrio dei traditori collaborazionisti, ma anche dei patrioti.

La violenza degli oppressori non può che generare risposte violente da parte degli oppressi e la ribellione spontanea è una forma di autodifesa collettiva, ma per essere efficace deve avere ben chiaro quali sono i percorsi da attraversare per costruire la giustizia e la pace.

L’obiezione di coscienza e il pacifismo sono dileggiati come cosa da eunuchi, essendo sottinteso che la forza e il coraggio dello scontro fisico sono la prerogativa del vero uomo. Ma come bene scrive Simone Weil: «La forza che può uccidere, ma non uccide ancora», è ciò che ha il potere «di mutare in cosa un uomo che resta vivo».

Il vangelo, invece, indica la strada della «follia» che Erasmo da Rotterdam ha scelto per proporre un vero rinascimento senza inquisizione e senza vendetta, punto di partenza, a differenza di Machiavelli e di Lutero, di un nuovo umanesimo, che non ha alternative.