I fiori del campo nascono seminati dal vento

di Stoppiglia Giuseppe

«Ti chiediamo, o Signore, che ci siano ancora i
boschi e gli alberi, che ci siano uccelli nell’aria,
che la luna e le stelle siano ancora meraviglie.
Che ci sia il fuoco per chi ha freddo e
frutti per chi ha fame. Che ci siano sempre
innamorati e vagabondi, il vino e i giochi,
ma soprattutto che non cessi mai, nel cuore
dell’uomo, la speranza umana, la solidarietà
con gli sfruttati, che domani possiamo
abbattere ciò che è vecchio per fare la novità del vangelo».
don Bruno Borghi, prete operaio

Il letto vuoto

A primavera aveva iniziato a star male, non si reggeva in piedi. Poi cominciò a dimagrire, il medico non diceva nulla. D’estate, sempre più magro. Mio fratello Aldo si era fatto così pallido che lo ricoverarono in ospedale. Non trovarono niente. Vedevo, però, negli occhi di mia madre, che l’ansia la ossessionava. Infine la diagnosi. Io, avevo quattro anni; pretesi di stare sempre nella stanza con lei e mio fratello. I mesi passarono nell’ombra, i balconi semichiusi, le tendine tirate. Il viso della mamma, mentre dormiva, era diafano; ricordo le sue trecce nere, sparse sul guanciale.

Una sera mi mandarono a dormire a casa di amici. Tornai il giorno dopo dall’asilo, trionfante: «Mamma, ho preso nove in…»… le parole mi morirono sulle labbra. Il letto era vuoto. Un garofano rosso sul cuscino. Mia madre, straziata da un pianto incontenibile, era piegata su sé stessa, come un animale ferito. Mi gettai tra le sue braccia, ma la sentivo lontana, irraggiungibile. Da tutta la vita ripenso a quel momento terribile, all’alienazione della mia mamma, annientata dal dolore. L’ho amata tanto, vorrei poterla abbracciare, ancora, come il bambino di quel giorno della morte di suo figlio.

Quella spinta sulla bicicletta

C’è una foto, tra le migliaia che conservo, che mi è particolarmente cara. La mia sorella maggiore, Giuseppina, a nove anni, che spinge me, il fratellino di cinque, su una stradina sterrata, dove sto imparando ad andare in bicicletta. Siamo belli assieme. Io ero, il quarto, il piccolo, biondo pannocchia, lei era scura, come una mediorientale, intenti in quella comune fatica (manca l’audio nella foto, ma ricordo bene quante ce ne dicevamo). Fu un’impresa insegnarmi ad andare in bicicletta. Nel cortile provavo, cadevo, cadevo di nuovo ma non mi arrendevo. Le ginocchia costellate di lividi e di tagli, ma sempre scuro in volto, pronto alla prova decisiva. Una sera dissi chiaro alla sorella: «Mi vergogno a cadere davanti agli altri bambini in cortile».

Una mattina all’alba, era luglio, mia sorella Giuseppina mi svegliò e mi portò sulla stradina dietro casa. Nessuno in giro. Salii sula sella, mi corse dietro in una lunga spinta, dicendomi: «Ora vai». Finito l’abbrivio, spinsi sui pedali della bicicletta verde. Oscillavo paurosamente, misi un piede a terra, esitavo ancora, poi sparii dietro a una curva, dietro alla quercia. Tornai esultante e velocissimo, ben saldo in sella con gli occhi radiosi. Ricordo bene le sue parole che mi sussurrò all’orecchio: «Crescere un figlio è anche dargli quella spinta per incoraggiarlo a partire».

Robotica e alienazione

Di fronte allo strapotere globalizzato della tecnologia capitalistica, che ipotizza la società di massa e non affronta problemi macroscopici, come la fame dell’Africa e la distruzione planetaria dell’ambiente, il problema di che cosa sia oggi l’alienazione torna in primo piano. Siamo come davanti e dentro a una grande macchina economica e tecnica, che funziona per automatismi di calcolo e ignora il destino del genere umano, che, pur avendola prodotta, non riesce più né a conoscerla né a dominarla. La robotica e la finanza penetrano nelle nostre vite e ci chiedono e ci impongono di obbedire per il nostro bene, anzi per la nostra comodità e felicità.

Oggi, dopo mezzo secolo, la «megamacchina» del capitalismo informatico, digitale, telematico, funziona tenendo in connessione ininterrotta e inarrestabile tutti e tutto, nel tempo di lavoro, nel tempo libero, sequestrando le facoltà comunicative, emotive e cognitive di ognuno e modellandole secondo i suoi tempi, le sue forme, i suoi contenuti e i suoi scopi. Le tecnologie, che crediamo ancora ingenuamente di dominare e di usare, ci usano e ci dominano.

Passare dal predominio alla cura dell’ambiente

Appare chiaro che la salvaguardia del pianeta è ormai la priorità delle priorità. Abbiamo distrutto, inquinato e resi insicuri vasti territori. Stiamo modificando il clima. Abbiamo riempito il mare di plastica e siamo distruggendo la biodiversità; intere specie animali spariscono giorno dopo giorno, tante sono al lumicino.

Il predomino umano si sta dimostrando egoista, violento, insensato e, senza una rapida inversione di tendenza, foriero di devastazioni globali (i primi segnali sono già evidenti). La cura dell’ambiente, oltre a essere una priorità per la salvaguardia del pianeta (e di chi ci vive), può rappresentare un poderoso motore per un nuovo sviluppo e un rilancio dell’occupazione. L’umanità ha i mezzi, le conoscenze, le tecnologie e il bisogno di farlo. Perché non si fa?

Quello dell’ambiente è il principale tema attorno al quale poter costruire inedite alleanze (culturali ed economiche) globali, così come locali. Per affrontare questi temi occorre un nuovo approccio politico, che assuma le sostenibilità ambientali come stella polare nella formazione di tutte le decisioni, a tutti i livelli, cominciando da quelli locali. Per impedire il degrado del pianeta, occorre superare la politica, l’economia e la cultura del «qui e subito» e progettare nuove soluzioni per poter garantire cibo, acqua, cure, energia e istruzione a una popolazione umana che, fra trent’anni, supererà i dieci miliardi di individui.

Migranti oggi e domani

Questa è una situazione che se, nulla cambia, potrebbe trasformarsi in una biosfera irreparabilmente lesa da un occidente ricco, obeso, sempre meno incline a riprodursi, perciò vecchio (questione demografica) per di più assediato da un sud del mondo, giovane e prolifico, che difficilmente sarà disposto a rimanere ancora escluso da una più ragionevole redistribuzione della ricchezza e dei saperi. Se oggi le migrazioni hanno come motore prevalente la speranza di una vita migliore, domani, a seguito del riscaldamento globale, interi popoli potrebbero essere costretti a muoversi solo per garantirsi la sopravvivenza. Se qualcuno pensa che questi temi possano essere affrontati individualmente dalle nazioni, nella migliore delle ipotesi si illude, altrimenti è oggettivamente corresponsabile dei danni a venire. L’esodo continua senza soste e ci proietta verso scenari nuovi e drammatici.

Il tema del convegno nazionale

Macondo, durante la festa del prossimo 19 maggio, affronterà il tema dell’immigrazione, riflettendo su Chi è mio fratello? e, aggiungo io, Se lo straniero non è mio fratello, Dio non è mio Padre.

Questa affermazione cambia la prospettiva abituale, da cui si considera un Dio astratto. Ma noi siamo cresciuti nella convinzione che Dio è nostro Padre, dunque tutti, anche gli stranieri, sono nostre sorelle e nostri fratelli. L’interrogazione è nata dopo le recenti manifestazioni di razzismo che hanno accampato giustificazioni di tipo religioso. La nostra Costituzione afferma che alle singole persone viene riconosciuta la pari dignità contro ogni pregiudizio di tipo etnico, sociale, religioso, culturale e di genere. Termino col salmo laico di Erri De Luca, che afferma che siamo tutti figli dell’Africa:

L’Africa è l’utero della specie umana.

L’Africa la miniera prima: schiavi, oro, diamanti, petrolio.

L’Africa è la più grande valanga di accuse al resto del mondo.

L’Africa ci chiamerà in giudizio: la sua sentenza sarà mite e spietata, nel dichiararci tutti maledetti figli suoi.