Uganda

di Alfier Cecilia

La storia dei bianchi in Uganda ha inizio nel 1800, con l’epopea degli esploratori. La Royal Society, associazione scientifica inglese, finanziava spedizioni per trovare le mitiche sorgenti del Nilo, poi identificate nel Lago Vittoria. Dopodiché arrivarono i missionari (inizialmente padri protestanti e poi i cattolici) e infine i colonizzatori. Tuttavia l’Uganda non è mai stata una colonia, bensì un protettorato in cui gli occidentali governavano indirettamente e divenne indipendente nel 1962. Al suo interno ci sono cinquanta tribù, organizzate in tre regni e queste tribù sono suddivise in quattro gruppi etnici: i Nilotici, i Nilohamitici, i Bantù (di cui fa parte l’importante tribù dei Baganda) e i sudanici.

Mentre nel nord si trovavano società prive di autorità politica, nelle regioni centromeridionali il regno più importante era quello retto dalla tribù dei Baganda. Il regno era incentrato sulla figura del re, che comandava su due sistemi distinti di capi e su una gerarchia di capi di nomina regia. Gli inglesi ammiravano i Baganda e siglarono con i loro capi un trattato che, pur assoggettando il Buganda al Regno Unito, concedeva allo stesso regno locale un rapporto privilegiato con i colonizzatori. In pratica divennero alleati.

L’Uganda si formò come agglomerato di tribù, diverse dal punto di vista culturale e sociopolitico. Il caso ugandese illustra bene come il periodo coloniale abbia rafforzato i conflitti etnici. Con poche eccezioni, i distretti amministrativi dello stato coloniale furono costituiti sulla base di una mappa dei gruppi etnici. Questa politica rafforzò l’unità e l’identità dei regni centromeridionali, che i colonizzatori vedevano come strumenti di governo indiretto. D’altro canto furono uniti gruppi linguistici che non avevano mai avuto una struttura politica comune. Ciò implicava la selezione di alcuni elementi identitari a scapito di altri. La strategia del governo indiretto non poteva che contribuire negativamente alla formazione di un’identità ugandese. La forza mostrata dall’organizzazione politica dei Baganda spinse altri gruppi a mobilitarsi lungo linee etniche, fino a elaborare tradizioni e simboli propri. L’utilizzo di personale Baganda per amministrare i gruppi che abitavano altre aree della colonia non fece che peggiorare le cose, generando un diffuso risentimento nei confronti del regno centrale e del suo status privilegiato. Gli inglesi designarono i Buganda come «la più avanzata fra le tribù» e ne fecero il centro di un regno più grande, l’Uganda, estendendo il protettorato a nord, a est e a ovest. Inclusero altri gruppi etnici, alcuni dei quali erano in guerra coi Baganda prima dell’arrivo degli inglesi. La politica di protettorato degli inglesi cooptò i capi locali per eseguire i loro ordini, ma lasciò ai locali la loro stessa esecuzione. La leadership dei Baganda, imposta dagli inglesi, fece emergere numerose problematiche, visto che i Baganda erano una minoranza, divisa inoltre fra cattolici e protestanti.

Il cammino difficile dopo l’indipendenza

Dopo l’indipendenza, i britannici erano convinti di avere lasciato una democrazia sana, ma dopo l’elezione che designò primo ministro Obote (con il «contro-Presidente» bungadese Mutesa, con poteri analoghi a quelli di un re inglese), seguì un periodo segnato da numerose guerre civili, che provocarono una frattura fra nord e sud del paese, con un sud decisamente più ricco.

Fra il 1960 e il 1965, l’Uganda ebbe un boom nelle esportazioni di cotone, caffé e thè, riuscendo a raggiungere la più alta crescita pro capite dell’Africa orientale, ma esplosero anche i conflitti fra gruppi etnici. Nel 1966 Milton Obote perse la pazienza dopo i tentativi dei Baganda di guadagnare autonomia e con un colpo di Stato eliminò Mutesa (re cerimoniale dei Baganda), diventando presidente esecutivo.

Obote, cambiando la Costituzione, garantì tutti i poteri per sé stesso, trasformò l’Uganda in uno Stato monopartitico e pianificò un socialismo radicale. Usando l’esercito per superare la Costituzione, egli aveva coinvolto i soldati nella politica. Idi Amin era capo dell’esercito e aveva condotto l’attacco al Palazzo del Re. L’Alto Commissario inglese descriveva Amin come intelligente abbastanza da sapere di non poter guidare il Paese. La valutazione dello stesso Obote fu più previdente. Egli sapeva che l’esercito, e in particolare Amin, era una minaccia e cercò di liberarsi di lui, ma Amin era astuto e pericoloso, quando minacciato. Reclutò seguaci nei ranghi dell’esercito. Obote lasciò il paese nel gennaio 1971 per andare a una riunione del Commonwealth a Singapore e lasciò l’ordine di arrestare Amin.

Sembra chiaro che gli inglesi abbiano avuto una parte nell’ascesa di Amin al potere. Dopotutto Obote era socialista e minacciava di nazionalizzare gli interessi britannici in Uganda. Inoltre si era scagliato contro gli stessi inglesi che avevano venduto armi al Sudafrica in piena «apartheid». Ma erano motivi sufficienti per detronizzarlo?

I giornali inglesi suggerirono che erano stati gli israeliani e non gli inglesi a collocare Amin al potere. Dall’indipendenza, Israele aveva formato l’esercito ugandese e aiutato Amin. Egli era anche in collegamento col gruppo separatista sudanese «Anya-Nya», che significa il «veleno del serpente», amico della causa ebraica. Alla fine del 1970 Obote era volato in Sudan del Sud per negoziare la pace fra Anya-Nya e il presidente Nimeiri e ciò preoccupava molto Israele. L’artefice del colpo di Stato fu quasi certamente il colonnello israeliano Bar Lev, un ufficiale che aveva lavorato cinque anni in Uganda ed era diventato molto amico di Amin. Bar Lev contribuì ad annientare la parte di esercito pro-Obote.

Il 25 gennaio 1971 l’Uganda si svegliò con l’annuncio di Amin che diceva di essere il nuovo «Capo temporaneo». L’incubo era iniziato, anche se molti non se ne resero conto, e i Baganda festeggiarono. Amin fu detronizzato dall’esercito della Tanzania nove anni dopo, ma per la stabilità sarebbero occorsi altri sei anni. In totale il nord fu sconvolto da trentacinque anni di guerra civile. Sembra strano che Israele non abbia informato dei suoi piani l’alleato inglese. Gli inglesi supportarono Amin, che subito, in piena guerra fredda, sovvertì le politiche socialiste di Obote. Il primo anno di Amin non sembrò così terribile e molti dicevano che il Paese era più libero di quando c’era Obote. Tuttavia terribili cose stavano per accadere.

Alcuni soldati appartenenti al gruppo etnico di Obote vennero sgozzati e rimpiazzati da uomini di Amin. Due giornalisti americani scomparvero, così come l’ex primo ministro Kiwanuka. Egli divenne il prototipo del dittatore africano, anche se non vi corrispondeva del tutto. Espulse gli asiatici, in maggioranza piccoli commercianti, promettendo di dare i loro affari in mano agli ugandesi. I soldati derubarono gli asiatici, prima che questi lasciassero l’Uganda.

Amin stava diventando sempre più anti-inglese e, per questo, gli stessi inglesi cercarono di fermarlo. Dalla Tanzania era partito un piccolo contingente di oppositori di Amin, ma non riuscirono a fare niente perché l’esercito gli era ancora fedele.

La tirannia di Amin finì nel 1979, dopo una guerra con la Tanzania. Ma il ritorno di Obote dopo le elezioni portò a nuove guerre civili e la sua repressione fu terribile, come quella di Amin. I suoi uomini del nord furono dichiarati, per le associazioni che si occupano di diritti umani, responsabili della morte di trecentomila civili. Quando Obote lasciò il potere nel 1985, l’Uganda era uno degli Stati più poveri al mondo, nonché dipendente dagli aiuti occidentali.

La lunga presidenza di Museveni

Fino al 1986 i presidenti erano del nord, ma da allora comanda Museveni, che è del sud. La perdita del presidente ha provocato disordini al nord. Capo della guerriglia era dapprima Alice Lakwena, una donna che diceva di avere poteri magici, poi il terrorista Kony, che si è macchiato di diversi delitti. Tre presidenti hanno ricercato Obote senza successo, da quando nel 2005 è stato emesso il mandato di cattura internazionale.

Come se non bastassero le guerre intestine, l’Uganda si è anche impegnata nelle guerre dei vicini Ruanda e Sudan. Attualmente il Paese ospita un milione e mezzo di rifugiati dal Sudan del Sud. Nonostante l’età media degli ugandesi sia inferiore a diciassette anni, il presidente è anziano. Museveni ha portato a una relativa stabilità politica e a un moderato sviluppo economico (il PIL è cresciuto del 5% e i poveri sono diminuiti), ma il Presidente governa ormai da tempo con metodi autoritari. La Costituzione ugandese prevedeva che non ci si potesse candidare dopo i 75 anni d’età. Tuttavia nel 2016 Museveni l’ha fatta modificare, creando un precedente che potrebbe distruggere il paese. In Uganda i diritti civili sono così arretrati che il Presidente ha promulgato una legge per mettere a morte gli omosessuali; la corruzione e il nepotismo dilagano; l’attenzione alla sanità è scarsa ed è in corso una massiccia privatizzazione dei servizi.

Secondo «The Economist», dall’inizio delle attività nel 1987 fino al 2010, il Lord’s Resistence Army (LRA), il gruppo guerrigliero di Kony, avrebbe assassinato duemila civili e rapito duemilaseicento fra bambini e ragazzi. Con la guerriglia 440.000 persone avrebbero perso la loro casa. Fra il 2006 e il 2008 ci furono negoziati di pace fra il governo ugandese e il LRA. Dal 2011 cinquemila soldati dell’Unione Africana sono impegnati nella caccia a Kony.

Il tasso di crescita della popolazione è del 3,2% annuo, fra i più alti al mondo.

Gli sviluppi contemporanei e la democrazia multipartitica

Grazie anche all’attività del CUAMM (Medici con l’Africa) non sono stati presenti immigrati ugandesi sui barconi nel Mare Mediterraneo (gli ugandesi registrati in Italia sono cinquecento).

Dovremmo imparare una lezione di cooperazione internazionale. Lo sviluppo endogeno partecipativo reale è la chiave per mitigare il fenomeno migratorio a monte. La cooperazione è la via per affrontare il tema della sostenibilità. Il tempo e l’adeguamento ai contesti sono precondizioni per l’efficacia della cooperazione. L’approccio dev’essere basato sullo sviluppo delle risorse umane, la formazione, la valutazione, l’innovazione e la ricerca, che sono passaggi obbligati per una cooperazione responsabile. Il CUAMM ha aperto diciotto ospedali e ventuno distretti sanitari, oltre a cinque scuole per infermieri e per ostetriche.

Yoweri Museveni governa attraverso un sistema senza partiti. Nel 1996, nelle prime elezioni dirette della storia dell’Uganda, Museveni, usando risorse statali, si assicurò il 75% dei voti. Il risultato, secondo osservatori esterni, rispecchiava la pubblica opinione, ma con il tempo Museveni è diventato sempre più autocratico, esercitando una politica che favorisce familiari e alleati fidati.

Nel 2006 l’Uganda si è finalmente aperta al multipartitismo.