Il Brasile allo specchio

di Panebianco Fabrizio

Mentre scrivo sono passati pochi giorni dalle elezioni brasiliane e Dilma Rousseff, l’economista ex-guerrigliera, ancora non ce l’ha fatta a succedere a Lula, il presidente sindacalista e suo sponsor politico. Dovesse farcela ai ballottaggi, si troverebbe davanti una strada non facile: reggere il confronto con Lula, presidente uscente a livelli di popolarità altissimi. Un’alta popolarità si può ottenere con tanto populismo o con tanta buona politica: fare un bilancio dei governi Lula dal 2003 a oggi non è impresa facile. Ci proviamo avendo come riferimento le politiche in ambito economico e sociale.

Il presidente precedente, Cardoso, viene accusato di aver lasciato a Lula una pessima eredità, e in parte è vero: grossi deficit pubblici, inflazione alle stelle e contestati piani di riforme strutturali. Eppure furono proprio questi piani a porre le basi per una successiva diminuzione dell’inflazione, una maggiore efficienza dei servizi e una più alta credibilità della banca centrale. Lula è riuscito a costruire su queste basi uno sviluppo economico rapido, e programmato, ponendo attenzione alle conseguenze sociali delle politiche. La strada non è stata facile: da presidente legatissimo ai movimenti ha dovuto necessariamente scontentare qualcuno per ottenere consensi ampi sul fronte interno (alleanza con un partito di centro-destra) e internazionale, per farsi accettare dalle istituzioni finanziarie internazionali. Inoltre ha adottato una politica di promozione industriale centralizzata con dei piani di aiuto alle imprese, principalmente tramite il Banco Nazionale di Sviluppo Economico e Sociale. Risultato: 12 milioni di posti di lavoro in più, bassa inflazione, maggiore credibilità internazionale e un numero di banche e imprese che stanno diventando sempre più importanti nell’arena internazionale. Inoltre una crescita economica del 7% prevista per quest’anno e un sistema di relazioni e scambi internazionali sempre più fitto che sta facendo diventare sempre più il Brasile una potenza emergente con diritto di parola e decisione nei consessi internazionali. Solitamente tali risultati, specie in paesi del Sud, si accompagnano a forti tensioni sociali e incrementi di disuguaglianze. Il successo di Lula è stato il riuscire a distribuire, almeno parzialmente, i benefici di tale crescita. I dati parlano: la povertà è scesa dal 26% al 23%, l’indigenza dal 15% all’8%, la disoccupazione dal 13 all’8,9%, il potere d’acquisto aumentato del 15%. Si potrebbe affermare che Lula è riuscito a creare un consistente ceto medio, necessario per far continuare il paese lungo la strada intrapresa.

La riforma che forse più di tutte ha contribuito a questo successo, e alla popolarità del presidente, è la «Bolsa Familia»: un sistema complesso di trasferimenti monetari alle persone più povere con incentivi alla scolarizzazione dei figli.

Le critiche non mancano di certo: c’è chi accusa il presidente di aver concesso troppo alle istituzioni monetarie internazionali, attuando politiche in fondo neoliberiste; certo è che se non si fosse fatto ciò la credibilità del presidente sarebbe stata scarsissima e i fondi necessari per le riforme intraprese non si sarebbero trovati da nessuna parte. C’è chi lo accusa per aver aperto ad alcuni partiti di centro destra pur di avere coalizioni più ampie, allentando i rapporti con i movimenti che lo avevano sostenuto. C’è chi lo accusa, non a torto, di aver messo in pericolo la biodiversità e il patrimonio naturale pur di sviluppare le industrie petrolifere (Petrobras, ora una delle più grandi multinazionali del settore) e minerarie, anche se senza di esse pochi passi si sarebbero fatti nelle direzioni osservate. La critica a prima vista più debole è quella che però può essere una delle più serie: i programmi di lotta alla povertà sono puri programmi assistenziali di trasferimenti monetari che non cambiano la struttura delle relazioni sociali di sfruttamento: dovessero essere tolti finanziamenti a questi programmi tutto ritornerebbe come prima. Il presidente uscente risponde: «La prima cosa che uno impara una volta insediato alla presidenza della repubblica è governare. Uno si stacca dalla sua vita di molti anni all’opposizione quando, nei dibattiti e nelle riunioni diceva «Io penso, io ritengo, io credo». Una volta al governo uno non pensa, non ritiene, non crede: uno fa o non fa […]. Il fatto è che le cose stanno arrivando nelle mani del popolo. Il popolo sta ricevendo i benefici, sta vedendo le cose che si fanno».