Il maschile

di Anderlini Gianpaolo, Khalid Rhazzali Mohammed, Siviero Elide

Nella Torà

Nella tradizione ebraica il maschile richiama e coinvolge direttamente il femminile in un rapporto di gerarchia e di diversità. Il rapporto di gerarchia è fissato e definito nei racconti della creazione. In primo luogo, la determinazione «maschio e femmina li creò» (Gn 1,27;5,2) ci propone una parità condizionata: nell’ordine delle parole, che nella Bibbia non è mai casuale ma sempre portatore di significato, prima viene il maschio poi la femmina. Il testo biblico va oltre e, nel cosiddetto secondo racconto della creazione, ci mostra le modalità utilizzate da Dio nell’atto della creazione dell’uomo. L’uomo è forgiato da Dio con terra impastata e, solo in un secondo tempo, la donna è da Lui plasmata da una costola tratta dall’uomo. E della donna non si dice: «soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,7), ma è detto: «(Dio) la condusse all’uomo» (Gn 2,22). La parità condizionata diviene complementarietà definita dalla posizione di preminenza e di potere dell’uomo sulla donna; posizione che si fa evidente dopo la «caduta» e la successiva condanna al dolore da parte di Dio (prima nei confronti della donna, poi dell’uomo), quando l’uomo impone un (nuovo) nome alla donna: «Adam chiamò sua moglie Eva (Chawwà), perché essa fu la madre di tutti i viventi» (Gn 3,20).

È l’uomo (ossia: il principio maschile, non l’umanità indifferenziata) a essere posto da Dio nel Gan Eden «per lavorarlo e custodirlo» (Gn 2, 15); è l’uomo a dare il nome «a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche» (Gn 2,20); è l’uomo a dare il nome alla donna; è l’uomo a «conoscere» la donna per concepire un figlio (Gn 4,1). Il rapporto di diversità contribuisce a definire la preminenza dell’uomo sulla donna, del principio maschile su quello femminile, della memoria sulla storia. La parola ebraica utilizzata per indicare il maschio (o il maschile), zakàr, richiama per consonanza un’altra parola, zéker, «memoria», e, ancora, zikkaròn, «memoriale». È detto nella Scrittura: «Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore vi ha dato? Tu risponderai a tuo figlio…» (Dt 6,24). È detto «a tuo figlio» e non a «tua figlia» per insegnarci che la memoria, la trasmissione della tradizione, lo studio e l’osservanza completa della Torà sono ambiti maschili. La donna, invece, nel rapporto di diversità e insieme di complementarietà, è chiamata a svolgere un ruolo specifico legato alla vita e alla famiglia, secondo quanto ci insegna un’altra parola ebraica: toledòt, «generazioni», «storia»; parola che deriva da una radice legata all’atto del generare proprio della donna.

La storia non è il concatenarsi dei fatti e degli eventi, ma il susseguirsi delle generazioni, di nascita in nascita, secondo il principio femminile. La storia, ossia il prodotto del principio femminile, non è sopprimibile perché è vita che dà la vita; ma la direzione che la «storia» così intesa deve seguire è determinata da chi detiene, nella linea del principio maschile, il potere della memoria e della tradizione, ovvero da chi conosce le strade che tengono unita la comunità e che portano a Dio.

Ogni uomo ebreo, ogni giorno (al mattino appena sveglio), dovrebbe recitare tre benedizioni; di queste, la seconda chiarisce una delle ragioni della prevalenza del maschile sul femminile: «Sia benedetto il Signore, nostro Dio, re del mondo perché non mi ha fatto donna». Questo non significa squalificare o sottomettere la donna o il femminile, ma riconoscere che, non essendo le donne tenute a osservare quei precetti positivi che sono legati a un tempo specifico, la Torà completa (e, quindi, il senso del mondo) è consegnata solo agli uomini, ossia al principio maschile, perché la «facciano» e la «ascoltino» (Es 24,7).

Detto in altri termini: agli uomini la parola nello studio e nella preghiera, alle donne il silenzio insopprimibile della vita.

Gianpaolo Anderlini

Nel Corano

Dio nel Corano fa da punto di irraggiamento di un linguaggio dominato dal maschile. Sotto questo profilo si sarebbe indotti a ritenere che il femminile e, conseguentemente, il genere costituisca una dimensione inclusa e quindi subordinata a un orizzonte che parla al maschile. Tuttavia, va considerato che in questo modo il Corano istituisce un perentorio scarto rispetto al politeismo pagano, dove gli dei variamente sessuati mettevano in scena la rappresentazione di un mondo assai meno caratterizzato dall’uguaglianza di ogni essere umano di fronte a Dio.

Il testo coranico proclama l’irrilevanza di qualsiasi differenza razziale o di colore della pelle tra gli uomini, a fronte della fondamentale distinzione tra fede e miscredenza, tra adesione consapevole a Dio e rifiuto, così afferma la pari possibilità per uomini e donne di accedere alla salvezza: «Daremo una vita eccellente a chiunque, maschio o femmina, sia credente e compia il bene» (XVI, 97).

La differenza tra maschio e femmina s’inserisce piuttosto in quella valutazione positiva della pluralità delle forme del genere umano, che si traduce nella conoscenza reciproca che contribuisce al riconoscimento attivo del volere divino.

«O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosceste a vicenda. Presso Allah, il più nobile di voi è colui che più Lo teme» (XLIX,13).

Quindi, sia gli uomini che le donne sono nella condizione di fare il bene o il male e portarne le conseguenze. E questa relazione con il volere di Dio è evidentemente più rilevante di qualsiasi differenza determinata dai rapporti che gli uomini organizzano tra di loro.

Quindi, rispetto all’epoca precedente la sua rivelazione, durante la quale la donna era quasi un oggetto al servizio dell’individuo maschile e la neonata figlia veniva seppellita viva, il Corano opera una forte rivalutazione della sua posizione e comincia a fornire una serie di garanzie a tutela della sua dignità individuale all’interno della comunità.

«Ecco quello che Allah vi ordina a proposito dei vostri figli: al maschio la parte di due femmine. Se ci sono solo femmine e sono più di due, a loro [spettano] i due terzi dell’eredità, e se è una figlia sola, [ha diritto al] la metà. Ai genitori [del defunto] tocca un sesto, se [egli] ha lasciato un figlio» (IV, 11).

Qui risulta evidente il riconoscimento in sede giuridica e, diremmo noi oggi, politica, di una superiorità accordata al maschio, però non illimitata, vincolata da un sistema di proporzioni che mantiene comunque la donna in una condizione di membro della comunità dotato di diritti.

La voce di Dio nel Corano, quando parla degli uomini e agli uomini, sembra alludere essenzialmente a questo complesso di figure proprie del mondo dei maschi tranne, come si è visto, quando intende ribadire la piena eternità della donna al destino dell’umanità. Se per un verso, soprattutto l’esperienza mistica scoprirà aspetti sempre più complessi nell’immaginario maschile, la vicenda storico-sociale dei popoli a prevalenza musulmana testimonierà la tenacia di quei sostrati antropologici nei confronti dei quali il Corano prendeva le distanze.

«Si sarebbe forse preso delle figlie tra ciò che ha creato e avrebbe concesso a voi i maschi? (16). Quando si annuncia a uno di loro ciò che attribuisce al Compassionevole, si adombra il suo viso e si rattrista (17)» (XLIII).

Passo dove si fa riferimento alla tendenza a concepire come una disgrazia la nascita di una figlia invece che di un maschio. Da ciò una conseguenza paradossale: la dominante maschile del linguaggio del Corano forse non è stata felicemente compresa, cosa che ritarda la nascita, nelle culture ispirate all’islam, di un discorso sui maschi come parte, cioè come condizione non immediatamente coincidente con la totalità dell’umano; problema largamente condiviso come dimostrano fenomeni di reazione quali il femminismo anche nel mondo occidentale.

Mohammed Khalid Rhazzali

Nel Nuovo Testamento

Si potrebbe dire che il dato maschile sia preponderante nel Nuovo Testamento: sono maschi Gesù Cristo, i discepoli, gli avversari del Signore e, infine, Gesù Cristo chiama Dio con il nome di Padre (non di madre). Quindi si potrebbe cadere nel fraintendimento che sia il maschile la parte più santa o amata del cristianesimo.

In realtà, abbiamo già visto come anche il dato femminile (cfr. Madrugada n. 80) sia adeguatamente sottolineato: la nascita di Gesù Cristo da una donna, il seguito femminile delle discepole, il paragone di Dio con una madre, con una chioccia.

Detto questo, potremmo soffermarci su quello che il maschile evoca nel Vangelo, vedendo che maschile e femminile non sono dati contrapposti ma modalità dialogiche, diverse ma complementari, della rivelazione di Dio e del discepolato.

Gesù Cristo si proclama Figlio di Dio Padre. Il dato maschile è sottolineato dalla generazione, ma questo non vuol dire che Dio sia maschio, ma che all’interno di Dio esiste una relazione di cui la figura paterna è un simbolo (chi può dire come sia Dio in sé stesso?). Il padre, oltre a generare, chiama fuori: non è come la madre un grembo accogliente (per quanto si parli proprio di «seno del Padre» in Gv 1,18, quindi di un Padre che ha un grembo!), ma una via, una guida, un elemento di confronto. Nella relazione trinitaria, rivelata da Gesù Cristo, si parla proprio del dialogo, di una sorta di programmazione «dell’azienda di famiglia» (economia della salvezza): «Gesù disse: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco». Per questo i giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio. Gesù riprese a parlare e disse loro: «In verità, in verità io vi dico: il Figlio da sé stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati. Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole. Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato»» (Gv 5,17-23).

Questo dato maschile che parla di azione, di impegno, di decisione, è poi raffigurato da altre immagini: Gesù si proclama il buon pastore. Egli è colui che certo dà la vita per le pecorelle, ma anche le guida, le incita, le raduna, le cerca (Gv 10). È interessante che il pastorale, cioè il bastone che usa il vescovo nelle liturgie, simboleggi proprio il bastone del buon pastore. Ebbene, l’estremità inferiore del pastorale è appuntita: è il pungolo di colui che è chiamato a guidare, a condurre, cioè di chi assume una caratteristica tipicamente maschile.

Gesù rivela un Padre che educa, un pastore che guida, e si mostra come il maestro insegna: il dato maschile è la forza, la costanza, la precisione della regola da perseguire. Se il femminile parla di accoglienza, il maschile sottolinea la decisione e la fermezza, come quando Gesù «prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51), dove letteralmente è scritto che Gesù «indurì il suo volto», cioè si mise a muso duro verso Gerusalemme, con decisione, forza e piglio maschile.

Al momento della creazione, per quel che riguarda l’essere umano formato da maschile e femminile, Dio formula la sua intenzione prima di realizzarla: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (Gen 1,26), così la pienezza dell’umanità redenta da Cristo trova nel Figlio il metro di misura per essere a somiglianza di Dio Salvatore. Un Figlio connotato dal maschile e corroborato dal femminile, dalla forza e dalla mitezza, dalla decisione e dalla misericordia.

Elide Siviero