La paura dell’artificiale
«La permanenza dell’uomo è l’avventura.
La natura dell’uomo è l’artificio»
E.Mounier
Spacca il tuo computer
All’epoca della seconda rivoluzione industriale, nel lontano 1872, lo scrittore inglese Samuel Butler racconta che nella città fantastica di Erewhon due partiti lottano tra loro in modo accanito. Il primo ha una fiducia cieca nelle macchine e nello sviluppo tecnologico. Prevale tuttavia il partito contrario: si decide alla fine di distruggere tutte le macchine più evolute, fatto salvo alcuni strumenti rudimentali, e indispensabili, come falci e martelli.
La città ha paura delle macchine. Non è la prima, né l’ultima volta. Il movimento operaio dei luddisti assaltava e sabotava le macchine a vapore nell’Inghilterra della prima rivoluzione industriale. A New York, nell’era della rivoluzione digitale, fanno lo stesso i neoluddisti americani in giacca e cravatta: spaccano i personal all’insegna del motto «distruggi il tuo computer».
Prometeo e la vergogna
Sulla questione della tecnica i pareri sono sempre doppi: chi l’esalta e chi la disprezza, chi la guarda con speranza e chi con timore, chi si tuffa nella sua avventura e chi denuncia l’apocalisse del mondo e dell’uomo. La Cronaca di Norimberga (1398) accusa i «meccanismi rotanti» di venire «direttamente dal demonio». Per la femminista Donna Haraway bisogna invece ibridarsi con il computer, dal momento che «non c’è più spazio per opposizioni ontologiche tra l’organico, il tecnico e il testuale». Non si tratta però di medioevo e di modernità, di arretratezza e di progresso. Si tratta piuttosto di atteggiamenti contrari che lottano tra di loro fin dal momento in cui Prometeo ha rubato il fuoco agli dèi ed è stato punito, o in cui la discendenza di Caino il fratricida dà inizio, con il figlio Enoch, a una storia del genere umano fatta insieme di tecnologia e di violenza.
Quali i motivi per schierarsi da una parte o dall’altra? Per i fiduciosi la tecnica appartiene alla natura stessa dell’uomo, è una protesi del suo corpo – pensiamo alla mano, alla vanga, al braccio meccanico della gru -, e lo libera dalla fatica dell’esistenza materiale: la tecnica aiuta l’uomo a diventare un po’ più spirituale. Gli impauriti leggono nella tecnica segnali di sventura: l’evoluzione della macchina è inarrestabile come un cancro, e tra poco raggiungerà l’uomo, fino a surclassarlo. Ecco il motivo della distruzione delle macchine: l’uomo si sente inferiore, prova vergogna di fronte a qualcosa che ha creato ma che lo supera per forza, resistenza, velocità, evoluzione, autosufficienza, forse intelligenza.
Prometeo ha rubato il fuoco agli dèi, ha dato vita alla tecnica e ha facilitato la vita dell’uomo. Ma gli uomini provano vergogna, e paura, per la loro impresa.
La tecnica e la persona
Di fronte alla tecnica bisogna schierarsi, la città si deve decidere. Il progresso tecnologico sembra inarrestabile. Il mondo è aperto a possibilità inedite, ma anche rischiose. La vita stessa dell’uomo è aggredita, assediata da una manipolazione senza fine.
Emmanuel Mounier scrive sulla tecnica a metà strada tra due rivoluzioni: industriale e digitale. A differenza di molti altri intellettuali cattolici, non si accoda al coro delle lamentele e dei rimproveri, non si straccia le vesti, non sogna un mondo agreste e senza tecnica. Non si schiera con i tradizionalismi che vedono nella macchina, e nel progresso, la corruzione della creazione e dell’umanità. Non sfrutta la paura dell’artificiale come il paravento di una cultura reazionaria. Non cade neppure in una difesa acritica. Tutto il contrario.
«La permanenza dell’uomo è l’avventura. La natura dell’uomo è l’artificio». In Che cos’è il personalismo? (1946), tradotto allora da Einaudi, Mounier se ne esce con questa sentenza che non lascia dubbi, e dove si rispecchiano un atteggiamento e un’opera: La paura dell’artificiale (1947).
La natura dell’uomo è l’artificio, il suo modo di essere un cammino. Significa che non vi sono motivi preventivi per rifiutare la tecnica, oppure che i motivi per averne paura non stanno esattamente nell’artificiale stesso. Il rapporto tra la persona e la tecnica non è qualcosa di estrinseco, non appartiene a una storia di peccato e di corruzione: entra a pieno diritto nell’avventura dell’uomo.
Il corpo e il lavoro
Mounier non difende la tecnica per una fiducia incondizionata, che si porta dietro magari qualche ingenuità come il giudizio sul telefono (a fili, ovviamente) che avrebbe ormai completato la sua evoluzione tecnologica. La difende invece perché preoccupato di quello che passa culturalmente, e religiosamente, nel suo rifiuto. In gioco è l’incarnazione: lo spirituale non consiste nel disprezzo del corpo e del lavoro, ma nel farsi responsabili della condizione incarnata dell’uomo.
I nemici feroci che lottano accanitamente tra loro inseguono stranamente l’identico scopo: i progressisti tecnologici vogliono ridurre l’uomo alla sua anima, sollevandolo dal peso della materia; e gli spiritualisti reazionari, che sognano la condizione degli angeli, non accettano davvero la sua incarnazione. Nell’esaltazione o nella condanna, l’effetto è identico: sopravvivono intatti gli antichi disprezzi sul corpo e sul lavoro dell’uomo; e si scaricano altrove le proprie responsabilità.
Né capitalismo tecnologico, né casseforti dello spirito. Mounier rivendica una liberazione e una responsabilità: liberazione dai sospetti e dai disprezzi così tenaci – dalle ingiustizie – sul corpo e sul lavoro; responsabilità indifferibile per la situazione concreta dell’uomo.
Con il proprio corpo non si è ancora fatta pace; con il lavoro ancora meno. Del discorso di Mounier sulla tecnica se ne ricordano in pochi. Se ne dimenticano gli esaltati della tecnica, poco propensi ai richiami alla responsabilità; e se ne scordano gli apocalittici, troppo inclini a fare di ogni erba un fascio. Anche i cristiani hanno la memoria corta.
Segno, purtroppo, che la strada indicata di uno spirito incarnato, di una responsabilità per l’altro, rimane ancora troppo in salita.