Il femminile

di Anderlini Gianpaolo, Khalid Rhazzali Mohammed, Siviero Elide

Nella Torà

La tradizione ebraica parla di Dio in modo simbolico secondo schemi propri dell’immaginario maschile (creatore, giudice, padre, uomo di guerra, liberatore, consolatore, redentore), e, nello stesso tempo, riesce a far emergere il lato debole e inerme, sofferente e amorevole (quindi femminile) della sua presenza/assenza (la Shekinà). Ma Dio, del quale si può parlare solo utilizzando la lingua dei figli dell’uomo, è altro rispetto a ciò che lo nomina e lo definisce: egli è l’Indicibile e l’Indifferenziato. Non è il principio maschile che governa il mondo, né il principio femminile che regola la vita e la natura, e nemmeno è l’unione dei due principi. Egli è il Dio Uno (l’infinito, il tutto, il Vuoto), che sceglie di separare e di differenziare creando il mondo, l’uomo (e il sabato). La separazione, motore della creazione, provoca la rottura dell’unità e apre l’uno al due (e, di conseguenza, al plurale e al molteplice). In questa prospettiva è significativo che, a riguardo del secondo giorno della creazione, il giorno che fa sì che l’uno divenga il primo a cui segue un secondo (e un terzo, all’infinito), la Scrittura non riporti nessun giudizio di bontà, come invece avviene per gli altri giorni di quella prima settimana (il primo, il terzo, il quarto, il quinto e il sesto) (cfr. Gn 1,1-29).

Un processo analogo avviene anche per quanto riguarda la creazione dell’uomo, nella duplice dimensione che la caratterizza: «a immagine di Dio» e «secondo la sua somiglianza». Mentre la biodiversità del mondo creato è definita per gli esseri viventi del mare, della terra e del cielo, e per i vegetali, secondo le rispettive specie (diversità indifferenziata), dell’uomo la Scrittura dice: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina (zakàr uneqevà) li creò» (Gn 1,27). Secondo una tradizione aggadica riportata nel Talmud (bEruvin 18a; bBerakot 81a), Dio avrebbe, all’inizio, creato l’uomo con due facce, quella maschile e quella femminile; questo ci insegna che la separazione, nel segno del due, è necessaria e dolorosa e, nello stesso tempo, negativa e positiva. L’uomo, o l’umanità indifferenziata, è nel segno dell’uno, la donna-femmina è nel segno del due, ossia della pluralità e della molteplicità, non come tratto legato alla fertilità e alla procreazione (altrimenti il principio di separazione sarebbe esteso anche agli altri esseri viventi), ma nel segno della differenza e dell’alterità. L’uomo al cospetto di Dio potrebbe pensare che tutto è ancora uno; il maschio e la femmina al cospetto di sé stessi e di Dio vedono necessariamente il mondo in forma duale e plurale. E in tal modo il principio femminile diviene il rischio al quale la creazione, per mano di Dio, si apre nel momento stesso in cui non è più possibile ritornare a un’unità indifferenziata. Il maschio non è la femmina, il femminile non è il maschile: l’uno e l’altra si fronteggiano nella diversità dei bisogni, dei ruoli, del modo di sentire e del peso specifico che assumono. Secondo la tradizione biblica ed ebraica l’uomo-maschio viene prima della donna-femmina, sia nell’ordine temporale della creazione sia come importanza.

Il racconto biblico si spinge oltre e disegna un orizzonte positivo: l’immagine di Dio, iscritta nell’umanità, passa necessariamente sia per l’uomo-maschio sia per la donna-femmina. Pertanto l’uno è necessario all’altra e viceversa, non nel segno della complementarietà sessuale, ma nella dimensione dell’immagine divina che, nel tempo della separazione e della differenziazione, incarnano. L’uno e l’altra, infatti, ci portano, separati ma insieme, la testimonianza del cammino che l’umanità è chiamata a compiere sulla Terra: andare a Dio lungo il cammino di santità tracciato dalla Torà.

Ed è per questo che la tradizione ebraica insiste sia sui meriti dei Padri (Abramo, Isacco, Giacobbe), sia sui meriti delle Madri d’Israele (Sara, Rebecca, Lea, Rachele).

Gianpaolo Anderlini

Nel Corano

Spesso, nelle rappresentazioni circolanti in Occidente sul cosiddetto «mondo islamico», s’insiste sulla particolare durezza implicita nella condizione femminile, che renderebbe le donne totalmente subalterne a sistemi di comportamento e definizioni identitarie dettate dallo strapotere degli uomini. In realtà, anche se molte circostanze possono confermare tale immagine, per ciò che riguarda le società dei paesi a prevalenza religiosa musulmana, buona parte degli usi e delle concezioni debbono venire considerati come caratteristiche più o meno tenaci di società tradizionali, o, se vogliamo, sostrati antropologici che a lungo hanno convissuto con l’islam, ma che non ne derivano, e che per molti aspetti contrastano con il messaggio coranico e con le più significative tradizioni teologiche, filosofiche e giuridiche sviluppatesi nel contesto dell’islam.

In sede storiografica si potrebbe sostenere che all’epoca dell’instaurazione dell’islam, la proposta coranica, per buona parte delle popolazioni coinvolte, rappresentò un accresciuto riconoscimento della posizione della donna nella vita spirituale e nella comunità. Ciò non toglie che oggi si avverta lo stridore tra una religione che potrebbe confrontarsi originalmente con la modernità e la sopravvivenza di forme arcaiche ormai incapaci di mettere a frutto elementi importanti da esse custoditi.

Nel Corano la creazione del genere umano presenta la duplicità dei generi, senza tratti diminutivi nei confronti dell’elemento femminile e l’ordine che si realizza attraverso l’adesione degli esseri umani alla volontà di Dio trova, nel prodursi di giusti rapporti e di felici intese tra i sessi, una sua componente essenziale. «Uomini, temete il vostro Signore che vi ha creati da un solo essere, e da esso ha creato la sposa sua, e da loro ha tratto molti uomini e donne. E temete Allah, in nome del Quale vi interrogate a vicenda; rispettate le viscere nelle quali siete stati» (IV, 1).

Nel rapporto tra uomo e donna è iscritto il tema dell’incontro e della possibile unione tra ciò che è diverso, che detta la traccia per una interpretazione positiva della pluralità delle genti e delle loro diverse culture (XLIX, 13).

Per quanto concerne la definizione giuridica delle relazioni tra i generi, il testo coranico sembra preoccupato di una realtà storica nella quale la condizione femminile non è particolarmente vantaggiosa, di garantire diritti minimi. «Agli uomini spetta una parte di quello che hanno lasciato genitori e parenti; anche alle donne spetta una parte di quello che hanno lasciato genitori e parenti stretti: piccola o grande che sia, una parte determinata» (VI, 7). Così la parte a essa accordata fa della donna un soggetto di diritto.

Nella parte rivelata alla Mekka del Corano la creazione dell’umanità nei due generi prende l’aspetto del miracolo in cui si manifesta la potenza di Dio (LXXV), che nell’immagine della generazione si mostra come capace del prodigio supremo, quello che giustifica la promessa della vita eterna e la risurrezione dei morti. Qui il femminile si presenta come elemento assai importante di tutta la dimensione evocata dalla caratteristica compassionevole e misericordiosa di Dio. Se ne potrebbero seguire le tracce considerando l’eccezionale importanza che nella vita religiosa del mondo musulmano viene ad avere la devozione per una serie di figure femminili che trovano in Miriam, Maria, madre di Gesù, un loro prototipo, come avviene nella Sura mekkana, appunto, a dedicata (XIX Maria).

Mohammed Khalid Rhazzali

Nel Nuovo Testamento

Il mondo del vangelo è tutto ricco di tratti femminili, sia per la presenza delle donne che per le qualità del «mite e umile di cuore» (cfr Mt 11,29). Gesù Cristo, infatti, ha saputo coniugare la virilità con le caratteristiche femminili dell’ascolto, dell’accoglienza, del servizio, della tenerezza.

Egli non solo apprezza, valorizza, stima le donne, ma assume quello che il mondo femminile può raccontare.

L’apprezzamento per le donne lo vediamo fin dalla sua nascita: Maria, la Madre Vergine, è colei che accoglie la Parola di Dio per dare carne umana al Verbo eterno. Il racconto dell’annunciazione (Lc 1,26-38) ci presenta il ruolo fondamentale di questa donna che, acconsentendo alla proposta divina, diventa grembo dell’eterno. Nessuna divinizzazione di un uomo, ma l’esatto contrario: un Dio che si fa uomo e per questo viene concepito nell’utero di una donna. Già nel suo esordio il Vangelo ha qualcosa di dirompente e di assolutamente nuovo. Non una teogamia come nelle religioni antiche, ma la potenza dello Spirito Santo che permette la venuta del «Dio con noi».

Gesù non è un’apparizione celeste; grazie alla sua nascita da una donna, egli è pienamente inserito nell’umanità e nella storia, «in tutto simile agli uomini» (Fil 2,7). «Perché diciamo che Cristo è uomo – scrive Tertulliano – se non perché è nato da Maria che è una creatura umana?».

San Paolo scrive: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). È bello quanto dice padre R. Catalamessa a proposito di questo testo: «Se Paolo avesse detto: «nato da Maria», si sarebbe trattato solo di un dettaglio biografico; avendo detto «nato da donna», ha dato alla sua affermazione una portata universale e immensa. È la donna stessa, ogni donna, che è stata elevata, in Maria, a tale incredibile altezza» (predica di Avvento alla Casa Pontificia 2008).

Maria è anche il modello, il simbolo stesso della Chiesa, grembo che genera nuovi Cristi nella fede del Figlio di Dio. Il femminile così caratterizza la struttura stessa del credere cristiano, perché non esiste cristiano senza Chiesa.

Ritroviamo questa fulgida donna, assieme alle altre donne, sotto la croce: lei è ferma e irremovibile, rocciosa, (cfr Gv 19, 25: «Stava presso la croce di Gesù sua Madre…») Giovanni usa proprio il verbo ìstemi – stare in piedi, che porta in sé l’immagine della roccia irremovibile. Fra gli ondeggiamenti del mondo, è lei quella che rimane ferma, risoluta sotto la croce, per ricevere da quel luogo di dolore il dono dei figli da condurre nel luogo della gioia e della gloria.

Saranno poi le donne a dare l’annuncio della risurrezione: esse che non hanno abbandonato Cristo nella morte, sono anche le prime a ricevere l’annuncio della Pasqua per poi diventare le prime testimoni, apostole, annunciatrici della risurrezione.

Forse queste presenze delle donne nel Vangelo, che segnalano le caratteristiche della femminilità (disponibilità, tenacia, amore appassionato, coraggio, fecondità), plasmano anche la mentalità del Figlio di Dio che è anche Figlio di Maria. Ad esempio, egli usa l’immagine della partoriente per raccontare l’attesa del regno di Dio: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16, 21-22). Non solo, egli paragona sé stesso a una chioccia (cfr. Lc 13,34) per raccontare il suo amore che quindi ha le sfumature della tenerezza materna.

Il femminile nel vangelo ci racconta la portata immensa di questa fede che non è appannaggio del solo mondo maschile, ma si apre a tutta l’umanità come sottolinea Paolo: «Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,27-28).

Elide Siviero