Ortodossia

di Anderlini Gianpaolo, Khalid Rhazzali Mohammed, Siviero Elide

Nella Torà

«(Mosè) prese in mano il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: Tutto quello che il Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7). Nella Scrittura non c’è un passo che esprima in modo più profondo il rapporto che lega strettamente il popolo ebraico a Dio e alla rivelazione. Prima viene il fare, ossia il compiere i precetti, ovvero il primato della prassi, e poi l’ascoltare, ossia l’interpretare e il compiere la Scrittura. Nella tradizione ebraica non c’è spazio per l’ortodossia, intesa come espressione codificata e dogmatica dei cardini della fede o come professione di fede individuale o comunitaria; questo perché la via propria dell’ebraismo non si fonda sulla riflessione teologica (ossia parlare di Dio) o sull’assoggettamento completo a Dio, ma nasce dall’incontro, ma anche dal confronto, portato fino allo scontro, con Dio (ossia parlare con Dio). E questo incontro si realizza in ogni singolo momento della vita e richiede, passo dopo passo, precetto dopo precetto, la risposta libera dell’uomo, chiamato a fare e ad ascoltare lungo la via di santità consegnata da Dio all’uomo dal monte Sinài, come è detto: «Siate santi per me, perché io sono santo e vi ho separati dagli altri popoli perché siate miei» (Lv 20,26).

Se l’ebraismo si pone come cammino fondato sull’imitazione di Dio, quali sono i principi irrinunciabili sui quali si fonda? Ovvero: è possibile stabilire una linea di confine capace di separare l’ortodossia dall’eterodossia? La tradizione ebraica ha cercato risposte seguendo diverse strade che non conducono a formulare dogmi o principi teologici, ma a definire le modalità che permettono all’uomo di aderire a Dio e di camminare lungo la via da lui tracciata. A Simone il Giusto, uno dei primi maestri del cosiddetto giudaismo rabbinico, la tradizione attribuisce il seguente detto: «Su tre cose si regge il mondo: sulla Torà, sul culto e sulle opere di misericordia» (Pirqè Avot I,2).

Il mondo si regge su tre pilastri che chiamano l’uomo, in ogni generazione, ad agire e a operare, qui e ora, nel rispetto del prossimo, di Dio e del mondo creato, seguendo un cammino che fonda l’etica e la morale sulla Parola che si fa carne e sangue, qui sulla Terra, nella dimensione dell’amore, come è detto: «Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze» (Dt 6,5); e ancora: «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14). Ne deriva che ogni tentativo di imbrigliare la fede in una rete di dogmi o di individuare nell’insieme dei 613 precetti, rivelati nella Torà, principi generali che li riassumano, è destinato a fallire o a riaprire all’infinito la discussione.

Tutto è domanda, discussione, confronto che dà luogo ad altra domanda che, a sua volta, conduce alla discussione e al confronto, all’infinito, nel tempo delle generazioni dei figli di Adamo. Anche quando si individua, come fa rabbi Aqivà, il più grande principio della Torà in un passo che ci sembra incontestabile come: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18), subito si alza chi muove obiezione (Ben Azzai in questo caso) e sostiene che c’è un principio ancora più grande: «Questo è il libro delle generazioni di Adamo: quando Dio creò l’uomo lo fece a immagine di Dio» (Gen 5,1) (cfr. jNedarim IX, 4; 41c).

Questo ci insegna che non si può contenere la fede in un principio generale o in regole che determinano l’ortodossia e anche l’ortoprassi: non basta l’amore, delimitato e limitante, per il prossimo inteso come «figlio d’Israele», non basta l’amore per ogni uomo e per ogni essere vivente e, in ultima analisi, non basta nemmeno l’amore per la Torà e, forse, nemmeno l’amore per Dio. Occorre il coraggio (e, forse, la lucida follia) di andare oltre, sempre, in cerca di un confine o di un limite che non è in nessun luogo e in nessuna parola detta dall’uomo o rivelata da Dio.

Gianpaolo Anderlini

Nel Corano

Non è semplice costruire una lineare corrispondenza tra il concetto di ortodossia, così come si è andato sviluppando nel patrimonio concettuale delle culture segnate dal cristianesimo, e nozioni presenti nel patrimonio teologico islamico.

Come in parte è noto, nel contesto islamico il rapporto che, a partire dal Corano, Dio intrattiene con il singolo credente supera qualsiasi mediazione, per quanto questo non escluda né forme di autorevolezza teologica e giuridica, né, tantomeno, momenti di elaborazione comunitaria dell’esperienza religiosa, come avviene nelle confraternite sufiche. Quindi, sia le scuole giuridiche (Malikita, Hanbalita, Chafi’ita, Hanafita), sia le autorità quali l’Alim (sapiente/giurista) o il Mufti (giurisperito), pur rappresentando momenti di importante orientamento, non possono essere paragonati a ciò che in un contesto cristiano è costituito dai Concili o dalle prerogative papali in materia di fede. Indubbiamente si può recuperare un elemento che rinvia alla nozione di ortodossia nell’opposizione tra Halal-Haram [lecito-illecito] (che peraltro si articola in forma più complessa attraverso i concetti di Makruh [sconsigliato] e Mubah

[ammissibile]

) e nel richiamo costante alla gravità del comportamento di quanti deviano, con il loro disordine esistenziale, prima ancora che con posizioni dottrinali, dalla retta via rappresentata dall’islam, inteso come adesione alla volontà di Dio e alla Parola del Corano. «Gli uomini formavano un’unica comunità. Allah poi inviò loro i profeti, in qualità di nunzi e ammonitori; fece scendere su di loro la Scrittura con la verità, affinché si ponesse come criterio tra le genti a proposito di ciò su cui divergevano. E disputarono, ribelli gli uni contro gli altri, proprio coloro che avevano già (la scrittura come criterio). Eppure erano giunte loro le prove! Allah, con la Sua volontà, guidò coloro che cedettero a quella parte di Verità sulla quale gli altri litigavano. Allah guida chi vuole sulla retta Via» (II, 213).

Come si vede da questa Aya (versetto), la deviazione che si sarebbe tentati di chiamare eterodossa rappresenta in realtà più una declinazione negativa dello stile di vita che l’assunzione di una posizione criticabile in materia teologica. Certo, è sempre esistita nel contesto sunnita (più complicato il caso shiita) una forte resistenza degli Ulema (pl. di Alim) e delle stesse autorità politiche nei confronti delle forme più vistose dell’esperienza mistica sufica, accusate spesso di debordare dal solco dell’islam. Anche in questo caso, peraltro, è il complesso delle pratiche, delle forme che chiameremmo oggi di comunicazione, a cadere sotto la censura come incompatibili con il comportamento ispirato agli insegnamenti coranici.

Comunque, la vera «ortodossia» nell’islam sembrerebbe essere essenzialmente un movimento concreto della vita complessiva di un uomo verso il richiamo di Dio, cui spetta sempre e in esclusiva il giudizio sulla salvezza e sulla dannazione. Giudizio che comunque è affidato a chi, prima di ogni altro nome, è salutato come clemente e misericordioso.

«E dicono: «Perché non è stato fatto scendere su di lui un segno [da parte] del suo Signore?». Di’: «In verità Allah ha il potere di far scendere un segno, ma la maggior parte di loro non sa nulla»» (VI-37).

«Quelli che smentiscono i Nostri segni, sono come sordi e muti [immersi] nelle tenebre. Allah svia chi vuole e pone chi vuole sulla retta via» (VI-39).

Certamente in epoche più recenti, tendenze note come fondamentaliste, che propongono un’immagine semplificata e, a volte, schematica della religione islamica sono più propense a concepire nette opposizioni tra quanto esse ritengono giusto e corretto e quanto non lo sarebbe. In ciò opera senz’altro un concetto di ortodossia che più che aderire all’ispirazione propria dell’islam, pare assumere i tratti dogmatici di una ideologia.

Mohammed Khalid Rhazzali

Nel Nuovo Testamento

La parola ortodossia deriva dall’unione di due termini greci: òrthos ( οῤθός), retto, corretto e doxa (δόξα), opinione, dottrina e può essere usata in diverse accezioni. In generale, può indicare l’insieme completo dei principi di un’ideologia, di una corrente di pensiero, di una dottrina filosofica e religiosa e così via. Per estensione, può riferirsi all’accettazione piena e coerente di tali principi, opponendosi così all’eresia. Nell’ambito cristiano tale parola può riferirsi sia all’insieme degli insegnamenti ufficiali della Chiesa cattolica romana, sia a una confessione particolare della fede cristiana che fa riferimento alla Chiesa Ortodossa, il cui nome sottende l’idea di ortodossia come stretta aderenza agli insegnamenti originali di Cristo.

In questa sede però ci limiteremo ad affrontare questo tema sotto il profilo evangelico. Se ortodosso vuol dire custode della vera fede, ecco che nel vangelo è Gesù Cristo colui che si presenta come tale. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù proclama: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). La via, segno dell’orientamento da prendere, annunciata più volte nell’Antico Testamento come possibilità di scelta, è solo Gesù. Egli è la meta e nello stesso tempo anche il mezzo per raggiungerla; il fine e anche la strada per arrivarci. Per questo Egli si proclama e via, e verità e vita. È l’unico punto del Vangelo in cui Gesù attribuisce a se stesso tre sostantivi. Non possiamo leggere questo come un’autodefinizione, ma come un’allegoria che mostra la realtà di Gesù nei confronti degli uomini. Sarebbe meglio, quindi tradurre con «Sono io la via…».

A chi cerca la strada Gesù propone se stesso. Così comprendiamo che la via non è solo una strada, ma una persona da seguire; la verità non è un concetto da apprendere, ma un uomo da frequentare perché mostra Dio, lo rivela; la vita non è un dato biologico, ma un amore da amare. Questi termini «via, verità e vita» erano usati nel salmo 119/118 per indicare la Legge mosaica. Gesù, quindi, si propone come la nuova Legge di Dio, non fatta di prescrizioni ma incarnata in un unico comandamento: «amatevi». Gesù ci dice che c’è un solo modo per seguire la Legge: vivere in Lui. Comprendiamo così che la parola più religiosa che ci sia è «in» che in questo testo ritorna più volte. Il cristiano è chiamato a vivere in Gesù Cristo, così da permettere che egli viva in lui, come dice Gal 2,20: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me..». È l’osmosi dello spirito che ossigena di Dio tutto il mondo. Gesù è la via, perché è l’unico che conduce al Padre; è la verità, perché è l’unico che lo rivela; è la vita, perché è l’unico che può comunicarci la vita eterna di Dio. I tre termini, quindi vanno letti insieme e dicono l’ortodossia proclamata da Gesù.

Nel vangelo di Matteo, Gesù ripropone questo durante il discorso della montagna: «Avete inteso che fu detto agli antichi Non ucciderai, ma io vi dico chiunque si adira con il proprio fratello, dovrà essere sottoposto al giudizio…» (Mt 5,21). Egli si propone così come il legittimo interprete dell’antica Legge. Gesù Cristo non propone un’antitesi, ma una super-tesi che dà profondità ai comandamenti biblici, li accentua, li radicalizza. Come dice Martin Buber: «Il Sinai non gli basta, Gesù Cristo vuole andare oltre, spingersi dentro la nube, per portare a compimento la Legge».

Ireneo di Lione dice: «Portò ogni novità portando se stesso». Con Gesù, la Legge appare in una luce nuova: Gesù non reintegra semplicemente la Legge alterata dalla casistica giudaica, ma la intende come sua parola, la investe della sua rivelazione: per Lui si tratta di superare non la legge, ma il legalismo! Questo per liberare l’uomo e renderlo abitato dall’amore, non solo dal timore di sbagliare. Questa è la buona notizia del Vangelo, la vera via dritta, l’ortodossia.

Elide Siviero