Se la ricerca di consenso produce il conflitto
La rabbia di Cona (una caserma di Venezia dismessa e utilizzata come centro per ospitare oltre mille richiedenti asilo, che hanno protestato per le condizioni in cui vivono), ci dice molte cose che non vorremmo sentire. Prima che la situazione degeneri ulteriormente, sarà bene dunque usarla come occasione per riflettere sulla gestione della cosiddetta emergenza profughi e delle politiche di accoglienza messe in atto finora.
Lo status di rifugiato
Cominciamo dal riconoscimento dello status di rifugiato. Le commissioni che lo decidono sono assai composite: si va dagli esponenti della prefettura ai membri dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, fino a quelli di nomina comunale (in Emilia R. spesso del Pd, in Veneto spesso della Lega). Ma le audizioni sono individuali: si può immaginare quanto discordi finiscano per essere i pareri, che diventano una specie di lotteria a chi trova il funzionario più preparato o meno pregiudizialmente ostile. Se la risposta è positiva (circa un terzo delle domande) tutto bene, e il richiedente asilo può entrare in un percorso di inserimento, lavorare e non pesare più sulla pubblica assistenza (che, per quanto basata in buona parte su fondi europei, ha comunque un costo). Se la risposta è negativa (talvolta ingiustamente, data la soggettività dei criteri) si può ricorrere in appello. In secondo grado, non di rado, il giudice ribalta le decisioni prese dalle commissioni. Anche per questi richiedenti dovrebbe dunque iniziare lo stesso iter dei loro colleghi riconosciuti in primo grado. Tuttavia, su richiesta della Prefettura, l’Avvocatura dello Stato può impugnare le sentenze favorevoli, costringendo le pratiche a un terzo grado di giudizio, con un problematico allungamento dei tempi e a costi notevoli a carico dello Stato. Può capitare infatti che un richiedente asilo finisca per metterci anche due anni per vedersi riconosciuto il diritto, e intanto continua a risiedere nelle strutture e anche se può lavorare non è obbligato a farlo. Se il riconoscimento fosse rapido, entrerebbe invece prima in un processo di autonomia. Paradossalmente, per risparmiare, avremmo interesse a riconoscerne il più possibile e il più rapidamente possibile. Perché, altro paradosso, i non riconosciuti, che non vengono rimpatriati perché non esistono peràmolti paesi accordi di rimpatrio, se non riescono ad andarsene altrove finiscono per allargare la fascia di chi vive di espedienti, in situazione di marginalità e, potenzialmente, di devianza. Che interesse abbiamo?
Alcune cifre per capire
Le cifre sarebbero sostenibili: l’Italia perde ogni anno, a seguito dell’andamento demografico, oltre 300mila persone l’anno in età lavorativa, tra 20 e 65 anni (in Emilia Romagna e nel Nordest in percentuale maggiore, perché la popolazione è più anziana). E il numero di stranieri regolarmente residenti, al netto dei profughi, è addirittura in diminuzione, dato che anche tra loro molti preferiscono andarsene a Londra o in Germania. Meglio averli come lavoratori, allora, gli sbarcati sui gommoni, o come possibili mantenuti fino al termine del terzo grado di giudizio e poi clandestini? Tra l’altro non pochi il lavoro lo trovano: il paradosso è che se poi non vengono riconosciuti, vanno licenziati e immessi in 24 ore nel circuito della clandestinità: una illogicità evidente. C’è poi la questione dell’accoglienza. Siamo tutti d’accordo che sarebbe meglio in strutture con un massimo di 20-25 persone. Se fossero divisi equamente sul territorio, sarebbero pochi per paese. Ma l’irresponsabilità di alcune regioni (per es. Veneto) e dei sindaci, che non ne vogliono nemmeno uno, costringe le prefetture all’utilizzo di strutture enormi e inadatte (e, lo diciamo, incivili) come le caserme dismesse; anche per questioni di comodo: si danno in gestione alle coop meno serie, che puntano più sul lucro che sui progetti di inserimento, come fanno invece le molte strutture serie, danneggiate da questaàpolitica che privilegia la quantità sulla qualità del progetto, il numero di posti letto sui corsi di lingua, di conoscenza della società e sui percorsi personalizzati di inserimento al lavoro. Con le conseguenze che abbiamo visto a Cona.
No quindi alle megastrutture gestite da personale impreparato. Sì a progetti pensati, in cui si studia sul serio, ci si inserisce davvero, accompagnati, non abbandonati. Quelli del no a tutto hanno sulla coscienza – loro più di altri – i conflitti attuali e quelli futuri: perché lucrano sul consenso che produce il conflitto, anziché lavorare perché i conflitti, semplicemente, non si manifestino.
La nuova emigrazione degli italiani
Sono 107mila quelli certificati. Ma sono molti di più gli italiani andati a vivere all’estero lo scorso anno: perché di solito ci si iscrive all’Aire (l’anagrafe degli italiani residenti all’estero) solo dopo anni, quando la partenza non è più un’avventura appena iniziata, ma una fase nuova della propria vita. Lombardia e Veneto sono le prime due regioni da dove si emigra. Si parte per cercare un lavoro che non si trova a casa, ma anche per fare il lavoro per il quale si è studiato, per farlo a condizioni migliori, con un salario più alto. E per fare esperienza, per spirito di avventura, per andare a vivere in paesi e città più stimolanti e vivaci, che offrono opportunità (non necessariamente solo di lavoro: anche di vita, di divertimento) che da noi non ci sono. E, infine, semplicemente perché il mondo è davvero globale, ogni posto è più vicino di prima, i viaggi sono molto più brevi e più economici, e si rimane comunque connessi – grazie a tecnologie economiche a disposizione di tutti – con il proprio paese di origine e i propri affetti. L’idea che muoversi e cambiare può valere la pena l’abbiamo introiettata tutti, ormai. Anche i pensionati che vanno a godersi la pensione altrove.
Perché si emigra dall’Italia
Ma le ragioni, rispetto al passato, sono cambiate. La fame vera c’è, ma è più rara. La disperazione muove una parte degli espatri over 50: espulsi dal mercato del lavoro, non riescono a rientrarci. Ma molti anche in questa fascia d’età cercano solo maggiori opportunità di crescita e salari più competitivi.
E i più giovani? Le ragioni sono molte, ma l’essere costretti a emigrare riguarda solo una parte di loro, reale, ma che non spiega tutto. Quelli con istruzione superiore cominciano a proiettarsi altrove già con gli Erasmus (e un terzo di loro finisce per sposarsi con persone d’altri paesi, scegliendo anche la residenza della persona incontrata). Nel mondo della ricerca si comincia dai primi anni di università a guardarsi in giro per i dottorati all’estero: e, al primo anno di dottorato, si compulsano le mailing list che segnalano le opportunità di lavoro per disciplina, non per paese, nelle aree umanistiche come in quelle scientifiche. Chi sceglie questi lavori lo sa che il mercato è «largo»: e se non lo sa, haàfatto i calcoli male. Nel mondo dell’impresa, in molti lavori tecnici (a tutti i livelli: dall’operaio manutentore all’ingegnere capo, a molti altri) si presuppongono almeno alcuni anni di permanenza all’estero, o presenze temporanee, ma lunghe, legate a progetti. Nel mondo dell’arte, della produzione culturale (musica, danza, cinema, moda), dello sport, nessuno guarda più ai confini nazionali come a un vincolo. Ma anche chi fa il cuoco o il cameriere si proietta in un mondo di mobilità fin dai primi stage. E spesso, spostarsi, è l’opportunità che mancava per uscire dal controllo sociale familiare, per prendere in mano il proprio destino e buttarsi nel mondo senza rete. Il differenziale vero lo fa non il dover genericamente partire (accade anche in paesi messi meglio di noi), ma la tristezza di farlo, perché altrove il welfare funziona meglio, la meritocrazia è reale, e nel caso di molte donne il lavoro non ti punisce per questioni di genere, come ancora succede da noi.
In prospettiva, la mobilità aumenterà ulteriormente, in ingresso e in uscita, quasi ovunque. È un mondo diverso: con i suoi vincenti e i suoi perdenti. Il problema è inventarsi le regole della convivenza in una situazione mutata. Il vero dramma non è l’emigrazione, ma il fatto che il cambiamento sociale è già avvenuto, e noi dobbiamo ancora cominciare a pensarlo.