Uguaglianza

di Panebianco Fabrizio

Non è nemmeno più uno spettro che si aggira per l’Europa, perché è semplicemente scomparsa da tempo dal dibattito economico, politico e sociale. Si parla sempre di ricchi e poveri, di indigenti e paperoni, si fanno indagini sul suo opposto, la disuguaglianza, e si analizzano le distribuzioni dei redditi delle persone, ma lei non la si nomina quasi mai, perché ricorda teorie vecchie, passate, vinte dalla storia. I politici, forse, la guardano con terrore, ripensando a vecchie lotte. Ma oggi ci proviamo e la scriviamo: uguaglianza. A lungo è stata una parola d’ordine importante, al centro di tentativi di cambiamento, dalla rivoluzione borghese a quella proletaria; poi, quasi improvvisamente, travolta dal corso della storia, l’uguaglianza è sparita dal vocabolario degli ultimi venti anni: il modello che ha vinto ha fatto sì che al massimo si potessero denunciare i difetti della disuguaglianza, ma mai elogiare l’uguaglianza.Soffermiamoci un attimo sul perché. L’uguaglianza, ove si sia tentato di applicarla durante i processi di crescita e sviluppo delle nazioni, non ha prodotto quegli effetti magnifici in cui tanto avevamo sperato. Tutt’altro. Da un punto di vista puramente economico una perfetta uguaglianza elimina gli incentivi alla competizione tra gli individui, eliminando perciò le possibilità di crescita dell’economia e della produzione. Quindi, in società in cui questa crescita è necessaria per un aumento del benessere, imporre forte uguaglianza vorrebbe dire impedire le possibilità di crescita della società stessa. Storicamente è quello che si è osservato in moltissime situazioni concrete. Un esempio paradigmatico è la Cina: un forte aumento del benessere della popolazione a livello aggregato si è registrato solo da quando le riforme di Deng Xiaoping sono state implementate, al suono dello slogan «arricchirsi è glorioso».

Facciamo per il momento finta che tutto questo sia avvenuto esattamente come abbiamo appena descritto, senza intoppi, senza problemi sociali devastanti (sappiamo che è solo una finzione) e catapultiamoci, quindi, in una società ormai sviluppata, cresciuta all’idea che in fondo sia la disuguaglianza ad aver promosso il progresso osservato, ponendo eventualmente rimedio alle situazioni di povertà più estreme per mezzo dello stato sociale. Eccoci giunti quindi da noi, nei paesi sviluppati dell’Occidente. Che senso ha, oggi, qui, riproporre ancora questo tema? In maniera sorprendente questa proposta non ci viene da politici, sociologi, economisti, ma da… epidemiologi. Richard Wilkinson e Kate Pickett in La misura dell’anima (Feltrinelli, pp. 304, Eur 18,00) hanno studiato per anni l’impatto della disuguaglianza dei redditi su vari indicatori di benessere e trovato risultati importanti. Innanzitutto analizzano i soli paesi sviluppati, nei quali la ricchezza materiale ha raggiunto, in aggregato, livelli ragguardevoli, e si chiedono se un ritorno a un paradigma dell’uguaglianza possa aumentare il benessere.

Osservano come alti livelli di disuguaglianza nei paesi ricchi sono associati a minor salute dei bambini, a più bassi livelli di fiducia, a maggiori livelli di malattie mentali, a maggiori gravidanze indesiderate tra le adolescenti, ad abuso di droghe, a vita media inferiore, ad alti tassi di obesità, a peggiori performance scolastiche, a più elevati tassi di omicidi e di incarcerazione: un quadro complessivo che dipinge i principali malesseri delle nostre società e che tenta di dare un nome alle cause. L’uguaglianza potrebbe essere, forse, una soluzione troppo semplicistica, eppure rimette sul tavolo una parola, aiutando a eliminare dal dibattito tutte le incrostazioni ideologiche e storiche, partendo da pretese inferiori rispetto a quanto detto nel secolo scorso: forse l’uguaglianza non aiuta i paesi poveri a diventare ricchi, ma aiuta i paesi ricchi a non ammalarsi.